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Fascismo totalitario, mito o realtà

di Giovanni Belardelli e Angelo D’Orsi - 23/02/2008


 
Un dibattito su «Memoria e Ricerca» riapre la questione del rapporto fra intellettuali e potere durante e dopo il regime

La questione del rapporto tra intellettuali e fascismo continua a suscitare polemiche e discussioni. Il tema sembrerebbe costituire un nervo tuttora scoperto della coscienza pubblica nazionale. Quali le ragioni?
D'Orsi — Se la domanda si riferisce alla riluttanza a «fare i conti», la risposta mi pare sia da ricercare almeno un po' nel famoso «carattere degli italiani», che rinvia alla storia di una nazione divisa, con scarsa moralità, incapace di costruire un senso di appartenenza. Un popolo sul quale il cattolicesimo ha esercitato un ruolo sostanzialmente negativo, esaltando l'esteriorità, a scapito dell'interiorità. Il perdono del sacerdote nel confessionale sembra produrre una diffusa, generale tendenza all'autoassoluzione, le scelte degli individui vengono annegate negli orientamenti della massa, un tutto in cui ogni responsabilità si stempera. Ma altre ragioni si affacciano, a cominciare da quella più precisamente politica. La continuità tra fascismo e Repubblica è nei fatti. Scavare lungo i fili che congiungono i due momenti storici significherebbe mettere a repentaglio almeno una parte degli stessi «miti fondatori» del postfascismo. Su questa linea, storicamente, democristiani e comunisti, liberali e socialisti si sono trovati tacitamente d'accordo. Non è un caso che chi ha condotto ricerche sull'intellettualità nel Ventennio abbia trovato, spesso con un certo sgomento, episodi di compromissioni che investono quasi paritariamente l'intellettualità di varia collocazione.
Belardelli — Non mi pare si possa parlare del rapporto intellettuali-fascismo come di un nervo scoperto. Dagli anni Settanta tale rapporto ha rappresentato uno degli argomenti più frequentati dalla storiografia. È da quel momento che il quadro di una vita culturale in gran parte indipendente dal regime si è rovesciato nel suo opposto; fino a documentare una situazione che Roberto Vivarelli ha ben definito come «un regime di convivenza», nel quale anche quanti erano conosciuti come antifascisti, «se non si esponevano in forme di opposizione attiva, continuarono a svolgere i loro mestieri e le loro carriere accademiche». Diversa è invece la questione della successiva «conversione all'antifascismo». A questo riguardo, le polemiche dipendono dal modo in cui un intero ceto intellettuale che aveva operato durante il fascismo si trovò a dover rielaborare il proprio passato dopo il 1945, negando o molto sminuendo i precedenti rapporti con il regime.
Il disciplinamento blando e tardivo degli intellettuali sotto il fascismo, se confrontato con i metodi adottati nella Germania nazista, ha indotto a parlare di «totalitarismo riluttante». Condivide questa lettura?
D'Orsi — Sostanzialmente no. Ritengo che l'interpretazione del fascismo come «totalitarismo imperfetto » abbia fatto il suo tempo, rivelandosi inadeguata e fuorviante. Penso piuttosto che il fascismo costituisca quasi il modello idealtipico del totalitarismo novecentesco, a cominciare dalle inoppugnabili ragioni cronologiche. Se nel totalitarismo un elemento essenziale, accanto all'esercizio di un potere dispotico, è il disordine, la mancanza di un vero centro politico, al di là delle decisioni del capo, che a loro volta sono sempre incerte, non v'è dubbio che il fascismo sia stato il regime totalitario per eccellenza, con i contrasti acutissimi tra centro e periferia, tra prefetti e federali, tra partito e Stato. D'altra parte l'incapacità del regime di realizzare un effettivo controllo delle istituzioni culturali non sembra sia dipesa da una carenza di volontà politica: nel fascismo il disegno di dare vita a una totale e totalitaria «politica della cultura», a una vera irreggimentazione dei chierici, è a mio avviso più nitido e convinto che nella Germania hitleriana e nella Russia staliniana. Nel fascismo si dà assai più importanza agli intellettuali, di quanto essi non ne ricevano in altri regimi «totalitari».
Belardelli — Mi sembra che l'idea di un totalitarismo «tardivo» o «riluttante» non faccia che registrare dati di fatto. Mi limito a due esempi. Si pensi alla legge del dicembre 1925 che consentiva di allontanare dall'università i professori antifascisti; ebbene, sul finire del 1926, vennero estromessi soltanto due docenti, uno dei quali peraltro, il socialista Luigi Montemartini, verrà reintegrato di lì a poco. Siamo dunque di fronte a un quadro incomparabile con quello fornito dalla Germania dove, a nemmeno due anni dall'ascesa al potere di Hitler, risultavano allontanate dall'università 600 persone. O ancora, si pensi al giuramento di fedeltà al regime introdotto nel 1931: si trattava a ben vedere di una misura congegnata, più che per estromettere i molti docenti di sentimenti antifascisti, per favorirne la permanenza dopo un formale atto di subordinazione. Naturalmente, questo non vuol dire che l'una e l'altra misura che ho citato non avessero un carattere repressivo. Ma si tratta di misure che sembra difficile poter interpretare come il segno di una politica effettivamente totalitaria. Tutto ciò, naturalmente, vale fino al 1938, un anno che segna, come è noto, una svolta dal punto di vista delle inclinazioni (e realizzazioni) totalitarie del regime, non solo a causa delle leggi razziali. Ma appunto, un regime che comincia ad applicare sistematicamente misure totalitarie a oltre dieci anni dalla nascita della dittatura vera e propria, come altro potrebbe definirsi se non come un totalitarismo riluttante o tardivo?
Pier Giorgio Zunino ha sottolineato come il mito dell'antifascismo fosse una «impostura necessaria». Quale fu la funzione assolta dalla cosiddetta «vulgata antifascista» nell'Italia postbellica?
D'Orsi — Si tratta di una espressione forte, che condivido solo nell'aggettivo: parlerei di «mito necessario », dietro il quale esiste una precisa realtà. L'antifascismo e la Resistenza sono stati dati oggettivi. Il fatto che la Resistenza attiva sia stata una presenza minoritaria non può ridurne il significato a mero dato virtuale e mitologico. Inoltre, va ribadito che dietro quel fatto minoritario esisteva un'amplissima zona di complicità con il partigianato. La vulgata, a ben vedere, è ormai quella di chi continua a denunciare la vulgata: è il tentativo, giunto ormai alle estreme conseguenze con Pansa, di pareggiare i conti, di annullare le differenze, e di togliere alla Resistenza qualsiasi significato storico. Eppure, la fine del fascismo, il 25 aprile, significò una rottura, e prima ancora l'8 settembre, che non fu la «morte», ma la rinascita di una patria, una patria non nazionalista e bellicista; patria come scelta, non come appartenenza e imposizione. Fu, poi, soprattutto, una prima, parzialissima e minoritaria riappropriazione della politica da parte di quegli italiani chiamati per oltre vent'anni solo ad applaudire il Capo: fu un ritorno della voglia di partecipare, che il fascismo aveva scoraggiato. In tal senso, pur con i limiti di una transizione troppo «continuista », il biennio 8 settembre - 25 aprile fu davvero un grande atto liberatorio.
Belardelli — Sono d'accordo con Zunino: potremmo anche dire che il mito antifascista ha dato vita a una «tradizione inventata. In riferimento alla funzione assolta dalla «vulgata antifascista », vorrei almeno sottolineare, però, come di «vulgate» ve ne siano state varie. Distinguerei da una parte il racconto ufficiale della nuova Italia antifascista, incentrato sulla proclamata estraneità al fascismo della maggioranza degli italiani e sulla larga partecipazione popolare alla Resistenza; dopo il 1945 la costruzione di un tale racconto risultava necessaria e utile perché il Paese si incamminasse sulla via della democrazia. Dall'altro vi è stata una «vulgata » più specificamente ascrivibile al Pci, costruita in primo luogo sull'idea che il partito stesso, per la sua ventennale opposizione clandestina al regime e per il ruolo centrale svolto poi nella Resistenza, rappresentasse la forza più coerentemente antifascista e anzi quella che aveva il «potere battesimale» di decidere dell'antifascismo altrui. Da questo punto di vista, la vulgata antifascista-comunista rappresentò un'arma politica usata contro la Dc, accusata dai comunisti di voler instaurare un regime «clerico-fascista». Peraltro, fu sulla base della vulgata antifascista-comunista che il Pci, in anni nei quali guardava all'Urss come al proprio modello, poté tuttavia acquisire una legittimazione politica come partito «democratico » perché «antifascista»; e in tal modo ricevere anche una sorta di risarcimento per l'emarginazione dall'area del governo.
(testo a cura di Luca La Rovere)