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Il lato oscuro dell'economia

di Loretta Napoleoni - 22/02/2008

 
L'ordine economico imposto dalla globalizzazione è influenzato da forze che sfuggono a ogni controllo. E che nascondono storie di sfruttamento e violenza.



Lo sapete che la catenina che avete regalato a vostra moglie a Natale ora costa quasi il 30 per cento in più? E non è detto che riusciate a trovarne una simile. I gioiellieri hanno smesso di comprare oro all'inizio di gennaio, quando il prezzo del metallo giallo ha superato i 900 dollari all'oncia.

La cosa sorprendente è che la sensazionale crescita dell'oro, cominciata un anno fa, non deriva dall'impennata della domanda né è legata al suo ruolo come bene rifugio nei momenti di crisi e d'incertezza economica. In realtà l'aumento del prezzo è opera degli speculatori che ormai infestano i mercati dei futures, dove si vendono (a un prezzo stabilito in anticipo) opzioni per l'acquisto e la vendita di materie prime e metalli con scadenze da uno a sei mesi.

Le autorità monetarie, le banche centrali e gli analisti finanziari temono il peggio e mettono in guardia sulla scomparsa della domanda. Ma non possono condizionare la borsa mondiale, perché nessuno dispone di così tanto denaro come gli speculatori.

La "corsa all'oro" ha però altre conseguenze per i consumatori, più sconcertanti del rincaro dei gioielli. Conseguenze di cui nessuno parla, perché i complessi meccanismi economici che legano la finanza mondiale al villaggio globale sono ancora sconosciuti. Le Nazioni Unite ripetono da mesi che l'aumento dei prezzi stimola il contrabbando di oro dal Congo.

"A differenza del mercato dei diamanti, quello dell'oro non è regolato da un cartello internazionale che evita di fare affari con paesi come la Sierra Leone, dove l'industria dei diamanti si serve dei bambini ridotti in schiavitù dai signori della guerra", rivela Rico Carish, ispettore delle Nazioni Unite per la Sierra Leone e il Congo.

Il mercato dell'oro è libero. E l'oro insanguinato del Congo, estratto da schiavi bambini al soldo dei baroni della guerra, si smercia facilmente sul mercato mondiale. Nonostante le durissime sanzioni imposte dalle Nazioni Unite, che ne vietano l'esportazione.

È uno dei paradossi dell'economia globalizzata. Un'economia diventata canaglia, perché in mano a nuove forze economiche come gli speculatori dell'oro e gli schiavisti dell'Africa, che sfuggono a tutti i controlli, da quelli dei governi a quelli delle organizzazioni internazionali.

I nuovi schiavi
L'embargo in Congo viene regolarmente aggirato grazie alla collaborazione di società, banche e trafficanti d'oro senza troppi scrupoli. Quasi tutto l'oro insanguinato del Congo passa infatti dall'Uganda. Chi conosce i traffici di questo paese sa benissimo che l'Uganda non produce oro.

"Fino alla metà degli anni novanta la banca centrale non forniva neanche le statistiche sulle esportazioni, perché non aveva mai venduto all'estero", si legge nell'ultimo rapporto delle Nazioni Uniti sul Congo. L'ingresso dell'Uganda nel circolo dei principali esportatori mondiali di oro risale al 1994, anno della liberalizzazione del commercio. Il governo ha abolito tutti i dazi sulle esportazioni e da quel momento l'oro del Congo ha smesso di essere contrabbandato attraverso il Kenya. Ora il metallo giallo approda a Kampala e viene venduto con una documentazione falsa da una manciata di intermediari.

È un giro d'affari miliardario. "La raffinazione dell'oro è nelle mani di un ristretto gruppo di aziende di paesi come l'India, il Canada e Dubai, che si fanno concorrenza tra loro. Nessuno controlla che l'origine del metallo giallo sia quella vera. Conta solo il prezzo". E da un anno a questa parte i prezzi dell'oro del Congo sono stracciati.

Così la fede nuziale che portiamo al dito o la catenina che vogliamo regalare a nostra figlia per la prima comunione potrebbe essere sporca del sangue dei bambini minatori e dei bambini soldato congolesi, rapiti e ridotti in schiavitù dai signori della guerra di Ituri, centro aurifero del Congo orientale. Più il prezzo dell'oro sale, più crescono le probabilità che questo avvenga, perché l'oro contrabbandato è sempre più a buon mercato.

Ma l'oro insanguinato è solo uno dei prodotti africani su cui poggia questa disgustosa joint venture. Il cacao della cioccolata fumante che beviamo leggendo il giornale del mattino potrebbe provenire dalla Costa d'Avorio, che rifornisce la metà del mercato mondiale. Qui i bambini e gli adolescenti del Mali, più poveri perfino dei loro coetanei ivoriani, raggiungono a piedi le piantagioni di cacao per guadagnarsi un salario che basta appena a sopravvivere.

Spesso diventano schiavi nelle fattorie degli altipiani. I poveri schiavizzano i poveri. Drissa, 19 anni, era uno di loro. Nel 2000, quando fu liberato, aveva finito da poco un periodo di "addestramento" durante il quale il padrone lo stava abituando alla schiavitù. Aveva la schiena segnata dalle frustate.

Drissa faceva parte dei 27 milioni di persone che alla fine degli anni novanta vivevano in stato di schiavitù, perfino in alcuni paesi dell'Europa occidentale. Come le schiave del sesso provenienti dai paesi dell'ex blocco sovietico, che nei primi anni novanta hanno invaso le città occidentali. Queste donne hanno alcune caratteristiche essenziali: sono belle, a buon mercato e, soprattutto, disperate. Le slave hanno fatto crescere la domanda oltre ogni aspettativa.

"All'inizio degli anni novanta l'attività andava bene, era eccezionale", ricorda Michael, un protettore tedesco che possiede numerosi night club a Berlino. "Gli uomini non si stufavano mai di quelle donne. Le trovavano esotiche. Con l'industria del sesso si poteva fare una fortuna. Guadagnavo tremila euro al giorno e in poco tempo sono diventato ricco. Naturalmente tutte le slave erano di proprietà della mafia russa".

Ma il mercato del sesso è solo la punta dell'iceberg. "L'aumento della schiavitù è legato alla globalizzazione", sostiene Kevin Bates, autore di Ending slavery: how we will free today's slaves. La globalizzazione favorisce lo sfruttamento degli schiavi su scala industriale, raggiungendo cifre e volumi impensabili, superiori perfino a quelli dell'epoca del commercio degli schiavi africani.

Secondo l'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), i profitti annuali della nuova schiavitù si aggirano intorno ai 31 miliardi di dollari. L'esplosione demografica e le grandi migrazioni, insieme alla globalizzazione, hanno aumentato il mercato degli schiavi. Dalle piantagioni di cacao dell'Africa occidentale ai frutteti della California, gli schiavi sono diventati parte integrante del capitalismo globale.

E questo è il paradosso. La democrazia e la schiavitù non solo coesistono, ma tra loro c'è quella che gli economisti definiscono una forte correlazione diretta. Non solo i due fenomeni mostrano tendenze di sviluppo assolutamente simili, ma l'evoluzione dell'uno condiziona quella dell'altro. E gli anni novanta confermano quella tendenza apparentemente surreale che si era già manifestata negli anni cinquanta durante il processo di decolonizzazione.

Secondo Bates, quando gli stati coloniali conquistarono l'indipendenza, il numero degli schiavi aumentò mentre il loro prezzo si abbassò. Oggi il prezzo di uno schiavo è circa un decimo di quello praticato nella Roma antica, quando il concetto di democrazia era inesistente.

Smarriti nel supermercato
La quasi totalità dei prodotti che consumiamo ha una storia nascosta e oscura. Una storia di schiavitù e pirateria, contraffazione e frode, furto e riciclaggio di denaro. Sappiamo molto poco di queste trame segrete dell'economia mondiale, perché i consumatori moderni vivono all'interno di una complicata rete di illusioni commerciali, la realtà virtuale del mercato. Come nel film Matrix siamo vittime di una beata ignoranza.

Gli scaffali dei supermercati occidentali sono pieni di articoli fabbricati dagli abitanti dei paesi in via di sviluppo, lavoratori sfruttati che ricevono una frazione infinitesimale del prezzo finale di ogni prodotto. Se noi consumatori decidessimo di fermarci a riflettere, resteremmo sconvolti nello scoprire chi si arricchisce grazie alla nostra spesa quotidiana.

Le banane sono il prodotto più redditizio venduto nei supermercati britannici. I loro enormi ricavi vengono divisi così: quasi la metà va al supermercato (il 45 per cento), il 18 per cento agli importatori, il 15,5 per cento alla ditta proprietaria della piantagione e solo il 2,5 per cento ai braccianti. Dal 2002 i supermercati britannici sono al centro di una violenta guerra delle banane che punta a ridurre drasticamente i prezzi al consumo per conquistare una fetta di mercato più ampia.

I principali protagonisti di questo scontro sono le due catene Asda e Tesco. Tra il 2002 e il 2004 i prezzi al chilo sono passati da 1,08 sterline a 74 centesimi. I consumatori sono contenti, ma non sanno che il loro risparmio non incide sulla percentuale di profitto intascata dai supermercati, perché ricade interamente sui lavoratori. Secondo Action aid, la guerra delle banane ha più che dimezzato la paga oraria dei dipendenti delle piantagioni del Costa Rica, dove si produce un quarto delle banane consumate in Gran Bretagna e in Irlanda.

Oggi i braccianti del Costa Rica guadagnano 33 centesimi all'ora, mentre alla fine degli anni novanta ricevevano quasi un dollaro. E così non possono più permettersi il lusso di allontanarsi dalle piantagioni quando gli aerei spruzzano i pesticidi sui raccolti.
Molte aziende alimentari sono nelle mani dell'industria del tabacco, che negli ultimi vent'anni ha investito i suoi enormi ricavi nel cibo.

"Le campagne occidentali contro il fumo non sono riuscite a ridurre il consumo globale di tabacco", rivela un dipendente di un'agenzia londinese di pubbliche relazioni per l'industria del tabacco, che per ovvie ragioni chiede di restare anonimo. "Chi crede che la gente fumi meno di vent'anni fa si illude. Dall'inizio degli anni novanta le multinazionali occidentali del tabacco sono diventate più ricche delle compagnie petrolifere, perché le sigarette sono il prodotto consumistico per eccellenza. Mentre il consumo di petrolio è funzionale, quello delle sigarette è determinato dal bisogno e dal desiderio. È imbattibile".

La straordinaria impennata della vendita di sigarette occidentali è dovuta all'ingresso delle multinazionali nei mercati dell'Europa orientale e dell'Asia. Le statunitensi Winston, per esempio, sono le sigarette più vendute in Russia. Durante il regime sovietico i mercati del blocco orientale erano inaccessibili per le multinazionali del tabacco.

Di recente, invece, è stata registrata una crescita eccezionale grazie alla domanda dei giovani e del mercato cinese. "Dal 2003 al 2005, per esempio, le vendite totali della Philip Morris sono passate da 40 a 70 miliardi di sigarette grazie al mercato asiatico e a quello dell'Europa orientale. Nel 2005 la Philip Morris, il cui marchio più venduto è Marlboro, ha guadagnato 4,6 miliardi di dollari negli Stati Uniti e 7,8 miliardi di dollari nel resto del mondo, più del pil di alcuni piccoli stati", rivela l'agente di pubbliche relazioni londinese.

Questo fenomeno può essere spiegato con dei princìpi economici quantitativi elementari. La popolazione asiatica è molto più numerosa di quella occidentale, al punto che un calo del 30 per cento del consumo di sigarette in occidente può essere compensato da un aumento del 2 per cento sul mercato asiatico.

Chi ha capito questo concetto è diventato ricco. L'industria del tabacco è riuscita a tenere l'opinione pubblica occidentale all'oscuro degli straordinari profitti generati dall'aumento della domanda globale di sigarette, reinvestendo il denaro nell'industria alimentare. Nel 2006 Altria Group, una holding di New York proprietaria di molti marchi alimentari, era la decima azienda americana per il livello di profitti. "Fino al 2002 si chiamava Philip Morris, un nome ancora legato a due sue società, la Philip Morris Usa e la Philip Morris International. L'azienda possiede anche la Kraft Foods", spiega l'addetto alle pubbliche relazioni.

Ma il fumoso labirinto di specchi del mercato occulta segreti ancora più inquietanti: come il cibo che uccide. L'obesità è il nuovo killer del villaggio globale. Fa più vittime del tabacco. Solo negli Stati Uniti si parla di 400mila decessi all'anno dovuti all'obesità, pari al 16 per cento del totale. Secondo il centro prevenzione malattie e il capo del servizio sanitario americano, due terzi degli statunitensi sono sovrappeso e un quarto è obeso.

L'epidemia di obesità risale alla fine degli anni settanta, proprio quando gli americani hanno cominciato a preoccuparsi del loro peso. Le cause sono l'uso dello sciroppo di mais ad alto tasso di fruttosio come principale dolcificante calorico e la battaglia contro il grasso. I dolcificanti di mais sono più economici del saccarosio, e negli Stati Uniti la coltivazione del mais, che può contare su generose sovvenzioni, è molto diffusa. Negli anni settanta la sostituzione del saccarosio con i dolcificanti di mais ha abbattuto i costi di produzione dell'industria alimentare.

A sua volta è diminuito il prezzo dei prodotti alimentari, e i consumi sono aumentati. Alla fine degli anni settanta comparvero le diete ipolipidiche. Il grasso fu sistematicamente eliminato dai prodotti alimentari e sostituito con i carboidrati, che a loro volta hanno molte calorie e producono grassi.

"La maggior parte dei cibi ipolipidici che si trovano nei supermercati è satura di carboidrati al punto che l'apporto calorico della versione dietetica di quasi ogni alimento è pari a quello del prodotto originale", spiega Marion Nestle, preside della facoltà di scienze dell'alimentazione e salute pubblica della New York university.

La prossima volta che fate la spesa, confrontate il numero delle calorie della versione ipolipidica e di quella normale dello stesso prodotto. La differenza trascurabile dei valori, ammesso che ci sia, vi stupirà.

Apporto di carboidrati
Negli anni ottanta e novanta gli americani sono ingrassati "misteriosamente", anche se la percentuale di grassi presenti nella loro alimentazione è scesa dal 40 al 34 per cento. Spiegare questo mistero è semplice: l'aumento di peso si giustifica con il fatto che si mangia di più, perché il cibo costa meno, e che l'apporto di carboidrati è aumentato. Lo stesso fenomeno si è verificato in Europa alla fine degli anni ottanta.

Le illusioni create dai prodotti dietetici hanno conseguenze disastrose sulla nostra salute. "Negli anni settanta cinque milioni di americani avevano il diabete. Oggi sono più di venti milioni. La popolazione non è neanche raddoppiata in quell'arco di tempo, ma il numero di persone affette da diabete è più che quadruplicato", spiega il dottor James J. Kenney, direttore della ricerca alimentare ed educatore presso il Pritikin longevity center & Spa della Florida.

Ancora più sorprendente è il fatto che il diabete di tipo 2, un tempo chiamato "diabete dell'adulto", si stia diffondendo nei bambini sovrappeso. I medici non hanno dubbi: la patologia è legata all'aumento dell'obesità tra i più giovani. "Negli Stati Uniti, tra il 2001 e il 2002, il 31 per cento della popolazione tra i 6 e i 19 anni era sovrappeso e il 16 per cento obeso. Nel 1965 non superava il 5 per cento", spiega Valerio Nobili, pediatra epatologo dell'ospedale Bambin Gesù di Roma.

Secondo molti epatologi, l'obesità è la causa di una nuova epidemia dilagante tra i bambini. Si tratta dell'epatopatia steatosica non alcolica (Nafld), che provoca disturbi al fegato. "C'è una fortissima dipendenza tra la Nafld e l'aumento dell'indice di massa corporea nei più giovani", spiega Nobili. "La prevalenza di Nafld tra i bambini è del 2,6 per cento, ma tra quelli obesi sale al 53 per cento.

Negli ultimi quarant'anni l'obesità nei più piccoli è drasticamente aumentata. E quella nei bambini in età prescolare è particolarmente preoccupante in America. Ma un aumento simile si è verificato in Gran Bretagna, Australia ed Europa. Secondo le stime attuali, i bambini obesi sono più di venti milioni in tutto il mondo.

Dal momento che i bambini sono sempre più grassi, è probabile che la Nafld diventi una delle cause più diffuse dell'insufficienza epatica terminale sia nei bambini sia nei giovani adulti".

Un fenomeno ricorrente
Le illusioni popolano il pianeta consumista moderno e il mercato s'impossessa della nostra quotidianità. Dalla mattina alla sera ci muoviamo in un mondo dove la realtà scarseggia, l'illusione dilaga e gran parte di quello che vediamo non è come sembra. Un mondo in preda all'economia canaglia.

Ma la natura canaglia dell'economia è un fenomeno ricorrente nella storia. Si nasconde nelle pieghe del progresso, spesso è legata a grandi e improvvise trasformazioni sociali. Proprio nel corso di questi mutamenti radicali l'economia si sgancia dalla politica e diventa una sorta di entità autonoma, uno strumento banditesco nelle mani di attori nuovi e spregiudicati.

Non a caso, quando pensiamo alla conquista dell'ovest americano usiamo l'immagine del wild west, l'ovest selvaggio caratterizzato da violenza e anarchia, in cui nonostante tutto si riescono a produrre le imponenti fortune economiche che gettano le base del capitalismo nordamericano. Il carattere banditesco dell'economia ha caratterizzato gran parte delle più significative transizioni storiche.

La rivoluzione industriale poggiava sullo sfruttamento dei minori, dei deboli e dei poveri, eppure ha dato vita alla società moderna. è proprio la caratteristica spregiudicata, autonoma e canaglia dell'economia a distruggere le vecchie logiche economiche, gli antichi imperi e a far nascere nuovi sistemi di potere.

Oggi l'economia è ridiventata canaglia perché il mondo sta attraversando una fase di trasformazione profondissima, forse la più profonda di tutti i tempi. E come ci insegna la storia, ogni volta che la politica riemerge riesce a dominare l'economia grazie a importanti compromessi strategici con le nuove élite di potere. Non c'è motivo di pensare che questa volta le cose andranno diversamente.

La ricomparsa dell'economia canaglia ci deve far riflettere su una verità antica quanto l'uomo: anche oggi, come nel passato, l'umanità è sempre costretta a pagare un prezzo molto alto per ognuna di quelle trasformazioni che poi i libri di storia definiscono conquiste.