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Per essere persone e non pecore nel gregge è necessaria una visione unificatrice della vita

di Francesco Lamendola - 20/02/2008

 

Che cosa è, esattamente, che fa la differenza fra una persona, ossia un individuo umano pienamente realizzato, maturo e consapevole, e un pecorone che s'intruppa nel primo gregge che passa e si dissolve nell'anonimità di una vita totalmente eterodiretta e deresponsabilizzata?

Secondo noi, non ci sono dubbi: il fatto di possedere, o meno, una concezione unificatrice della vita: di possedere, cioè, un chiaro progetto esistenziale, una chiara consapevolezza della chiamata che ci è stata rivolta, una chiara tavola di valori ai quali fare costantemente riferimento.

Non si può vivere a caso, senza un perché; non si può vagare sulle strade del mondo senza una bussola, senza un punto verso il quale orientarsi, ma imboccando sempre, ad ogni bivio, la strada più ovvia e più facile. Tanto meno si possono mettere al mondo dei figli e costruire una famiglia: come per costruire una casa, ci vogliono le fondamenta. 

E non bastano i soldi; anche se, magari, ne abbiamo tanti. Le fondamenta di una casa sono fatte di mattoni, di lavoro, di sacrificio e, soprattutto, di amore. Senza questi  materiali e senza questi requisiti  non si può costruire alcuna casa ma, tutt'al più, una casa-giocattolo. Che si sfascerà regolarmente al primo acquazzone o al primo colpo di vento.

Senza coscienza della propria chiamata, senza progetto di vita e senza valori saldi cui ispirarsi, non si può nemmeno svolgere dignitosamente il proprio ruolo sociale. Non si può essere decentemente né lavoratori o professionisti, né figli o fratelli, né vicini di casa di qualcun altro, né abitanti di una via, di un quartiere o di un paese. Non si può essere niente di niente.

 

Fra le teorie antropologiche che hanno tentato, in questi ultimi anni, di descrivere la condizione umana a partire dalle sue vere esigenze e dai suoi veri bisogni, rifiutando la visione riduttiva mutuata dalle categorie economiche e produttive, si segnala la corrente della cosiddetta psicologia umanistica.

All'interno di essa, una delle figure di spicco, accanto ad A. H. Maslow, è stata quella di Gordon W. Allport. Il suo pensiero si caratterizza per un'alta concezione dell'essere umano, dei suoi doveri, delle sue responsabilità, del suo ruolo nel mondo e per una sacrosanta fedeltà all'uomo, a ciò che è umano, contro le sirene di un tecnicismo esasperato o di un economicismo che tende a renderlo mera appendice dei processi produttivi.

Uno dei suoi libri più significativi è, senza dubbio, l'ampia monografia Pattern and Growth in Personality, che vide la luce a New York nel 1965 e che è stato tradotto in italiano da Anna Maria Cagiano dalla Pas-Verlag di Zurigo, nel 1968 (e ristampato nel 1973, edizione alla quale facciamo riferimento).

Desideriamo riportarne un brano (pp. 250-253) che ci è parso particolarmente significativo, anche se - o precisamente per il fatto che - esso appare ispirato piuttosto dal semplice buon senso, che da complesse analisi psicologiche.

La nostra scelta non deve meravigliare.

Infatti, è cosa piuttosto rara che gli psicologi di professione si degnino di uscire dalla foresta delle loro teorie, dei loro termini specialistici, delle loro speculazioni più o meno azzardate, per lasciarsi guidare da una semplice dose di sano buon senso, in modo da non perdere di vista l'uomo concreto che sta davanti ai loro occhi, per inseguire la chimera di comprendere e descrivere chissà quale uomo in astratto.

 

"L'intuizione di sé e il senso dell'umorismo procedono di pari passo, probabilmente perché, in fondo, sono un fenomeno unico: il fenomeno dell'auto-oggettivazione. L'uomo in possesso del più completo senso delle proporzioni per quanto riguarda le proprie qualità e i valori che gli sono più cari, è anche in grado di percepirne le incongruenze e le assurdità in determinate circostanze. (…) Il senso dell'umorismo (…) è indispensabile a una visione matura della vita, ma non sempre è sufficiente: una filosofia dell'esistenza basata unicamente sull'umorismo porterebbe al cinismo, per cui ogni cosa verrebbe considerata volgare, fuori posto e incongrua. La ragione verrebbe disprezzata e tutte le soluzioni serie respinte. Sebbene il cinico possa trovare il modo di divertirsi, in fondo è un'anima solitaria cui manca la compagnia che dà, in genere, l'avere uno scopo nella vita. La maturità necessita, oltre che del senso dell'umorismo, di una chiara comprensione dello scopo della vita formulato nei termini di una teoria intelligibile o, in altre parole, di una qualche forma di concezione unificatrice della vita.

"Un metodo psicologico per affrontare l'argomento è quello costituito dallo studio effettuato da Charlotte Bühler sulla biografia di molti individui, sia famosi ,sia comuni.

"Questa studiosa pensa sia necessario introdurre il concetto di Bestimmung, un termine tedesco che è stato tradotto, forse inadeguatamente, con 'direttività'. Analizzando circa duecento biografie, appare evidente che ogni vita è ordinata o diretta verso un fine prescelto (o più fini prescelti). Ogni persona ha qualcosa di particolare per cui vivere, un'intenzione preminente. I fini variano: alcuni raggruppano tutto in un unico, grande obiettivo, altri hanno una serie di scopi definiti. Uno studio parallelo sui suicidi dimostra che la vita diventa intollerabile solo a coloro che non trovano nulla a cui mirare, un fine da ricercare.

"Nell'infanzia gli obiettivi - almeno inizialmente - mancano; nell'adolescenza sono definiti solo vagamente, mentre la prima maturità porta una certa determinatezza alloro perseguimento. Tutti incontrano degli ostacoli. Le vite caratterizzate dalla sfortuna possono perseguire uno scopo più modesto (abbassando il 'livello di aspirazione'). Spesso è duro perseverare con poche speranze di successo; alcune personalità vinte rimangono legate alla vita per 'semplice indignazione', ma anche questa costituisce una ragione per combattere.

"Usando il concetto così espresso, possiamo dire che nelle personalità mature la Bestimmung è più marcata, più focalizzata all'esterno che nelle vite meno mature. E i giovani che non hanno ancora quest'orientamento costituiscono un problema. Uno studio condotto tra studenti (di college) valuta che approssimativamente un quinto di essi «non sa perché vive»; sembrano privi di ogni sia pur semplice motivazione momentanea e non sono né maturi né felici. Alcuni possono sviluppare più tardi la direttività, ma le previsioni non sono favorevoli perché, normalmente, il periodo in cui ci si attende di incontrare alte ambizioni e grandi ideali è l'adolescenza.

"Viene spesso trascurata una crisi postadolescenziale piuttosto comune. Bühler afferma che verso i venticinque-trent'anni dopo che gli ideali dell'adolescenza sono stati messi alla prova, sopraggiunge la delusione.  È tuttavia a quest'età che una persona può imparare che le sue capacità devono armonizzarsi con le circostanze. Abbiamo già parlato della difficoltà di raggiungere la 'maturità economica' :lo stipendio può non essere quello che si era sperato, il matrimonio può non essere così roseo, la persona può non essere in grado di superare tutti i suoi handicaps personali. Malgrado questo stadio di delusione, tuttavia, sembra che la prognosi sia più favorevole per il giovane che ha alte aspirazioni più tardi ridimensionate, che per colui che nell'adolescenza non ha avuto alcuna direzione precisa.

"Il problema si presenta in modo diverso per le persone anziane. Sebbene costoro occupino molta parte del loro tempo a valutare il loro sforzo totale, vogliono ancora conservare la loro direzione, anche se devono notevolmente diminuire la loro attività. Il fine può essere ora molto modesto. (Ricordiamo la vecchia signora, ospite di una casa di riposo, la quale esprimeva il suo unico desiderio affermando: «Qualcuno mi ricorderà con affetto dopo che me ne sarò andata»). In linea generale, costituisce una grave perdita sociale il tagliare fuori dalle loro direttrici di sviluppo le persone anziane con il ritiro e l'isolamento. Quando, alla fine, essi non saranno più capaci di un'azione civile, potranno utilmente trascorrere il loro tempo nel ricomporre insieme i frammenti di quanto hanno conosciuto della vita e continuare a ricercarne il senso nello studio o nel pensiero filosofico e religioso."

 

Questo brano ci aiuta a riflettere sul fatto che la concezione unificatrice della propria vita non è qualche cosa di dato una volta per tutte; né, tanto meno, un elemento acquisto per scienza infusa. È una conquista; e, come tutte le conquiste, richiede, per potersi realizzare, alcune condizioni indispensabili di base, che non si trovano facilmente - ad esempio - in una bidonville africana o in una favela del Brasile; né, d'altra parte, in personalità infantili compromesse da gravi malattie fisiche o da gravi disturbi dell'apprendimento e della personalità.

Non solo.

Una volta che la visione unitaria della vita, coi suoi scopi e il suo senso di responsabilità, sia  germogliata nell'animo, nella fase iniziale della sua crescita essa è esattamente nelle condizioni di una tenera piantina che deve irrobustirsi attraverso le dure prove delle piogge eccessive o della prolungata siccità. In altre parole, allorché il bambino e, poi, l'adolescente, siano riusciti a forgiarsi quello formidabile strumento di orientamento nella vita, che è la visione unitaria di essa, devono affrontare e superare la prova dello scontro dei propri ideali con la realtà concreta. Uno scontro dal quale non tutti escono vittoriosi e dal quale tutti, comunque, riportano cicatrici più o meno dolorose, più o meno permanenti.

Si badi che la posta in gioco, allorché l'adolescente e il giovane devono mettere alla prova il proprio  scopo di vita ed i propri ideali, non è il fatto di riuscire ad affermare integralmente questi ultimi, cosa del resto impossibile a causa della loro inevitabile indeterminatezza. Se tale fosse la posta in gioco, potremmo anzi dire che nessuno, ma proprio nessuno, riesce a superare la prova. Quando mai la vita ha fatto degli sconti a qualcuno in misura tale, da consentirgli di realizzare integralmente i propri ideali e le proprie ambizioni?

No: la posta in gioco non è l'affermazione vittoriosa e integrale degli ideali e delle aspirazioni individuali; ma il fatto di mettere alla prova le proprie capacità, il proprio coraggio, la propria perseveranza, al fine di trasformare le aspirazioni e gli ideali dell'adolescenza, più o meno vaghi e velleitari, in un abito permanente, in una struttura di carattere, in un esercizio della volontà e, al tempo stesso, in una matura e realistica capacità di valutare il rapporto tra mezzi e fini, tra le proprie possibilità e capacità e gli obiettivi di massima che ci si è dati. La posta in gioco, in una parola, non è qualche cosa di esterno all'individuo, ma qualche cosa che fa parte della sua realtà più intima e fondamentale: la coscienza di sé e l'autostima.

Vi sono individui che escono con le ossa rotte da una tale prova, e che non riescono a riprendersi mai più. Per essi, lo scontro con la realtà avviene in modo talmente traumatico, che il mondo delle proprie ambizioni iniziali se ne va in frantumi una volta per tutte, e non è più possibile ricostruirlo. Entrare nel mondo degli adulti è sempre un cadere; e le cadute, a volte, possono provocare lesioni e infermità permanenti. Forse gli ideali erano troppo ambiziosi; forse non si erano ben valutate le proprie possibilità; forse un fatto traumatico esterno - la perdita di una persona cara, ad esempio - produce un crollo dell'orizzonte di speranza e di fiducia in sé stesso, cui non sarà mai più possibile porre rimedio.

Sia come sia, quando ciò accade, si produce il fenomeno - ricordato dalla Bühler - di coloro che rimangono legati alla vita da un sentimento di "indignazione"; indignazione non solo verso la struttura oggettiva del mondo, ritenuta ingiusta e irrazionale, ma verso le ferite e le sconfitte vissute in prima persona, percepite come sommamente immeritate e crudeli.

Qualcuno ha detto che tutto, nella vita, dipende da quanto si rimane delusi; ed è una frase che ben si attaglia alla crisi della post-adolescenza, della quale parla Charlotte Bühler. Il fatto è che molte persone permangono in questa disposizione d'animo per tutto il resto della loro vita e divengono, successivamente, dei trentenni indignati, dei quarantenni indignati, dei cinquantenni indignati, e così via. La nota dominante del loro atteggiamento verso la vita è il rancore; che si accompagna, spesso, all'invidia nei confronti di quanti essi ritengono essere stati più "fortunati" di loro.

L'unico modo di sfuggire alla patologia del rancore permanente è farsi una ragione delle proprie sconfitte, dei propri insuccessi  e, in generale, di tutto il ridimensionamento che la vita impone alle nostre ambizioni e ai nostri ideali giovanili, senza per questo rinunciare ad essi, ma anzi continuando a lottare per realizzarli. Nel corso di tale lotta, che durerà quanto l'intera vita e che ne costituirà il senso e la ragione fondamentale, l'individuo maturo impara a lottare anche per cambiare se stesso, per perfezionarsi, affinarsi e purificarsi; nonché per accettare i propri limiti, senza tuttavia adagiarsi nell'eventuale alibi che questi ultimi gli potrebbero fornire.

Lottare per realizzare una missione e per rispondere a una chiamata è sempre, in primo luogo - ma questo lo si capisce solo in corso d'opera - lottare per affermare la parte migliore di se stessi e per non permettere a quella peggiore - egoista, meschina, pigra e calcolatrice - di prendere il sopravvento.

Conquistarsi una propria visione unificatrice della vita, pertanto, significa imparare a mettersi continuamente in discussione, a ignorare gli stereotipi preconfezionati e a procedere in mezzo alla più  fitta vegetazione per aprirsi una strada vergine, non mai battuta da altri, fidando nel soccorso di quelle forze benefiche che hanno cura di chi serve la vita con umiltà e semplicità.

I credenti danno, a queste forze, il nome di "grazia".

I non credenti le chiamano in altro modo, o forse non le chiamano affatto, perché non le riconoscono nel loro cammino.

Eppure esse sono lì, nei punti più impervi e pericolosi, come la mano tesa di un amico che conosce le nostre difficoltà ed, eventualmente, che conosce anche come il nostro orgoglio ci impedisca di chiedere aiuto.