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«L'ospite di Dracula», racconto gotico poco noto di Bram Stoker

di Francesco Lamendola - 24/02/2008

 

Vi sono scrittori che, per il pubblico, diventano e rimangono per tutta la vita (e anche dopo) gli autori di un solo libro, il più famoso, anche se hanno scritto altri buoni lavori; ma questi ultimi, per una serie di ragioni, finiscono per rimanere schiacciati e messi in ombra da quella che tutti, a torto o  a ragione, considerano l'opera maggiore.

Un destino del genere è toccato allo scrittore irlandese Abraham (Bram) Stoker, nato a Clontarf l'8 novembre 1847 (sotto il segno dello Scorpione!) e morto a Londra il 20 aprile 1912, a soli sessantaquattro anni, universalmente noto per il suo romanzo Dracula, il vampiro (1897), da cui sono stati tratte numerose riduzioni cinematografiche e che ha originato tutto un sottogenere letterario: quello, appunto, del vampirismo.

Pochi dei suoi lettori, tuttavia, sanno che il romanzo, che era costato ben sette anni di lavoro allo scrittore, fu giudicato dall'editore troppo lungo e che, pertanto, venne deciso di ridurlo, eliminando il capitolo introduttivo, ambientato a Monaco di Baviera, ove il protagonista, Jonathan Harker, si trova di passaggio nel suo trasferimento da Londra alla Transilvania. Tale racconto poi vide la luce nella raccolta postuma Dracula's Guest and Other Weird Stories, ossia L'ospite di Dracula e altre storie del soprannaturale (la traduzione cui facciamo riferimento nel presente lavoro, tra le numerose esistenti nella nostra lingua, è quella di Ornella Volta, in: Bram Stoker, La vergine di Norimberga. Racconti del terrore compreso «L'ospite di Dracula», Milano, Longanesi & C., 1975, pp. 67-83).

 

Come è noto, nel romanzo maggiore Jonathan Harker è un giovane assistente legale, fidanzato con una ragazza di nome Mina, che parte dall'Inghilterra su invito del conte Dracula, un nobile transilvano che vive in un castello, in un remoto distretto montuoso dell'Ungheria sud-orientale (oggi Romania). Il conte, che Harker non ha mai conosciuto di persona, intende trasferirsi in Gran Bretagna e, prima di partire, vuole vendere le sue proprietà; il lungo viaggio del giovane inglese è,  quindi, giustificato dalla prospettiva di concludere un grosso affare finanziario.

La penultima tappa del viaggio, prima di immergere il lettore nella cupa atmosfera di una Transilvania ancora "primitiva", con le sue montagne, le sue buie foreste e i suoi culti superstiziosi, è Budapest, allora capitale della Transleithania, ossia della parte magiara della Duplice monarchia austro-ungarica (dal 1867 al 1918).

Sia nel corso del viaggio che durante il lungo, inquietante e sempre più angoscioso soggiorno di Harker al castello del suo terribile ospite, l'inglese compila quotidianamente un diario, le cui annotazioni costituiscono la prima parte del romanzo. Come forse ricorderanno coloro che hanno avuto occasione di leggere Dracula, il vampiro (e chi non lo ha letto, almeno una volta, magari da ragazzo?), il diario si apre alla data del 3 maggio, appunto a Budapest, che gli fa la strana impressione di una città "sospesa" fra Occidente e Oriente, con qualcosa di vagamente esotico - che oggi più non esiste -, la quale serve all'Autore per introdurre gradualmente, nell'immaginazione del lettore, un senso di estraniamento e di mistero.

Ebbene, la parte introduttiva, che venne poi espunta dall'edizione definitiva del romanzo, recava la data del 1° maggio e in essa il protagonista (che non viene mai chiamato per nome, anche se noi deduciamo che si tratti di Jonathan Harker) raccontava gli strani e paurosi eventi che avevano contrassegnato il suo soggiorno nella capitale bavarese.

Nel pomeriggio del 30 aprile, infatti, egli aveva lasciato la locanda delle Quattro stagioni, invogliato dal bel sole che sembrava ormai preludere all'estate, per concedersi una gita in carrozza nelle campagne circostanti. Ignaro delle credenze popolari germaniche, neanche per un momento gli era venuto in mente che la notte fra il 30 aprile e il 1° maggio è nota nei paesi di lingua tedesca come la famigerata Walpurgisnacht, la "notte di Valpurga": un particolare momento dell'anno in cui le persone timorate di Dio si guardano bene dal trattenersi fuori casa dopo l'imbrunire.

Secondo il folklore,  si riteneva infatti (e si ritiene tuttora) che le streghe di ogni contrada si diano convegno sulla cima delle montagne, in modo particolare sul Brocken, nei Monti Harz, per celebrare i loro Sabba maledetti e fare ogni genere d'incantesimi e stregonerie. Alle origini era una festa di gioia del paganesimo germanico, che celebrava il ritorno della primavera; ma poi, in ambito cristiano, venne condannata dalla Chiesa come notte dedicata alla magia e al culto del Diavolo. Da allora, Santa Valpurga era invocata come protettrice contro la magia nera e contro la possessione diabolica. Sebbene il suo nome sia chiaramente di origine pagana (da wal, che significa "mucchio di uccisi" o "campo di battaglia", e bergs, "proteggere"; o, secondo un'altra etimologia, da Purag, "castello" o "castello dei morti"), si tratta di un personaggio realmente esistito. Sorella di San Willibad, Valpurga era nata in Inghilterra verso il 710 e morì in Germania nel 777, ov'era diventata  badessa di Heidenheim e ove riposano tuttora i suoi resti, a Haeichstadt, divenuti oggetto di un culto ancor vivo da parte dei credenti.

Jonathan Harker, dicevamo, non sa nulla di queste cose, o, semplicemente, non si ricorda della data fatidica, allorché decide di approfittare della bella giornata per concedersi un'ultima gita di piacere,  prima di dover riprendere il viaggio alla volta di Budapest e, infine, della Transilvania, ospite atteso dal conte Dracula (del quale ignora, ovviamente, la natura di vampiro). Però, prima che la carrozza si muova, il padrone del Quattro stagioni si rivolge a Johann, il cocchiere, per fargli una breve ma significativa raccomandazione: di non trattenersi fuori città più del necessario e di riportare il forestiero all'albergo, prima che scenda il buio.

La frase viene colta da Harker il quale, usciti da Monaco, fa fermare la carrozza e chiede spiegazioni a Johann, ma ne ottiene solo la misteriosa risposta: - Walpurgis Nacht! -, pronunciata con evidente timore e accompagnata da una mimica dal significato inequivocabile: meglio proseguire ed evitare qualsiasi inutile perdita di tempo.

La carrozza si rimette in movimento, inoltrandosi nella campagna; ma, poco dopo, il viaggiatore scorge un sentiero che si diparte lungo una vallata e, incuriosito, di nuovo chiede al cocchiere di fermarsi. Interrogato su dove conduca quella strada, Johann si mostra ancora più imbarazzato e reticente; mescola parole in tedesco e in inglese, appare agitato; a stento Harker riesce a comprendere che quell'incrocio deve contenere un segreto. Anche i cavalli cominciano a dare segni di nervosismo, soffiano e battono gli zoccoli: tanto che il cocchiere, per poter proseguire la conversazione, è costretto a condurli un poco più avanti.

Finalmente, il giovane inglese apprende che presso quel crocicchio è sepolto un suicida, cosa che lo incuriosisce ulteriormente. Intanto si è levato un forte vento da nord, che spinge velocemente attraverso il cielo un banco di nuvole temporalesche; e, d'improvviso, si ode risuonare l'ululato di un lupo. Quest'ultima circostanza è molto strana perché, come conferma Johann, è da molti anni che non si vedono più dei lupi nei dintorni della città - non, almeno, nella bella stagione. Harker non vi bada più di tanto e torna a domandare dove porti quel sentiero, che l'altro non vuole assolutamente percorrere; e, con molta difficoltà, dovuta anche al fatto che il cocchiere conosce solo poche parole d'inglese,  il giovanotto viene a conoscere una storia raccapricciante. Quel sentiero porta a un villaggio da lungo tempo abbandonato: la gente fuggì quando, messa in sospetto da strane sparizioni e da rumori provenienti da sotto terra, si era decisa a scoperchiare alcune bare del cimitero e vi aveva rinvenuto i corpi dei defunti ancora intatti, con le guance ben colorite e le labbra sporche di sangue.

Mentre racconta queste cose allo straniero, sul volto del povero Johann si dipinge una maschera di autentico terrore, ed egli continua a ripetere, segnandosi, le sinistre parole: - Walpurgis Nacht! Walpurgis Nacht! -.

A questo punto, crediamo, il livello di inquietudine da parte del viaggiatore avrebbe dovuto indurlo a più miti consigli e, vincendo la propria ostinazione, egli avrebbe fatto bene ad ascoltare le preghiere del cocchiere e a risalire in vettura. Invece, punto dall'orgoglio nazionalistico e ben deciso a mostrare a quei tedeschi superstiziosi che la notte di Valpurga non è cosa che riguardi un gentleman britannico, egli prende dal sedile il proprio inseparabile bastone da passeggio e, incurante sia del vento che aumenta, sia degli ululati che, di tanto in tanto, rompono il silenzio della campagna abbandonata, si avvia con piglio deciso lungo il sentiero maledetto, dicendo a Johann di fare ritorno in città da solo.

Il brav'uomo non vorrebbe partire, lasciando quel giovane imprudente alle prese con la notte di Valpurga in una simile landa desolata; ma i cavalli sono sempre più irrequieti, tanto che, alla fine, quasi gli strappano le redini di mano, e per lui risulta impossibile trattenerli ancora. Così, la carrozza si avvia sui propri passi, mentre Harker la segue con lo sguardo. A un certo punto, misteriosamente, una figura umana scura e molto alta appare in cima a un colle, proprio davanti al  veicolo, e ciò fa impennare del tutto le povere bestie, già terrorizzate, che si slanciano avanti a corsa pazza, finché la carrozza scompare dietro una curva della strada. Istintivamente, l'inglese alza gli occhi  per cercare il misterioso personaggio, ma anch'egli è sparito alla vista.

Qui incomincia, secondo noi, la parte più bella del racconto, per il sapiente climax con il quale Stoker ci conduce, passo passo, mentre Harker percorre di buona lena il sentiero abbandonato, immerso in una atmosfera sempre più stregata e solitaria; benché non vi sia nulla, in apparenza, che giustifichi un vero e proprio allarme. La bravura dello scrittore consiste proprio nel far crescere la tensione senza fare ricorso ad alcun elemento soprannaturale, ma solo immergendoci nell'aria percorsa da improvvisi sbuffi di vento, lungo una campagna incolta che conduce in un fitto bosco,  in fondo al quale sappiamo esservi le rovine di un villaggio abbandonato.

 

"Penso di aver camminato almeno un paio d'ore senza neppure accorgermi del tempo che passava e senza incontrare anima viva. E senza vedere l'ombra di una casa, neppure in lontananza. Il luogo era completamente deserto. Me ne resi conto, però, solo quando, al termine di una curva, mi ritrovai al limite di un bosco rado. Solo allora presi coscienza dell'impressione che mi aveva fatto quel paesaggio desolato.

"Mi sedetti per riprendere fiato ed osservai quel che mi circondava. Mi parve, dopo poco, di sentir molto più freddo che all'inizio della mia passeggiata. Percepii inoltre un suono che somigliava più che altro ad un lungo sospiro inframmezzato a intervalli regolari da una sorta di grugnito soffocato. Alzai gli occhi e vidi passare nel cielo delle nuvole gonfie sospinte da nord verso sud. Di certo un temporale  stava per scoppiare. Rabbrividii: pensai che ero rimasto seduto troppo a lungo. Ripresi quindi a camminare.

"Il paesaggio era davvero prodigioso. Non che ci fosse di quando in quando qualche particolare che richiamasse lo sguardo; dovunque ci si soffermasse, tutto appariva immerso in un incantesimo.

"Il pomeriggio moriva: cadeva il crepuscolo quando cominciai a chiedermi da che parte sarei tornato a Monaco. La luce splendente del giorno era spenta, il freddo aumentava, le nuvole si ammucchiavano nel cielo, si facevano minacciose, le accompagnava un lontano brontolio, in mezzo al quale di tanto in tanto quell'urlo misterioso che il cocchiere aveva attribuito a un lupo. Esitai un istante, ma ormai l'avevo detto, dovevo vedere quel villaggio abbandonato. Continuando a camminare, arrivai dopo poco ad un vasto altopiano, tra le colline dai fianchi boscosi. Seguii con lo sguardo il sinuoso sentiero: spariva ad una curva dietro un assembramento di cespugli.

"Stavo ancora contemplando quel quadro, quando, improvviso, soffiò un vento gelido e la neve cominciò a cadere. Pensai ai chilometri fatti in quella campagna deserta e andai a rifugiarmi sotto gli alberi che avevo di fronte. Il cielo si scuriva sempre di più, i fiocchi di neve cadevano sempre più veloci e più fitti, non ci volle molto perché la terra intorno e di fronte a me divenisse un tappeto di un candore abbagliante, di cui non vedevo la fine, persa in una sorta di nebbia. Mi rimisi in cammino, ma la strada era pessima. Il suo tracciato si confondeva a volte coi campi, a volte col sottobosco. La nebbia non semplificava le cose: ben presto mi resi conto che ero uscito di strada e che i miei nevi, sotto la neve, sprofondavano sempre più nell'erba, in una specie di muschio. Il vento soffiava con violenza, il freddo pizzicava, cominciavo a sentirmi a disagio nonostante che concentrassi tutte le mie forze per poter avanzare. Il turbine di nevischio mi impediva di tenere gli occhi aperti. Ogni tanto un lampo strappava le nuvole e per un secondo distinguevo davanti a me alberi immensi, abeti e cipressi coperti di neve. Al riparo sotto gli alberi, nel silenzio circostante, sentivo solo il vento sibilarmi sopra la testa. L'oscurità nata dalla bufera fu inghiottita dalla definitiva oscurità della notte. Poi la tormenta sembrò allontanarsi: per qualche tempo vi furono solo raffiche di estrema violenza e, ad ogni raffica, ebbi l'impressione che l'urlo misterioso , quasi soprannaturale del lupo, si ripetesse in molteplici eco.

"Tra le enormi nuvole nere talvolta apparve un raggio di luna a schiarire l'intero paesaggio. Potei rendermi conto così di essere giunto davvero ai margini del bosco di abeti e cipressi. La neve ora non cadeva più, lasciai il mio rifugio per veder meglio. Pensai che avrei probabilmente trovato da quelle parti una casa, magari in rovina, un rifugio più stabile. Costeggiando il bosco, mi resi conto che ne ero diviso da un muro; ma dopo un po' trovai l'apertura. Proprio in quel ounto la foresta di cipressi di dipartiva in due file parallele formando un viale che portava ad una massa cubica, un edificio probabilmente. Ma l'avevo appena intravisto che le nuvole velarono la luna: dovetti risalire il viale nel buio più completo. Camminando, rabbrividivo di freddo, ma mi aspettavo un rifugio e la speranza guidava i miei passi; avanzavo né più né meno come un cieco.

"Poi mi fermai, stupito dall'improvviso silenzio. La tormenta era cessata e, in sintonia con la calma della natura, il mio cuore aveva smesso di battere. Durò appena un istante, poi la una si fece di nuovo strada tra le nuvole e vidi che ero in un cimitero e che l'edificio cubico in fondo al viale era una grande tomba di marmo, bianco come la neve che la ricopriva quasi interamente e che velava l'intero cimitero. Col chiaro di luna mi giunse un nuovo brontolio tempestoso insieme all'ululato sordo dei lupi o dei cani. Impressionato, sentivo il freddo trapassarmi da parte a parte, colpendomi, mi sembrava, anche il cuore.

"La luna rischiarava ancora la tomba di marmo quando il temporale ritornò sui suoi passi. Come subendone il fascino, mi accostai al mausoleo che così stranamente si ergeva in quel punto solitario; gli girai attorno e lessi sulla porta di stile dorico quest'iscrizione in tedesco:

 

Contessa Dolingen de Gratz

Stiria.

Ella cercò e trovò la morte.

1801

 

"Sulla tomba, piantato apparentemente nel marmo, (il monumento funebre era composto di diversi blocchi) stava un lungo piolo di ferro. Dalla parte opposta decifrai queste parole incise in caratteri cirillici:

 

I morti sono veloci.

 

"Tutto era così insolito e misterioso che mi sentii quasi mancare. Cominciai a pentirmi di non aver seguito il consiglio di Johann. Mi balenò un'idea spaventosa: era la notte delle Valpurghe: Walpurgis Nacht!

"Sì, la notte delle Valpurghe, durante la quale milioni di persone credono che il diavolo balzi in mezzo a noi, che i morti escano dalle loro tombe, che tutti i geni malefici della terra, dell'aria e delle acque si abbandonino a un baccanale. Io mi trovavo proprio nel luogo  che il cocchiere aveva voluto abbandonare ad ogni costo, in un villaggio abbandonato da secoli. Qui era stata sepolta la suicida ed io ero solo davanti alla sua tomba, impotente, tremante di freddo sotto un sudario di neve, con la minaccia imminente di un altro temporale! Dovetti fare appello a tutto il mio coraggio, a tutta lamia ragione,, alle credenze religiose nelle quali ero stato allevato, per non soccombere al terrore.

"Dopo poco fui travolto dalla bufera. Il terreno sussultava come sotto il trotto di centinaia di cavalcature, questa volta non fu più neve ma grandine a precipitar sulla terra, e con tale forza che i chicchi strappavano le figlie e spezzavano i rami. Poco dopo, nemmeno i cipressi furono più per me un riparo. Mi buttai sotto a un altro albero, ma anche quel rifugio fu spazzato via dopo poco, cercai qualcosa di più sicuro: notai che la porta del mausoleo, di stile dorico, comportava una nicchia profonda. Là, appoggiato al bronzo massiccio, mi sentii un po' protetto da quella grandine fitta. I chicchi mi venivano addosso solo di rimbalzo dopo essere caduti sul viale o sui blocchi di marmo. D'un tratto la porta cedette al mio peso e si schiuse verso l'interno. Considerai una fortuna il tetto insperato che mi offriva il sepolcro e feci per entrare. Proprio allora un lampo forcuto rischiarò tutto il cielo. Immersi lo sguardo nel buio della fossa e, vero come sono vivo, vidi distesa vidi distesa sul giaciglio una donna bellissima dalle guance piene e le labbra vermiglie che pareva dormire. Scoppiò un tuono e la mano di un gigante mi trascinò di nuovo fuori, sotto la tormenta. Fu così rapido che prima che io potessi rendermi conto dello choc morale e fisico subito, mi sentii nuovamente bersaglio della grandine. Nello stesso tempo, non avevo più l'impressione di essere solo. Guardai ancora verso la tomba. La porta era rimasta aperta. Un altro lampo accecante parve abbattersi sul piolo di ferro piantato nel marmo e farsi strada fino al cuor della terra, riducendo in briciole il possente mausoleo. La morta, in preda ad orribili tormenti, si rizzò per un attimo: era avvolta nelle fiamme, ma il  tuono soffocava il suo grido di sofferenza. L'ultima cosa che sentii fu questo sinistro concerto, poi la mano ciclopica mi riafferrò, ritrascinandomi nella tempesta, mentre le colline che mi accerchiavano si rimandavano l'un l'altra l'ululato del lupo. L'ultima visione di cui mi sovvenga  è quella di una bianca folla in movimento, dalle forme imprecise, come se tutte le tombe si fossero spalancate per lasciar uscire degli spettri. Nel turbine della grandine li intravedevo avvicinarmisi sempre di più."

 

Quando il protagonista si risveglia, semiassiderato, disteso sulla neve, percepisce un grande silenzio e poi come un peso sul petto, accompagnato da un respiro caldo e acre: un gigantesco lupo gli si è coricato sopra, con gli occhi brillanti nell'oscurità. Terrorizzato, egli cerca di mantenersi immobile per non allarmare l'animale; allorché un gruppo di soldati a cavallo, muniti di torce, sbucano dagli alberi e fanno fuoco verso il lupo, che però riesce a fuggire e scompare nella notte. Ma uno dei soldati afferma che, per uccidere quella bestia, ci vorrebbe una pallottola d'argento, il che fa pensare ad Harker che non si trattasse di un animale qualsiasi, ma di una creatura di un genere assai  diverso. Un dubbio inespresso, comunque, rimane: il lupo lo ha salvato dal congelamento, riscaldandolo con il suo corpo, oppure voleva fargli del male? Un dolore alla gola, infatti, lo avverte che i denti dell'animale lo hanno morso, mentre giaceva esanime sulla neve.

Sia come sia, rianimato da un buon sorso di cognac, l'inglese viene fatto salire in sella dall'ufficiale e riaccompagnato in città, alla locanda delle Quattro stagioni; dove apprende che è stato herr Delbrück, il padrone, che ha mandato alla sua ricerca quel drappello di militari. Da Johann, infatti, rientrato con la carrozza sfasciata dai cavalli imbizzarriti, aveva appreso la sua imprudente decisione di avviarsi a piedi, nel tardo pomeriggio, verso il villaggio maledetto, a suo tempo abbandonati dagli abitanti che volevano stare in un luogo dove i vivi conducessero un'esistenza normale e "i morti facessero i morti e non qualche cosa d'altro."

Infine, allontanatosi l'ufficiale, il padrone mostra all'inglese una lettera pervenuta da Bistritz e firmata da Dracula, nella quale lo si invitava a vegliare sul proprio ospite, affermando che "la neve, la notte e i lupi possono essere per lui altrettanti pericoli": come se avesse saputo in anticipo che, quella notte, sarebbe venuto a trovarsi gravemente minacciato.

E con la lettura di questa lettera enigmatica si chiude il racconto, mostrandoci un Harker profondamente pensieroso:

 

"Tenevo in mano la lettera ed avevo l'impressione che la camera mi girasse intorno : se il padrone della locanda non mi avesse sorretto sarei certo caduto. Tutto era così strano, misterioso, incredibile che avevo a poco a poco sempre più la sensazione di essere in balia  di forze contrarie. La sola idea bastava a paralizzarmi. Certo dovevo trovarmi sotto la protezione di qualche forza misteriosa: proprio al momento giusto, un messaggio giunto da un paese lontano mi aveva difeso dal pericolo di addentrarmi sotto la neve e sottratto alle fauci del lupo."

 

Tutto l'episodio è molto ben scritto e crea una forte aspettativa nel lettore, predisponendolo all'atmosfera cupa e misteriosa della parte iniziale del romanzo, ambientata al castello di Dracula. Dispiace che sia stata espunta dall'edizione del 1897; tuttavia, anche considerato come racconto a sé, produce una profonda impressione e non risente del distacco dall'opera maggiore, anzi si potrebbe forse pensare che ci guadagna in sobrietà ed efficacia.

La parte migliore del racconto è, senza dubbio, quella centrale. Il progressivo peggiorare delle condizioni atmosferiche, l'incupirsi del paesaggio, il lontano ululato del lupo creano una atmosfera che culmina, sotto la fitta nevicata notturna, nella scoperta, da parte del protagonista, di essere giunto proprio nel cimitero del villaggio abbandonato. Anche lo stile è notevole, addirittura con reminiscenze dantesche ("il pomeriggio moriva"), e con quel tanto di netto e preciso da evocare un paesaggio ben definito, ma, al tempo stesso, con quel tanto di vago e indeterminato da suggerire lo smarrimento in una sorta di realtà parallela: eccellente introduzione alla "notte di Valpurga", ove le leggi ordinarie della natura paiono come temporaneamente sospese.

Il mausoleo di marmo in stile dorico, doppiamente bianco sotto la neve, incongruo nella cornice della foresta di abeti e di cipressi; la misteriosa iscrizione funebre, che suggerisce trattarsi della tomba della stessa persona che si era suicidata presso il crocicchio da cui si dipartiva il sentiero, nonché la scritta in caratteri cirillici che allude alla natura vampiresca della donna; l'improvvisa, violentissima grandinata, che pare uscita, nel pazzo alternarsi di precipitazioni invernali ed estive, dai sortilegi di un Sabba delle streghe; la porta di bronzo che si socchiude e che, alla luce dei lampi, lascia intravedere una bellissima donna che non sembra morta, ma solo addormentata, di un sonno - però - demoniaco, con la mirabile fusione dell'elemento orrorifico e di quello sessuale: sono tutte pennellate sapienti, che tratteggiano un quadro potentemente originale.

Meno felice risulta invece, a nostro avviso, la parte conclusiva, anche se la paurosa apparizione del lupo, da lungo tempo preannunciata dai suoi sinistri ululati, non è priva di una selvaggia forza   drammatica. L'intervento dei soldati, anche se necessario, forse, al lieto fine dell'episodio, toglie molto all'atmosfera di paura e solitudine che si era creata, e appare piuttosto convenzionale; così come il ritorno in albergo e la conversazione con il padrone e con l'ufficiale, che ci mostra un Harker perfetto gentleman inglese, che offre da bere al suo salvatore: mentre ce lo vedremmo molto più realisticamente, dopo una simile notte, infagottato sotto le coperte e col fuoco del caminetto bene acceso per riscaldarlo.

 

Concludendo, L'ospite di Dracula ci sembra si possa considerare una delle cose migliori uscite dalla penna di Bram Stoker; che comunque, come autore di racconti, non era certo da meno che come romanziere: basti pensare a opere quali La vergine di Norimberga, Il funerale dei topi, La casa del giudice, Le mani insanguinate e Le sabbie mobili: tutte mirabili per freschezza di ispirazione, padronanza dello stile e potente originalità drammatica.

 

Segnaliamo al lettore la bella versione a fumetti di questo racconto, opera del notevole disegnatore Frank Bolle, che, come l'altrettanto suggestivo racconto di Ambrose Bierce La morte di Halpin Frayser (di cui ci siamo già occupati nel saggio La foresta insanguinata e il corpo senz'anima: riflessioni sull'opera di A. Bierce, sempre sul sito di Arianna Editrice), si trova nel volume Nella cripta con Zio Tibia, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1967; 1994.