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Vannini e Dawkins a confronto su Dio

di Pier Giuseppe Bosco - 22/02/2008

Due testi, che più diversi tra loro non potrebbero essere ma che, a mio modo di vedere, sono risultati di una complementarità assoluta e quasi incredibile ed essi sono, come ovvio, “La religione della ragione” di Marco Vannini, Bruno Mondadori e “L’illusione di Dio – Le ragioni per non credere” di Richard Dawkins, Mondadori.   Nell’intento di indicare immediatamente dove si collochi per me detta complementarità riferirò che un dotto amico si è astenuto dal leggere il testo di Dawkins dopo che ebbe letto una critica che incolpava Dawkins di essere un incompetente nel campo della teologia.   Si potrebbe ribattere che i teologi dimostrano in genere una buona ignoranza in campo scientifico, ma la cosa non è nemmeno vera e non è questo il punto.   Il punto vero sta nel fatto che Dawkins, nel suo pervicace e intenso tentativo (secondo me riuscito per quanto riguarda il campo prescelto) di escludere l’esistenza di Dio si limita a considerare le prove scientifiche di detta esistenza o, detto più in generale, le prove che emergono dal mondo (che storicamente si identificano con le famose cinque prove di San Tommaso), non esclusa poi tutta una serie di presunte prove derivanti dall’interiorità umana, in quanto detta interiorità appare come una parte non irrilevante del mondo stesso.     Per Dawkins, in sostanza, l’esistenza di Dio è un problema di piena competenza della scienza (il che, di primo acchito, non ha mancato di meravigliarmi alquanto, ma dopo un po’ di riflessione e dopo aver accettato il punto di vista dell’Autore, la cosa mi è parsa pienamente giustificata) e dunque l’analisi e la soluzione (o non soluzione) del problema dovrà di necessità partire dal mondo.   Tra l’altro il mondo viene sempre e infallibilmente in primo piano quando si tratta di concepire, in un modo o nell’altro, la divinità.   Salvo che non ci si voglia aggrappare a Dio come ad un mero flatus vocis, Dio apparirà nell’una o nell’altra maniera ed anche come il Tutto oppure il Suo Contrario proprio in relazione al rapporto che Egli intrattiene o non intrattiene con il mondo appunto.    Quindi è un po’ banale chiedere ad una persona se crede in Dio, in quanto sarebbe più appropriato chiedere in quale tipo di Divinità essa crede.

E’ naturale che in Vannini non compare alcunché di tale impostazione in quanto il Dio di Vannini, se così si può dire, è quello di Plotino, di Eckhart, di Giovanni della Croce, di Simone Weil e dell’ Agostino del “De vera religione”.    Invece il Dio dell’ateo Dawkins sembrerebbe essere, per paradosso, quello di Einstein e probabilmente quello di Spinoza (che, ad onta delle accuse dei suoi detrattori, non era ateo per niente).    Diciamo che il Dio di Anselmo di Aosta, frutto di un lambiccatissimo procedimento intellettuale, rientra nella competenza (negativa) di Dawkins e non in quella di Vannini, poiché Anselmo, almeno per quanto concerne la sua prova, non si dimostra affatto un mistico ma un logico alla quintessenza, il quale si avvale, per la sua dimostrazione, nientepopodimeno che di un sofisma.   Vannini, all’opposto, è il più grande esperto o storico della mistica che io conosca.  E dunque all’indagine naturalistico-scientifica sull’esistenza di Dio, si giustappone quella mistica e da questa giustapposizione deriva quella complementarità di cui si diceva.  Dawkins fa come da preludio, nella forma di pars destruens, a quella che si potrebbe considerare la pars construens contenuta in Vannini.  Anche se dico subito trattarsi di una pars construens assai singolare, in quanto, nel costruire, non bada a spese quanto a distruzioni in proprio.   Ho l’impressione che lo stesso Vannini potrebbe essere in un certo senso d’accordo con Dawkins, per il fatto che, se ho ben compreso il suo pensiero, egli ritiene che ogni pretesa positiva di dimostrare Dio a partire dal mondo si risolva puntualmente nella adozione di un punto di vista più affine alla superstizione che non alla vera religione.   D’altra parte le pretese scientifiche potrebbero anche introdurre la cultura del sospetto nei confronti della stessa mistica, poiché, come accennavo, anche il mistico fa parte di questo mondo e le sue attitudini psichiche e mentali potrebbero essere sottoposte a severe indagini di tipo psicologico (ben lo sappiamo, nessuno è esente da esami e anzi gli esami  non finiscono mai):  ma mi pare che Dawkins non si addentri più di tanto su di questo terreno, non so se per la sua supposta impreparazione o per una voluta e conscia esclusione di tale ambito dal campo di indagine.    E per parte sua Vannini prende una netta distanza da quel misticismo per così dire, di maniera, fatto di estasi e di deliqui, dato che il misticismo che questo Autore ci fa conoscere è una rigorosa filosofia, chiamata “religione della ragione”.

 

Partiamo dunque dalla pars destruens, come detto, e cioè dal libro di Dawkins: ci troviamo qui di fronte all’Autore (biologo evolutivo) di libri famosissimi tra i quali “Il gene egoista” , “Il fenotipo esteso” e “L’orologiaio cieco” da me ben conosciuti, e fonti di preziose conoscenze a riguardo dell’evoluzione, ed anche, tra gli altri, di “Il cappellano del diavolo” e “L’arcobaleno della vita”.   Quest’ultimo libro è stato da me ordinato al mio libraio nella speranza che non sia esaurito, in quanto in “L’Illusione di Dio” Dawkins fa riferimento e rimando ad esso per quel che concerne le questioni ontologiche connesse con l’esistenza di Dio.     Ciò mi ha lasciato un po’ sconcertato: è un fatto indiscutibile che le questioni ontologiche appaiono fondamentali circa il nostro problema, come è ben testimoniato fin dalle prime pagine di quel capolavoro di Hans Küng che è “Essere cristiani” nel quale l’illustre teologo pone come primo preliminare per la fede in Dio la “fiducia” nella consistenza indefettibile dell’essere.  E dunque si tratta di una lacuna che dovrà essere colmata, anche per il fatto che sono assai curioso di conoscere l’atteggiamento di Dawkins nel confronto del problema dell’essere.  Personalmente io condivido la “fiducia” di Hans Küng, in quanto sono ben memore dell’insegnamento di Parmenide, e tuttavia non accosto questo sentimento metafisico alla fede che, secondo me, ben di rado è esente dalla cecità fideistica, ma lo accosto piuttosto alla speranza.   Non ci sono, secondo me, argomenti che autorizzino alla fede, anche se non è esclusa la possibilità di sperare.  Ma, obietteranno i lettori della mediocre “Epistola agli Ebrei”, come è possibile sperare se prima non si crede?  Se così si facesse, direbbero, la speranza sarebbe priva di contenuto!   Ma non è vero niente di tutto ciò:  la speranza, al contrario, è del tutto inconciliabile con la fede, in quanto la vera fede dovrebbe nascere nell’animo in seguito ad una conoscenza diretta, ad una certezza.  E dunque se si ha la fede, che è sinonimo di certezza, la speranza, sinonimo di incertezza, non ha più spazio.   Nel versante opposto chi spera non spera in un puro vuoto, in una sorta di nulla, ma formula delle ipotesi ben dotate di contenuti, ai quali poi collega le sue speranze appunto, pur corredate da ogni incertezza possibile.   E, con ogni evidenza, tale operazione preliminare viene compiuta anche dall’uomo che si professa dotato di fede, in quanto non può essere diversamente.   Tuttavia l’uomo di fede non si accontenta di considerare le sue ipotesi come mere ipotesi: egli è stato educato a trasformare quelle che continuano ad essere mere ipotesi (e che quindi dovrebbero essere trattate con ogni circospezione) in contenuti di verità assoluti, ed ecco sorgere la fede.   Ma questo è frutto di un puro atto di volontà che, se fosse impiegato nella vita di tutti i giorni, quando si è chiamati a formulare ipotesi ad ogni piè sospinto, esporrebbe il suo autore all’ accusa di mancanza di senno, e che invece, per il fatto che riguarda cose prive di riscontri e di verifiche, può tranquillamente passare indenne attraverso l’amara verifica dei fatti.   Ma qui credo che Vannini sarebbe d’accordo se diciamo che questo è il modo principale di costruire ogni superstizione, la quale sorge sempre da una forzatura volontaristica ben distante da quel distacco che porta alla conoscenza razionale.

Per questi motivi io continuerò a non dissociarmi dalla posizione, che ho mantenuto finora, di cauto agnosticismo:  immaginate dunque la mia sconcertata sorpresa quando l’ateo tutto di un pezzo (e chi se non Dawkins?) intitola uno dei suoi primi paragrafi così: “Miserie dell’agnosticismo”.   Ohibò, ragazzi, ma che ci possiamo fare?  Se non sappiamo, sapendo di non sapere, perché mai dovremmo insistere per far credere agli altri, e per convincere noi stessi, che sappiamo?   Che prove ha Dawkins che Dio non esiste?  Che Dio non esista è una ipotesi:  ed allora perché dovremmo attaccarci fideisticamente ad essa?  La scoperta che gran parte della fede nutrita nel mondo è alimentata superstiziosamente da cause del tutto naturali e in buona porzione meschine non è la prova che Dio non esiste.   Se Dio ha deciso di esistere Egli esiste, in barba alla falsità delle prove che i credenti possono addurre:  insomma, alla caduta delle prove sull’esistenza di Dio non segue la certezza dell’inesistenza di Dio.    Insomma l’idea che l’agnosticismo sia una posizione vile e vergognosa (idea che sospetto coltivata anche da molti credenti) non mi sfiora nemmeno.   Anzi penso che  se è vero che noi dobbiamo testimoniare sempre la verità, di qui discenda l’ulteriore dovere di testimoniare la nostra ignoranza tutte le volte che la verità nei confronti di un determinato problema di fatto ci sfugga.    Tuttavia io ritengo che l’agnosticismo nei confronti delle cose ultime non sia un punto di arrivo, bensì di partenza:  l’agnostico ha il dovere di indagare per ogni giorno della sua vita, formulando ipotesi al fine di sottoporle al vaglio delle discipline logiche e, se possibile, sperimentali, al fine di diradare la coltre di oscurità che ci opprime.   Mi professo dunque ribelle nei confronti del comandamento con cui Wittgenstein chiude il suo celebre Tractatus, secondo cui su ciò di cui non si può parlare si dovrebbe tacere.   In fondo “ciò di cui non si può parlare” esiste solo là dove sia in vigore l’esplicito divieto di un tiranno.

Naturalmente la logica vuole che la ragione dell’esistenza di qualsiasi cosa possa e debba venire ricercata e scoperta, e se i tentativi vanno a vuoto la medesima logica vorrebbe che venisse usato il rasoio di Occam nei confronti dell’oggetto da noi ipotizzato.   Ma, come si può vedere, l’argomento del rasoio di Occam non è una prova negativa ma semplicemente un provvisorio atteggiamento di economia mentale o di sospensione del giudizio.   Vero è che se nulla, proprio nulla di quanto ci occorre innanzi nella nostra esistenza postula, richiede, esige, a fil di logica, l’esistenza di Dio, noi il temibile rasoio dovremmo usarlo.   Tuttavia siamo sicuri che nulla, proprio nulla esiga tale esistenza?   Scartiamo subito, in questa indagine, l’esigenza derivante dai nostri desideri:  noi desideriamo che Dio sia insediato e pronto per castigare i nostri nemici cattivi per ripagarci delle ingiustizie subite.   Scartiamo tutto ciò.   Desideriamo altresì l’immortalità per noi e per i nostri cari e anche, se siamo filantropi, per il genere umano.    Anche questo è da scartare per motivi del tutto ovvi, che si sostanziano nel fatto che un desiderio non ha il potere di mutare lo stato della realtà esterna al desiderio.  La stato della realtà va semplicemente indagato ed è qui che concordo con Dawkins nel ritenere che uno dei compiti della scienza è appunto indagare se esistano indizi della presenza di Dio dietro alla facciata del mondo.    Certamente io potrei anche non trovare la ragione dell’esistenza della pagnotta che mi sta davanti, ma in tal caso si tratta di una ragione svuotata di importanza ai fini ontologici, in quanto la stessa evidenza della pagnotta mi testimonia della sua sussistenza nell’essere, e dunque ciò è sufficiente.   Si potrebbe anche pensare che la pagnotta sia frutto di una allucinazione, ma anche qui l’obiezione usa una freccia spuntata in quanto la stessa sussistenza di una allucinazione testimonia l’appartenenza della allucinazione all’essere e dunque l’essere è salvo (anche se si manifesta come labilissimo esistere o esserci).  E in questo senso anche “l’illusione di Dio” testimonia il nostro stare nell’essere.  In questo nostro saldo ancoraggio all’essere viene, secondo me, da tutti e due gli Autori sottoposti al nostro esame (e sì, gli esami li subiamo e li infliggiamo) respinto il concetto di “creazione”, e dunque detti Autori superano a pieni voti il mio esame:  l’idea di “creazione” è una delle idee più nefaste che coinvolgano la storia dell’Occidente in quanto essa è radicalmente implicata e connessa con la concezione  nichilistica.   Infatti se Dio ha il potere di trarre le cose dal nulla, Egli, in qualsiasi momento potrebbe lasciarle cadere nel nulla.  E anche l’uomo, di conserva, potrebbe lasciarsi andare  all’idea di distruggerle, così come ha sempre puntualmente fatto.   Ed è questa una forte tentazione persino per molti teologi che non hanno ancora rinunciato all’idea del giustizialismo divino, di supporre che Dio, sì, essendo somma Bontà, non sia l’Architetto dell’inferno ma che, nei casi più gravi, si riservi di piombare nel nulla i cattivi, e questo in barba al precetto di Parmenide (quello che dice che l’essere è e non può non essere;  ma Dio, somma Sapienza, non può ignorare il precetto di Parmenide…) – certo, lo so, non si può confondere l’essere con l’esistere o con l’esserci ma, sul destino dell’esistere, non è detto che l’unica ipotesi praticabile sia quella del nulla;  comunque si tratta di una questione da discutere in un’altra sede, ove, per esempio, ci si prenda cura di non trascurare il pensiero di un pensatore quale Mollâ-Sadrâ -.

Escluderei dunque, per motivi ontologici e metafisici, l’idea di un Dio creatore.   Con mia grande sorpresa e soddisfazione ho scoperto che questa posizione è condivisa da almeno due grandi Autori, decisivi rispettivamente per la storia del pensiero e per la storia delle scienze bibliche:  il primo  è Fichte, per il quale sarà utile riferirsi al paragrafo dedicatogli dallo stesso Vannini nella sua “Storia della mistica occidentale”, Mondadori;  l’altro è Benamozegh, il dotto rabbino cabalista della Livorno di fine ottocento:   Benamozegh, in “Israele e l’umanità”, Marietti, sostiene che il testo della Genesi non autorizza una interpretazione creazionista dell’intervento di Dio nei confronti del mondo, bensì una interpretazione di tipo emanazionista.    Questa circostanza riabilita solo in minima parte il testo biblico, contro il quale Dawkins scaglia, secondo me giustamente, i suoi strali più feroci, a causa di quel  primordiale senso della morale e della giustizia che in esso si manifesta, ma tuttavia consente di sanare una clamorosa contraddizione rilevata da Vannini quando contrappone al testo della Genesi l’incipit del Vangelo di Giovanni (definito come una nuova e diversa Genesi,  con caratteristiche del tutto affini al pensiero neoplatonico).    Ammetto tuttavia che l’interpretazione di Benamozegh è poco seguita e, forse, poco convincente.

Ecco dunque che se ci avviciniamo all’ipotesi emanazionista (senza farne un articolo di fede) accadrà che le visioni dei due Autori nostri contemporanei risultino anch’esse riavvicinate:  il Dio che ne scaturisce assomiglia da vicino al Dio di Einstein e di Spinoza, Dio per il quale lo stesso Dawkins non sembra manifestare una particolare repulsione.   Tuttavia, a questo punto giunti, siamo ancora privi od orfani di quel concetto di ragione dell’esistenza di Dio che ne potrebbe giustificare l’inferenza, in modo da poter superare il taglio operato dal micidiale rasoio.   L’ideale risposta a questo problema proverò ad immaginarla come fornita da Vannini o, se del caso, da Benamozegh (è ovvio che non sarà Dawkins a prestarsi a tale incombenza):  se il mondo è emanato da Dio esso è il corpo di Dio e noi non possiamo, in via ordinaria, vederlo, in quanto ci siamo dentro.  Inoltre la ragione di Dio sta in Dio stesso in quanto Lògos, ragione appunto.   Dio quindi costituirebbe la ragione di tutte le cose ma non ci sarebbe Cosa in grado di costituire la ragione riguardante Lui.   Qui Dawkins obietterebbe che l’argomento non regge in quanto potrebbe esserci un secondo Dio ragione del primo e via di questo passo verso un regresso all’infinito (noto vizio dei ragionamenti che pur si pretendono logici).   Io qui vorrei opporre a Dawkins che l’obiezione del regresso all’infinito è plausibile di fronte a ragionamenti che riguardano la logica del nostro mondo; ma che, trattandosi, nel nostro caso, di Dio, accade che il regresso all’infinito non costituisca più un problema, in quanto Dio si definisce appunto come infinito.  Nel caso specifico, anche il più sfrenato politeismo, tipo quello indù, si raccoglie, proprio attraverso un regresso all’infinito, nell’unico Dio, in sostanza nell’Uno.   Dio è Uno e tutt’al più si lascia alle spalle una serie appunto infinita di figure angeliche.   Ma, piuttosto, come sottrarci qui alle accuse di panteismo?   Da questa accusa ci difende proprio il Cabalista ricordandoci che per la qabbalà Dio non si risolve solo nel Regno della materia (Malkut, che è l’ultimo dei Regni) ma si esprime nell’arcano gioco spirituale delle Sefiròt.

 

Sarà bene ora avvicinarsi di più al contenuto dei due testi in esame partendo da “L’illusione di Dio”:

l’inizio del volume di Dawkins reca una partenza tale da ricordarmi da vicino un altro libro letto nell’annata trascorsa e alludo al testo del matematico ed ateo impertinente ed impenitente Piergiorgio Odifreddi, dal titolo “Perché non possiamo dirci cristiani – e tanto meno cattolici”, in quanto si assiste, in entrambi i lavori, ad una lunga sequela di rimostranze morali, tipiche di ogni cahier de doléance:  nemmeno io sono propenso ad impartire assoluzioni a buon mercato ai peccati della chiesa, di ogni chiesa.   Sono contrario, è vero, al moralismo esercitato in campo privato.   Tuttavia ritengo che tutti coloro che si presentano in campo pubblico a fare promesse o proclami, siano essi religiosi, o politici o anche filosofi morali o giornalisti, che tutti, dico, debbano essere trattati con il metro da loro medesimi predicato, e quindi, nella maggioranza dei casi, con il moralismo più intransigente, questo  in nome della coerenza.   Per inciso mi sono permesso di consigliare il testo di Odifreddi come argomento di meditazione per una serie di esercizi spirituali per vescovi e cardinali, pastori, patriarchi e archimandriti.   Di certo farebbe bene anche al papa.    

Ma nel ritornare a Dawkins dovremo dire che il biologo è un ragionatore ancora più accanito ed efficiente del matematico:  ci dice che l’argomento degli agnostici è incontestabile ma vergognosamente debole;  il che suscita in me forti perplessità in quanto un argomento incontestabile può anche non piacere ma non può essere debole (infatti gli agnostici non sono seguaci del debolmente credente Vattimo…).    Ad ogni modo per Dawkins un universo con un controllore-creatore sarebbe molto diverso da un universo senza controllore-creatore.   Ma se saremo chiamati a far pendere da qualche parte tale bilancia,  chi dovrà decidere su di una questione del genere?  Lo scienziato o il teologo?   Perché mai lo scienziato dovrebbe avere minori competenze del teologo?   Già, me lo chiedo anch’io.  La primavera scorsa fui chiamato a relazionare presso il nostro Gruppo “Scienza e fede” circa il Progetto intelligente e pur senza conoscere ancora il testo di Dawkins ebbi l’opportunità, sulla base di articoli attendibili, di disconoscere ogni presunta scientificità da parte dei sostenitori dell’Intelligent design.   E’ naturale che Dawkins si addentri assai più in profondità nel problema, in  modo da sminuzzare ogni argomento a favore del progetto e a ridurlo ai minimi termini.   Dawkins è contemporaneamente un negatore del così detto principio del Doppio magistero o dei Magisteri non sovrapposti che sostiene che gli scienziati sono competenti nel loro campo e i teologi nel loro:  al contrario se i teologi desiderano intromettersi in principi di fisica, chimica o biologia (cosa che fanno continuamente) saranno costretti ad assumere non dico il punto di vista scientifico, che è pur sempre mutevole, ma almeno la metodologia della scienza (e qui non posso che dar ragione a Dawkins).

Addirittura il famoso e compianto Stephen Jay Gould pensava che in campo morale fosse necessario rispettare la competenza dei teologi:  ma questo è contestato con vigore da Dawkins e ciò in particolare è approvato con totale adesione dal sottoscritto, il quale è impegnato a dimostrare come l’etica o morale derivi direttamente dalla condizione naturale dell’uomo in quanto animale dotato di linguaggio.   In fondo questa mia presa di posizione ha lo stesso sapore di quando siamo costretti a dar torto ad un amico, poiché, in campo evoluzionistico io trovo più convincenti le tesi di Gould, che parlano di una evoluzione punteggiata da accelerazioni improvvise, rispetto alla concezione più “darwiniana” di Dawkins, che descrive una evoluzione per piccoli passi  (la quale, beninteso, non è da disconoscere in molti casi ordinari).   Amici di “Scienza e fede”, lo vogliamo fare un dibattito per vedere le ragioni di Gould e le obiezioni di Dawkins?

Certo la questione di come si possa presentare un universo che sia in mano ad un Dio creatore e interventista rispetto ad un universo privo di tutto ciò (a cui io affiancherei l’ipotesi di un Dio emanatore) è di grande rilevanza.  Nel primo caso, descritto dal detto “non si muove foglia che Dio non voglia”, il credente starà sempre all’erta per percepire tutti i “segni” della presenza divina, segni appartenenti, a detta del credente, a due gruppi:  da un lato si collocano i segni più coperti e che devono essere riportati alla luce per mezzo  dello studio e dell’intuizione che vanno dal più volte ricordato “Progetto intelligente”, che poi si trasforma in Provvidenza e in buona sorte;  dall’altro stanno segni tipo prodigi, profezie, miracoli, volti anche ad accogliere suppliche e preghiere che, per il loro carattere pubblico o addirittura plateale, si pongono al di là di ogni dubbio.   Tanto Dawkins che Vannini sono propensi a classificare tutto ciò nel regno della superstizione.   Nel secondo caso l’universo è interpretato come procedente per sue leggi proprie che, a livello macroscopico, si riassumono nel procedere attraverso cause ed effetti.  Lo stesso pensiero emanazionista tende, a mio modo di vedere, ad escludere il così detto deus ex machina in quanto tutto quanto avviene, a partire dalle leggi e cause naturali appare come pura volontà o trasformazione dell’essere divino stesso, per cui appare assurdo che Dio si muova per disfare mediante un prodigio quello che ha appena fatto.   Tra l’altro io sono convinto che i prodigi avvengano ma non come frutto di un intervento divino ma come esito di misteriosi poteri della mente umana.   Padre Pio sosteneva che non era lui a compiere i miracoli ma Dio, ma io sono convinto del contrario.   Gli è che è naturale che i grandi spiriti, capaci di mobilitare le forze oscure della nostra mente, non appena si accorgono di questa presenza in loro del prodigioso, nell’attribuire tutto ciò a Dio, imboccano, il più delle volte una via dedita alla meditazione e alle pratiche religiose.

Nasce, da quanto detto sopra, il formidabile problema della Teodicea, problema che coinvolge tanto il dio interventista quanto quello astensionista, ed è ovvio che a tale problema Dawkins fornisca una soluzione che nega Dio.   Io ho anche ventilato una mia relazione su di questo tema, ma per il momento non mi è possibile definirne i tempi e gli argomenti.

Nel Cap.III Dawkins si dedica ad enumerare le prove addotte per inferire l’esistenza di Dio e con metodo e perizia le smonta ad una ad una.     Se qualcuno di quelli che hanno letto o leggeranno il testo non si convince degli argomenti addotti io sono disponibile per scritto o di persona a discutere la questione.

Il cap. IV è dedicato soprattutto ad affrontare due grandi argomenti, il Progetto intelligente e il Principio antropico.   Il primo è un grande argomento solo per la sua irrefrenabile diffusione in ambito fideista, diffusione iniziata in America e che ora si abbatte, in guisa di tsunami, sull’Europa.  Come credo di avere già dimostrato la scorsa primavera, nulla di scientifico è contenuto in esso e dunque esso appare come il risultato dei desiderata  delle persone credenti, che hanno una infarinatura, tuttavia insufficiente, di nozioni scientifiche.   Il punto cruciale  della disputa si incentra, come c’è da aspettarsi, sulla teoria dell’evoluzione, nella sua versione darwiniana.   Il Nostro, come arcinoto, è un campione in tale ambito (ed anzi io mi ritengo un suo umile discepolo) e non sto a ripeterne gli argomenti:  anche in questo caso, se qualcuno non è convinto, sono pronto a sostenere un dibattito.    Vorrei solo trattare qui di un ulteriore argomento tratto dalle tesi del sopra ricordato e criticato Gould.   La premessa di quanto intendo dire sta nel fatto che mentre i sostenitori del Progetto intelligente in America, pur se dotati di ingenti risorse sono, dal punto di vista scientifico, di uno spessore del tutto risibile, al contrario in Europa tengono banco a favore del Progetto intelligente due studiosi di non trascurabile competenza.   Uno è italiano, è stato docente a Palermo e Perugia, ed è forse il più noto dei due, anche per le sue apparizioni in televisione e alludo a Giuseppe Sermonti, autore, tra l’altro, di “Dimenticare Darwin”, il Cerchio;  l’altro è di origine portoghese ed è docente a Lund, in Svezia, e si tratta di Antonio Lima-de-Faria, di cui è comparso in Italia un corposo testo dal titolo “Evoluzione senza selezione”, Nova Scripta.   Io ho letto con attenzione entrambi i volumi, ricavandone anche buoni sussidi in campo scientifico, ma la mia impressione conclusiva è la seguente:  ambedue gli autori sono per la formazione culturale e per la logica argomentativa di estrazione prettamente darwiniana.   Ma danno tutti e due l’impressione di voler commettere il classico parricidio nei confronti proprio di Darwin.  Ed il punto a cui si appigliano ambedue è la teoria della selezione naturale, in quanto, da scienziati indubbiamente seri, si guardano bene dal mettere in discussione l’evoluzione.   Dunque, detto in parole assai povere, per loro il progetto intelligente esiste in quanto le specie (e soprattutto, come ovvio, quella umana) sono già comprese nel genoma delle specie antecedenti da cui le nuove emergono:  gli è che questa emersione non è dovuta all’opera della selezione naturale, bensì alla guida da lungi del Creatore che ha programmato tale evento e che ne ha guidato la nascita.   Una teoria simile era già stata formulata nei sec. XVII-XVIII e va sotto il nome di preformazione o preformazionismo, ma oltre al fatto che riguardasse la formazione dei singoli organi e non delle specie, non andò oltre il sorgere delle teorie evoluzionistiche.   Ora invece si vuole negare ciò che più gli studi si estendono più si manifesta come un fenomeno generalizzato, generalizzato al punto tale da superare le previsioni dello stesso Darwin, che pure come apertura mentale non fu secondo a nessuno.   Basti pensare proprio al campo dell’epigenesi (lo stesso che diede luogo alla teoria della preformazione), al campo dello sviluppo neuronale del feto e del neonato (il pensiero va a Edelman), addirittura a recenti teorie cosmologiche che hanno anche a che vedere con il nostro prossimo argomento e cioè il principio antropico (Dawkins a pag.149 ne cita una, quella di Lee Smolin).   Non posso qui andare oltre.   Voglio solo, come ho accennato, introdurre una riflessione che aiuti a comprendere come vada concepita la selezione naturale, argomento tratto non dalle teorie di Dawkins ma da quelle di Gould.   Per Dawkins e in parte anche per Darwin (al quale però già non sfuggiva l’argomentazione che poi sarà presentata da  Gould) la selezione naturale opera a piccoli passi o tocchi, quasi come il lavoro di uno scultore o di un operatore di bulino che si dia pena di modellare ogni organismo al “fine” di adattarlo all’ambiente.   E dunque gli organismi raggiungono la loro forma definitiva, in relazione ad un ambiente dato, sotto la spinta di  una selezione che, nel preservare le innovazioni le pilota verso il risultato finale.   Per Gould non è solo e sempre così.   Anzi in un certo senso è l’inverso:  le specie, in tempi abbastanza rapidi, raggiungono un adattamento all’ambiente e poi accade che per tempi geologici lunghissimi restino invariate:  questa invarianza è proprio frutto della selezione che opera scartando e caducando tutte le variazioni che si distaccano dal ceppo “gradito” dall’ambiente.   Tuttavia, purtroppo o per fortuna, gli ambienti non rimangono per sempre invariati:  essi variano o per immani cataclismi, tipo l’impatto di un asteroide od eruzioni generalizzate,  per rapide mutazioni, tipo l’instaurarsi di una glaciazione, o anche perché una parte degli appartenenti ad una certa specie è emigrata in un ambiente diverso e separato geograficamente dal primo.   Diciamo che spesso è proprio in questi casi che la selezione naturale, tanto avversata da Sermonti e da Lima-de-Faria, in un certo senso viene meno.   Essa viene meno con l’allentarsi del controllo naturale che l’ambiente di prima operava sulle specie precedenti:  ed è a questo punto che avviene l’imprevedibile.   L’assenza della selezione stessa permette l’esplosione delle forme di vita le più svariate e stupefacenti:  ciò è testimoniato dai fossili di Ediacara risalenti a 570 milioni di anni fa;   il fenomeno si è ripetuto “poco” dopo con l’esplosione delle forme di vita del Cambiano: ma fin qui il motivo dell’attenuarsi della selezione può essere solo immaginato, in attesa di avere ragguagli più precisi.   Invece ciò che accadde dopo l’estinzione dei dinosauri è ben documentato, ed è costituito dalla proliferazione, sia come numero che come quantità di specie, dei mammiferi che prima erano tenuti come in gabbia dai rettili.   Ma non credo che si sia realizzato in quel momento il progetto del Creatore;  semplicemente si è liberato il potere creativo delle mutazioni casuali.   Un esempio di ciò, molto più prossimo a noi, è costituito dal cane:  il nostro migliore amico vive in natura sotto forma di lupo ed è propriamente la selezione naturale che impone al lupo le sue forme pressoché immutabili.   Con la domesticazione la selezione naturale è venuta meno ed anzi si è sostituita ad essa la selezione artificiale che ha spesso e volentieri avuto come obiettivo proprio quello di preservare le variazioni che si producono casualmente ad ogni generazione.   E dunque in tempi “assai brevi” si è avuta a carico del cane la più imponente variazione di razze che una specie animale abbia mai incontrato.   Che anche qui sia venuto a galla il progetto del Creatore?   Diciamo pure tutto quello che ci fa piacere ma non diciamo che la selezione naturale non esiste.    La prova del nove dell’importanza e della cogenza della selezione naturale, nella direzione dell’imposizione e poi della conservazione di una certa forma da parte dell’ambiente si vede nel fenomeno della evoluzione convergente:  accade regolarmente che specie appartenenti a gruppi naturali assai distanti fra di loro finiscano per assumere la stessa forma in dipendenza della similitudine dell’ambiente che fa ad esse da nicchia ecologica.   L’esempio più evidente è costituito dai marsupiali australiani i quali, pur essendo molto distanti dai mammiferi placentati degli altri continenti (essi fanno parte di una sottoclasse dei mammiferi medesimi) tuttavia assumono le forme dei loro lontani cugini placentati, in relazione appunto all’ambiente frequentato e allo stile di vita adottato:  a titolo di pura indicazione e senza usare terminologie scientifiche mi limiterò a citare i casi della lepre marsupiale, della talpa marsupiale, del lupo marsupiale, del gatto-tigre marsupiale ecc.

Vorrei ora riprendere la strada con Dawkins (anche se sarei molto curioso di sapere che cosa ne pensa delle surriferite argomentazioni che di certo gli saranno state avanzate) per trattare del Principio antropico:  io ho avuto la ventura, per circa vent’anni, di seguire le lezioni della “Scuola aperta di astronomia” presso il Collegio Pio X di Treviso, lezioni che ancora rimpiango.   La scuola è stata fondata dal prof. Romano, insegnante all’Università di Padova e direttore dell’osservatorio astronomico di Asiago, ed è stata arricchita dall’intervento dei più validi astronomi, studiosi e teologi presenti nell’agone culturale italiano.   Ho sentito dunque assai per tempo (erano gli anni tra il 1970 e il 1992, anno del mio ritorno in Piemonte) parlare del Principio antropico.   Come rilevato puntualmente da Dawkins per la generalità dei casi, tale principio era posto innanzi, anche in quell’ambiente ricco di sapere ma per lo più cattolico, quasi per  sottolineare la immensa potenza e sapienza del Creatore che, in un universo dotato di dimensioni prima inimmaginabili, ha fatto sì che il fenomeno vitale si incamminasse e si instradasse proprio sulla dolce,  propizia ed evidentemente predisposta superficie terrestre.   Se infiniti sono i mondi ed infiniti i pianeti, in gran parte inabitabili e magari anche abitabili, il fatto che noi siamo qui dimostrerebbe che la Provvidenza divina ha attrezzato proprio qui un luogo atto alla nostra sussistenza.   La cosa mi ha sempre lasciato perplesso, e le mie perplessità sono, nel senso negativo, spazzate via dal ragionamento di Dawkins:   come al solito questo ragionamento non dimostra l’inesistenza del Creatore ma dimostra invece che il Principio antropico, lungi dall’essere una prova dell’esistenza di Dio, finisce per rendere plausibile la concezione della nostra esistenza come frutto del caso.   Il ragionamento è il seguente:  una volta scoperta l’incommensurabile vastità del mondo, contenente l’altresì incommensurabile numero di astri, sistemi solari, galassie, ammassi di galassie ecc. non c’è da meravigliarsi che il caso in un qualche luogo, fornito di qualità assai rare favorevoli alla vita, abbia aperto la possibilità dello sviluppo della vita medesima:  ed eccoci qua noi.   Noi siamo qui per il semplice fatto che qui possiamo vivere mentre in un altro luogo non ci sarebbe possibile.   E dunque la presunta prova si rivela come una lama a doppio taglio in quanto noi potremmo essere il frutto di un caso in parte fortunato ma la cui improbabilità è sanata in radice dalla acclarata presenza di infiniti mondi.

Già, il caso sembra essere proprio la bestia nera dei creazionisti:  essi analizzano le strutture meravigliose degli esseri viventi e proclamano che ciò non può essere opera del caso. Al che Dawkins ha buon gioco nell’ obiettare che in tali circostanze il caso non c’entra, in effetti, per niente, in quanto sono gli organismi medesimi ad autoassemblarsi ed a autocostruirsi, generazione dopo generazione, sotto la spinta della selezione.   Pare ritornare l’argomento, ormai vieto, che il caso non potrebbe mai, pur avendo a sua disposizione tutti i pezzi ed anche tutti i cicloni possibili e immaginabili, nonché i miliardi di anni dell’età del cosmo, costruire un Boeing, attraverso un assemblaggio appunto casuale.   Ciò è vero, il caso non sarebbe mai in grado di fare ciò, né nei confronti di un Boeing né tantomeno nei confronti di un organismo vivente, anche per il fatto che gli organismi viventi sono assai più complessi di un Boeing.   Gli è che gli organismi viventi, nella loro complessità sono anche muniti di una memoria genetica che permette loro sia di conservare i singoli piccoli o grandi miglioramenti che li favoriscono nella selezione vitale sia di replicarsi trasmettendo questo accumulo di caratteri positivi.   Se pure questo meccanismo è sorto per caso, tuttavia dalla sua nascita in poi il caso continuerà ad operare all’esterno del meccanismo ma non nel suo interno.   Non c’è ancora nessuna macchina dotata di un simile congegno anche se sono convinto che in tempi “brevi” l’uomo riuscirà a realizzare questo passo.

Un ulteriore campo caro agli uomini di fede è quello denominato da Dawkins come “culto delle lacune”:  in tutti i casi, e sono molti, come riconosce anche l’Autore, nei quali la scienza non giunge a dare una spiegazione ecco che l’uomo di fede intravede sistematicamente la presenza  della mano di Dio.   Ma l’argomento è debolissimo: non appena giunge ad essere formulata una spiegazione ecco che la mano di Dio svanisce.   Incontriamo qui quello che è stato definito come “il Dio tappabuchi” dal grande Bonhoeffer.

Nel cap.V “Le origini della religione” Dawkins ripercorre la lunga sequenza dei vantaggi terreni che la pratica della religione dà ai suoi seguaci e fornisce alcuni esempi di come e con quale facilità si possa instaurare una nuova religione:  come ho già detto, non ritengo che questi argomenti siano conclusivi anche se è del tutto legittimo che siano presentati da parte di chi intenda completare in modo esaustivo la propria indagine.

Nel cap.VI Dawkins tocca un tema di estrema delicatezza e al limite avvelenato, usando un titolo dal sapore beffardo: “Le origini dell’etica: perché siamo buoni?”  Circa la nostra bontà basti leggere i riportati improperi indirizzati ai nemici del cristianesimo da parte di individui credenti.  Tuttavia l’innegabile senso morale ha un’origine darwiniana?, si chiede Dawkins.   E’ questa per me una domanda capitale attorno alla quale mi sto dannando l’anima.    E’ evidente che la mia risposta è positiva anche se imbocca strade in parte diverse da quelle di Dawkins.   In sostanza, come dimostrato da indagini statistiche, risulta che le persone prendono decisioni morali indipendentemente dalle loro credenze religiose.   La cosa non è perfettamente chiara.  Le indagini degli psicologi paiono complicare in modo dannoso la questione. Tuttavia anche i credenti più avvertiti non si attardano a negare l’esistenza della morale naturale.   E soprattutto non c’è differenza sostanziale tra atei e credenti nella risoluzione di quesiti morali.   Già, non c’è differenza nell’enunciare i principi:  sarebbe più istruttivo compiere una statistica sui comportamenti effettivi.   Se non c’è Dio perché essere buoni?, suona il famigerato dilemma.   Ecco cosa ne dice Einstein:<<Se le persone fossero buone solo per timore della punizione e speranza della ricompensa, saremmo messi molto male.>>   Eppure durante lo sciopero di Montreal, ricorda sempre Dawkins, la gente sfasciò i negozi e i cecchini spararono sulla polizia.   Di qui la domanda di un cinico:<<Chi dice che abbiamo bisogno della religione intende dire in realtà che abbiamo bisogno della polizia?>>   Di certo il campo morale è un grande ginepraio a districare il quale io sono impegnato.   I più, ricorda Dawkins, per districarlo, si affidano alle Scritture.

Ed infatti il cap.VII è composto da una sorta di grandiosa catilinaria contro i nefasti morali derivanti dalle scritture.   La messe di notizie fornita è di tutto rispetto ed andrebbe meditata con ogni attenzione.   Dawkins appare dare più credito che non Vannini al racconto sacro, ma questo potrebbe essere attuato con una certa malizia al fine di metterne meglio in risalto gli stridori e gli orrori.   Diversi inquietanti interrogativi si accumulano poi per strada tipo:  “Il Nuovo Testamento è davvero migliore?” o “Hitler e Stalin non erano atei?”   La conclusione è, ancora una volta, che l’etica esiste ed è praticata ma che di certo non deriva dai testi sacri.

Nel cap.VIII Dawkins fa una sorta di esame di coscienza e ci convince che la sua ostilità alla religione è esclusivamente verbale e che egli, per niente al mondo, per mero disaccordo teologico, farebbe saltare in aria o decapitare o lapidare o bruciare sul rogo o crocifiggere i suoi antagonisti e che non lancerebbe aerei contro qualsivoglia grattacielo.   Ma egli spesso viene accusato di integralismo: ed allora pazientemente ci conduce per mano dimostrando con buoni esempi come la posizione dello scienziato che segue procedure corrette non è quella dell’integralista.   Ma dopo questa doverosa pausa la denuncia impietosa riprende, impietosa verso gli oppressori di ogni clima e latitudine ma, al tempo stesso ben misericordiosa verso gli oppressi in balia dei grassatori di ogni risma che si fanno scudo di un libro sacro.   Qui i motivi dell’avversione di Dawkins verso le religioni sono bene documentati.   L’analisi poi che l’Autore fa della trasformazione della democrazia americana è tale da far correre i brividi per la schiena:  qui pare che si prospetti il sorgere di una “democrazia” teocratica.   Secondo Dawkins anche la fede moderata favorisce il fanatismo e ciò riguarda tanto il Cristianesimo che l’Islam.   L’analisi condotta avanti su quest’ultimo argomento mi ricorda da vicino quella di Oriana Fallaci.   E’ fuorviante per Dawkins pensare che i terroristi agiscano per motivi diversi da quelli impliciti nella loro fede, fede che viene appunto alimentata anche dai moderati.  Il comportamento dei terroristi deriva direttamente dalla comune interpretazione del testo sacro.   E dunque si tratta di una pratica veramente perniciosa insegnare ai bambini che la fede sia una virtù.

La questione pedagogica costituisce l’argomento fondamentale del cap.IX che titola “Infanzia, abusi e fuga dalla religione”.   Viene ricordato il caso di Edgardo Mortara, figlio di genitori ebrei, battezzato furtivamente dalla domestica nel 1858 e per questo sequestrato dalla polizia pontificia e internato in un orfanotrofio.   Ma subito dopo Dawkins dimostra equanimità non accodandosi al clima di caccia alle streghe a proposito delle accuse di pedofilia rivolte agli ecclesiastici, il che ci fa comprendere come egli sia animato da intenti ispirati all’obiettività e all’equilibrio.   Per Dawkins, in sostanza, fa più male a un bambino una educazione cattolica o cristiana che non un abuso sessuale, e coerentemente esibisce le testimonianze che suffragano la sua convinzione.   Tra le tante mi ha colpito l’abitudine dei seguaci del pastore Keenan Roberts di portare i bambini a visitare le “case infernali” ove tra puzza di zolfo e urla agghiaccianti di dannati, interpretati da attori assai efficaci, si aggirano diavoli gongolanti nell’infliggere i castighi.

Nel X ed ultimo capitolo Dawkins affaccia l’ipotesi che la religione colmi una lacuna intrinseca della mente umana che avrebbe un incoercibile bisogno di spiegazione, esortazione, consolazione, ispirazione e a questi formidabili supporti intitola quattro paragrafi concludendo che sarebbe preferibile in ogni caso attingere, per ottenerne effetti migliori, alla scienza.   Anche il sottoscritto è convinto che un simile sviluppo potrebbe portare enormi giovamenti all’umanità ma mi sembra che l’umanità sia disperatamente lontana da questo traguardo e che quindi la soluzione proposta, al di là del suo intrinseco merito, non sia in grado di ottenere frutti apprezzabili.   Infatti sicuramente le spiegazioni più accettabili vengono dalla scienza. E le esortazioni meno peregrine e meno inquietanti vengono dalla morale naturale.   Ma nutro profondi dubbi che dalla scienza possa derivare un consistente consolazione e una duratura ispirazione.   Io per primo nell’affrontare il presunto problema della teodicea tendo a sminuire l’importanza del male.   Tuttavia l’impostazione di Dawkins tendente non certo a giustificare Dio, ma a fornire una serie di considerazioni consolatorie che siano in grado di sostituire quelle della religione (tutte trovate puntualmente e a ragione fallaci), mi lasciano alquanto perplesso.   Per esempio  Dawkins magnifica la nostra fortuna a essere vivi, giacché la stragrande maggioranza degli individui che potrebbero saltar fuori dalla lotteria combinatoria del Dna in realtà non nascono mai.    Comprendo questo sentimento se viene condiviso da un centenario che, come dice la Bibbia, sazio d’anni sia in procinto di rientrare nel grembo dei suoi avi,  ma la cosa è assai meno comprensibile se riferita ad una persona molto giovane che venga condannata a breve da qualche male inesorabile.    Di primo acchito per questa persona non c’è pensiero consolatorio che tenga, a meno che lo sfortunato non abbia maturato in sé quel legame indissolubile con la gioia che è alla portata di ogni essere umano ma che è tanto raro e che assomiglia da vicino allo spirito religioso.   In questo caso io sono disposto ad ammettere che non si tratti affatto di un essere sfortunato ma di un essere altamente fortunato.     Anche Bertrand Russell ha insegnato che il pensiero e l’amore non perdono il loro valore anche se non sono eterni, tuttavia questo stato di cose non cessa di provocare una acuta sofferenza in tutti gli spiriti amanti e pensanti che non si siano fortificati alla maniera degli stoici o del grande Lucrezio.   Ma mi sono sempre chiesto:  perché Lucrezio e Michelstaedter hanno scelto di suicidarsi?   Forse perché alla fine non riuscirono nell’intento di fortificare la propria anima o, all’opposto, proprio per un preciso motivo filosofico?   Non nego che su di me faccia tuttora un grande effetto il detto di Heidegger che suona presso a poco così:<<Alla fine solo un Dio potrà salvarci.>>   Mi rendo conto che si tratta di un atteggiamento a sfondo emotivista che potrebbe daccapo aprire ad una morale di scarso valore, parimenti di tipo emotivista:  ma nella nostra esistenza ci sono emozioni ed emozioni, alcune risibili e banali altre radicate fino in fondo nella struttura del nostro essere e dunque testimoni del nostro stato ontologico, che emerge quando l’emozione diventa qualcosa di ben diverso dall’usuale, qualcosa tipo una gioia immensa o un dolore incoercibile e lacerante .   Si tratta di osservarle con attenzione per poterle mettere sul piatto della bilancia.  Questo stato di cose in me non fa sorgere alcuna fede, ma apre uno spiraglio alla speranza.   Una speranza in una misericordia di tipo ontologico.   Mi sembra quasi improponibile pensare che quello che in fondo è solo un istinto, l’istinto di conservazione appunto, arrivi all’obiettivo di suscitare l’intero corpo delle elaborazioni metafisiche umane.   Ci si è, analogamente, anche stupiti che la  semplice facoltà uditiva umana sia stata in grado di creare la musica di Bach e di Mozart;  o che l’agrimensura degli e