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Il Kosovo: una trappola ad orologeria?

di Adolfo Morganti* - 20/02/2008

 

 

Qualcuno vuol spingere l’Europa in una nuova guerra balcanica?

 

 

 

 

Dal 1914 i destini d’Europa passano irrimediabilmente dai Balcani, e in questa penisola tormentata, che ha conosciuto la sua ultima stagione di pace – e non a caso – solamente al tempo dell’ultima dominazione sovranazionale che l’Europa occidentale ha conosciuto, quella dell’Impero d’Austria-Ungheria, si sono generate o incancrenite tutte le guerre che hanno ridotto l’Europa dopo la prima metà del ‘900 ad un terreno di scontro fra super-potenze.

Visto che abbiamo appena iniziato questo 2008, ricordiamo un anniversario: 90 anni fa terminò la prima Guerra mondiale, ed è impressionante valutare quanto lontano abbia colpito il proiettile di Gavrilo Princip, il serbo che uccise a Sarajevo nel 1914 l’erede al trono dell’Impero d’Austria, l’Arciduca Francesco Ferdinando, in nome di un verbo nazionalista che in pochi decenni dilagò ovunque in Europa, conoscendo quasi unanimi trionfi e seppellendo il continente sotto le macerie di due conflitti mondiali.

Ma quest’anno ricorre anche un altro anniversario sconosciuto ai più, tanto più significativo nel momento in cui coincide con la prima Presidenza di turno dell’Unione Europea affidata ad uno stato balcanico ed ex-comunista, la Slovenia: fu proprio in questa regione che nel 1988 il micro-impero balcanico comunista Jugoslavo, assegnato dagli accordi di Yalta a Josip Broz, noto come il “maresciallo Tito”, iniziò a scricchiolare malgrado il rito vetero-stalinista del processo di stato al sergente maggiore Janez Janša, accusato di aver informato gli studenti e la popolazione civile slovena dell’esistenza di un piano segreto di intervento militare serbo-comunista a contrasto delle sempre più evidenti spinte verso l’indipendenza; Janez Janša fu poi nominato Primo Ministro della Slovenia libera.

Il 23 dicembre 1990, ricordiamolo, in un referendum popolare svoltosi sotto la minaccia dei cingolati del satrapo jugoslavo Slobodan Milosevic, l'88,2% degli Sloveni si pronunciò per l'indipendenza dalla Jugoslavia. Il 27 giugno 1991 l’attacco dell’esercito serbo-comunista alla Slovenia appena indipendente diede inizio ad anni feroci in cui Croazia, Bosnia-Erzegovina, ed infine il Kosovo riassaggiarono i piaceri della guerra e della pulizia etnica; un sanguinoso rito collettivo che allora sfiorò solamente la Slovenia ma infierì in Croazia ed in Bosnia per 4 anni fino al 1995, mentre il Kosovo fu inchiodato dopo il 1992 da una sempre più rigida occupazione militare che conobbe il suo apice nel 1998 quando, il 28 febbraio, milizie serbo-comuniste si abbandonarono a massacri nella zona di Drenica provocando più di 80 morti fra i civili di etnia albanese, mentre nelle settimane successive la polizia e l'esercito di Milosevic attaccarono numerosi villaggi nelle zone centrali del Kosovo, provocando più di 300 morti e seminando fra le diverse etnie della zona un odio interetnico che ancor oggi contribuisce a render di fatto impossibile la costruzione di progetti politici di convivenza multietnica, secondo il modello (ad esempio) bosniaco. Il robusto attacco aereo della NATO nel 1999 ha segnato, come sappiamo, l’inizio della presenza in loco della KFOR, la forza armata internazionale di cui oggi da più parti si invoca il superamento.

Oggi la disgregazione di quell’artificio politico che fu la Jugoslavia si avvia al suo completamento senza che alcuno ne rimpianga alcunché, e il Kosovo ne rappresenta la frontiera più contemporanea e calda: non la prima, non l’ultima, ma in ogni caso al centro oggi di un grand jeu che costringe l’Unione Europea a reimpossessarsi della propria politica estera e di difesa. Prima che nel cuore d’Europa esploda un’altra crisi, che potrebbe avere conseguenze non minori di quelle ancora fresche, degli anni ’90.

In questo grand jeu compaiono, come da copione, le lunghe ombre delle grandi potenze d’oggi, che in modo legittimo operano in difesa dei propri interessi strategici e geopolitici. Da un lato la Federazione Russa, che ha riscoperto tutta l’ampiezza delle proprie relazioni geostrategiche storiche di sempre, e che pertanto non può che permanere la tutrice dei popoli Slavi del sud, ortodossi ed utilizzanti l’alfabeto cirillico: un ruolo che esercita con sempre maggior convinzione e peso politico internazionale. D’altro canto gli Stati Uniti d’America, la cui appassionata ed incondizionata tutela non solo dei diritti umani e politici della minoranza albanese in territorio serbo, ma del loro “diritto” ad una compiuta e completa indipendenza è stata la base che ha dato corpo ad una crescente intransigenza politica degli esponenti politici della maggioranza albanese del Kosovo, ed è di fatto connessa al rapido crepuscolo politico del movimento artefice della rinascita politica kosovara, la Lega democratica del Kosovo (LSK) di Ibrahim Rugova, e all’altrettanto rapida ascesa dell’Esercito di liberazione del Kosovo (UCK) dell’odierno premier in pectore, Hashim Thaci, e della sua repentina trasformazione da movimento di guerriglia (o terroristico, a seconda dei commentatori) in partito di governo. Un’ascesa che ha rapidamente oscurato i molti lati ambigui di questo personaggio, notoriamente esponente di spicco della rete dei Clan che gestisce con efficacia tutta balcanica l’economia parallela della regione, come il rapporto Terrenoire qui pubblicato evidenzia con chiarezza: contrabbando d’armi, droga, prostituzione in costante collegamento con la mafia albanese.

Il primo schieramento arroccato a difesa del diritto internazionale, ventilando non del tutto a torto casi in cui molti paesi dell’UE non sono stati così pronti a riconoscere al proprio interno il diritto di ogni minoranza a costruirsi il proprio Stato.

Il secondo schieramento arroccato a tutela del diritto di autodeterminazione dei popoli, salvo poi diplomaticamente avvertire attraverso tutti i canali di cui la rete americana dispone (in Italia hanno spiccato per peso massmediale le parole di Vittorio E. Parsi) che quello del Kosovo è un caso unico, che non rischierà di contagiare altre regioni “a rischio autodeterminazione”, dai Paesi Baschi alla Cipro del nord invasa dai Turchi. Un’affermazione rischiosa, vista la situazione che si sta preparando a sud del Kosovo, in quella Macedonia che già apre le sue Ambasciate in giro per l’Europa: regione a popolazione mista serbo-albanese-bulgara, in cui nella zona di Tetovo bande armate albanesi collegate con UCK si stanno già ritagliando col mitra in mano un territorio al di fuori del controllo delle autorità di Skopje, inseguendo quel sogno della “grande Albania” che certamente mal si coniuga con l’appeal delle Istituzioni Europee e che rischia di dar ulteriore corpo a quella diffusa diceria che vede nella politica estera statunitense una ricorrente tendenza a scivolare nella prassi dei “due pesi, due misure”. “Tutto e subito” in Kosovo; “Forse ed in futuro” nel Kurdistan…

Di fatto in questa regione, ed esattamente nella località di Uresevic ai confini con la Macedonia, sta nascendo la più grande base militare statunitense dei Balcani, a tutela della rete di oleodotti che dovranno giungere in Adriatico; una presenza imbarazzante, e soprattutto di lungo periodo.

In mezzo l’Europa. Che ha tutto il diritto di vedere nella dissoluzione dell’ex-Jugoslavia una via maestra per il ritorno dei popoli balcanica all’interno della grande Patria europea. Ma che nel contempo guarda con giustificata apprensione alla costituzione di protettorati de facto di grandi potenze extraeuropee all’interno del proprio territorio storico e culturale.

In sintesi, ancora una volta fra le montagne dei Balcani si gioca il presente e il futuro dell’Europa. Il grand jeu sfida l’Unione Europea a tornare alla dignità della Grande Politica.

 

* Direttore di Europaitalia