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Svetonio Paolino distrugge il «santuario» della resistenza druidica sull'isola di Mona

di Francesco Lamendola - 25/02/2008

 

 

  

Come è noto, i Romani si affacciarono in Britannia nel 55, con la prima spedizione di Caio Giulio Cesare. Non si trattò di una conquista effettiva, tanto  vero che il grande condottiero ritentò lo  sbarco l'anno dopo; ma, pur riportando dei brillanti successi militari, tornò a svernare in Gallia, senza lasciare alcun presidio sull'isola; segno che si era trattato, anche questa volta, di una semplice azione dimostrativa, anche se condotta in forze.

Passò circa un secolo, durante il quale i rapporti fra le due rive della Manica rimasero sostanzialmente pacifici e commerciali.  L'opera di conquista fu iniziata dai Romani ad opera dell'imperatore Claudio, nel 43 d. C., e si avvalse di abili generali, come Aulo Plauzio, e di una strategia metodica e prudente, che sfruttava le rivalità fra le diverse tribù dell'isola. Queste, infatti, non possedevano un vero sentimento nazionale e si trovavano, inoltre, a differenti livelli di civilizzazione. L'unico comune denominatore dei Celti delle isole Britanniche era la religione, ai cui riti presiedeva una casta sacerdotale potente e temuta, i Druidi.

I Romani, come sempre, erano in generale disposti a tollerare le divinità di ogni nuovo popolo assoggettato, ma la confraternita dei druidi costituiva una sorta di potenza politico-spirituale e, pertanto, essi finirono per comprendere che il maggiore ostacolo alla conquista e alla colonizzazione era rappresentato proprio da essa. Così, mano a mano che le ribellioni si succedevano e ogni nuova avanzata era seguita da un più o meno brusco ripiegamento, gli invasori finirono per giungere alla conclusione che, per assicurarsi il pieno controllo del territorio e la tranquillità delle popolazioni, era necessario distruggere la potenza dei druidi e attaccarne il santuario principale, che si trovava sull'isola di Mona (odierna Anglesey), a nord-ovest del Galles, dal quale è separata dallo Stretto di Menai.

Già il successore di Aulo Plauzio nella carica di propretore (in pratica, governatore generale dell'isola), Ostorio Scapula, che resse la provincia dal 47 al 52, era giunto a una siffatta conclusione. Aveva anche progettato di marciare contro l'isola di Mona, per annientare quel focolare di resistenza; ma era stato costretto a tornare indietro, per fronteggiare una rivolta antiromana scoppiata alle sue spalle, presso il popolo dei Briganti.

A Scapula erano succeduti Didio Gallo, dal 52 al 58, e Veranio Nepote, nel biennio 58-59; entrambi costretti a rimanere sulla difensiva dietro la Fosse Way (linea delle Fosse), che comprendeva la parte sud-orientale della Britannia, con l'isola di Wight, e parte di quella centrale; mentre il Galles, gli odierni Devon e Cornovaglia e tutta l'Inghilterra settentrionale restavano, di fatto, indipendenti. Intanto, a Londra, Verulamium (St. Albans) e in alcune altre città, si precipitava una folla di mercanti, finanzieri e speculatori romani, desiderosi di fare buoni affari mediante lo sfruttamento delle risorse del paese, prima fra tutte la pastorizia. La loro avidità, e la prepotenza delle soldatesche romane, erano tuttavia causa di una forte tensione, sicché il dominio romano, oltre che territorialmente incompleto, non sembrava poggiare su basi molto solide.

Dal 59 al 61 la carica di governatore fu tenuta da Svetonio Paolino, un militare estremamente energico, che si recò nell'isola a sostituire Nepote, morto improvvisamente mentre era ancora in carica. Paolino era già stato pretore, poi aveva servito in Mauretania  come legato di legione,  mettendosi in luce nella repressione di una rivolta indigena. In quella occasione era stato il primo romano a valicare la catena dell'Atlante, impresa che ci è stata tramandata dallo scrittore naturalista  Plinio il Vecchio il quale, nella sua Naturalis Historia, riporta la descrizione di quei luoghi fatta dallo stesso generale.

Paolino decise di riprendere e portare a termine la marcia di Ostorio Scapula verso l'isola di Mona, convinto che la conquista di quest'ultima sarebbe stata la chiave strategica per completare definitivamente la sottomissione dell'intera Britannia. Dopo aver traversato tutto il Galles, nel 61 egli, con due legioni, la XIV Gemina e la XX Valeria Victrix, giunse effettivamente sullo Stretto di Menai che, in certi punti, non è largo più di 200 metri, e realizzò una vasta operazione anfibia. La fanteria venne traghettata su delle imbarcazioni a fondo piatto, la cavalleria riuscì a passare a guado, dove possibile, e a nuoto, nei tratti ove l'acqua era più profonda.

Lo spettacolo delle sacerdotesse scarmigliate ed urlanti e dei druidi che scagliavano contro gli invasori terribili maledizioni smorzò, per un attimo, l'ardore dei legionari, i quali sapevano che, nei boschi sacri dell'isola, si celebravano riti cruenti a base di sacrifici umani. Ma poi, spronati da Paolino, si gettarono all'assalto e compirono una autentica carneficina: a nulla valsero, contro le spade e le lance dei Romani, le preghiere e gli scongiuri dei sacerdoti, che vennero passati tutti a fil di spada.

Paolino, tuttavia, non ebbe il tempo di completare la conquista (o la profanazione) dell'isola sacra, perché proprio allora gli giunse la notizia che, alle sue spalle, era scoppiata una gravissima rivolta contro i romani, guidata dalla regina Boudicca (vedova di Prasutago, re degli Iceni), che era stata gravemente offesa dai soldati romani. Mentre tutta l'isola veniva messa a ferro e fuoco dai ribelli, Paolino mostrò tutto il suo sangue freddo e la sua statura di condottiero compiendo un'epica marcia lungo la Watling Street in direzione di Londra. Intanto, sia la colonia di Camulodunum (Colchester), sia l'VIII legione Hispanica erano state completamente distrutte, e i prigionieri romani, commercianti e soldati, erano stati messi a morte tra raffinati tormenti, come già era accaduto in Gallia, al tempo di Cesare, quando si era verificata l'insurrezione generale guidata da Vercingetorige.

Giunto a Londra, Paolino si rese conto che la città, priva di fortificazioni, non poteva essere difesa, e proseguì la sua ritirata, abbandonandola al proprio destino. Poco dopo i Britanni la presero d'assalto e la distrussero, e la stessa sorte riservarono a Verulamium. La presenza romana sull'isola sembrava avere ormai i giorni contati, ma l'esercito di Boudicca commise l'errore di costringere i Romani ad affrontare una battaglia campale - sembra nei pressi dell'odierna città di Atherstone, nel Warwickshire - nella quale il genio strategico di Paolino e la disciplina dei legionari ebbero la meglio. Benché enormemente superiori di numero, i Britanni subirono una disfatta totale e si disse che lasciassero sul campo di battaglia qualcosa come 80.000 cadaveri. Boudicca si suicidò e tutto il territorio venne nuovamente sottomesso dai Romani.

Poco dopo, però, Paolino entrò in contrasto con il nuovo procuratore, Gaio Giulio Alpino Classiciano, responsabile dell'amministrazione civile. Questi denunciò a Nerone i metodi eccessivamente brutali di Paolino che, giovandosi di truppe fresche fatte venire dalla Germania,  stava conducendo spietate spedizioni di rappresaglia contro le popolazioni britanniche.  Sull'isola giunse allora, inviato da Nerone, il liberto Policlito, che condusse un'inchiesta in seguito alla quale Paolino venne trasferito e al suo posto fu nominato Publio Petronio Turpiliano. È il caso di notare che due successivi governatori dell'isola, Quinto Petilio Ceriale  (dal 71 al 74) e Gneo Giulio Agricola (dal 78 all'85), aveva prestato servizio in Britannia agli ordini di Svetonio Paolino e si erano così fatti una preziosa esperienza dei luoghi e delle genti.

Dopo la partenza dalla Britannia, la carriera politico-militare di Paolino conobbe ancora dei momenti di notorietà. Designato console per l'anno 66, durante le guerre civili dei tre imperatori (Galba, Otne e Vitellio, nel 68-69 d.C.) si schierò con Otone e riportò una brillante vittoria sul generale vitelliano Alieno Cecina, nei pressi di Cremona. Poi, però, contro i consigli di Paolino, Otone volle affrontare la battaglia decisiva  contro gli eserciti riuniti di Cecina e Fabio Valente, a Bedriaco, ove venne sconfitto e si diede la morte (cfr. la nostra monografia Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d. C., Poggibonsi, Lalli Editore, 1984).

Il vincitore, Aulo Vitellio (destinato a sua volta a regnare pochi mesi, prima di cadere ucciso, a Roma, per mano delle truppe di Vespasiano), risparmiò la vita a Svetonio Paolino: atto di clemenza non frequente in quel periodo e da parte di quell'imperatore; che potrebbe spiegarsi mettendolo in relazione con le voci secondo le quali, dopo la battaglia di Cremona, Paolino avrebbe trattenuto deliberatamente le sue truppe, che chiedevano un pronto inseguimento dei vitelliani sconfitti, forse perché comprato dall'oro del nemico.

Ad ogni modo, dopo il 69 perdiamo le tracce di questo ardimentoso, ma spietato e non sempre limpido generale romano. Egli si era rivelato un uomo prezioso, anzi insostituibile, nel momento in cui la rivolta di Boudicca era sembrata sul punto di spazzar via i Romani dalla Britannia: il suo coraggio e la sua bravura di soldato avevano letteralmente salvato una situazione disperata. Ma non era l'uomo adatto a intraprendere una politica di pacificazione, e ciò spiega il provvedimento che lo sollevava dal comando, dopo la fine della rivolta, per mettere al suo posto un governatore più sensibile alla necessità di non inasprire oltre misura i rapporti con i Celti, se l'Impero voleva condurre una pacifica opera di integrazione sociale, economica e culturale.

La pacificazione completa della Britannia (a parte il problema, non risolto, della Caledonia e dell'Irlanda o Hibernia, che rimasero indipendenti e costituirono una minaccia permanente alle frontiere terrestri e marittime), fu raggiunta, anche per merito di una buona amministrazione, verso l'85 d. C.; e la presenza romana sull'isola durò, fra alti e bassi, fino agli inizi del V secolo, sotto il regno dell'imperatore Onorio.

 

La nostra fonte primaria, per ricostruire le vicende della spedizione romana contro l'isola di Mona e della rivolta e successiva repressione di Boudicca, è Tacito.

Ecco i due capitoli degli Annales (libro XIV, 29-30) nei quali Tacito narra le drammatiche vicenda della spedizione punitiva romana contro l'isola di Mona.

Li riportiamo dapprima nel testo originale latino, tratto da: Tacito, Tutte le opere, Annali, a cura di Lidia Storoni Mazzolani (Roma, Newton & Compton Editori, 1995, vol. II, pp. 224), perché il lettore possa apprezzare le sfumature dello stile vigoroso del grande storico romano; poi, per un confronto, nella bella traduzione dell'insigne latinista Luigi Annibaletto (Milano, Garzanti, 1974, pp. 380-381).

 

"XXIX "Caesen(n)io Paeto et Petronio Turpiliano consulibus, gravis clades in Brutannia accepta; in qua neque A. Didius legatus, ut memoravi, nisi parta retinuerat, et successor Veranius, modicis excursibus Silu(r)as poulatus quin ultra bellum proferret, morte prohibitus est, magna, dum vixit severitatis fama, supremis testamenti verbis ambitionis manifestus: quippe multa in Neronem adulatione addidit subiecturum ei provinciam fuisse, si biennio proximo vixisset. Sed tum Paolinus Suetonius obtinebat Britannos, scientia militae et rumore populi, qui neminem sine aemulo sinit, Corbulonis concertator receptaeque Armeniaedecus aequare dominis perduellibus cupiens. Igitur Monam insulam, incolis validam et receptaculum perfugarum, adgredi parat, navesque fabricatur plano alveo, adversus breve et incertum. Sic pedes; equites vado secuti aut altiores inter undas adnantes equis tramisere.

"XXX: Stabat pro litore diversa acies, densa armis virisque, intercursantibus feminis, quae in modum Furiarum veste ferali, crinibus deiectis, faces praeferebant; Druidaeque circum, preces diras sublatis ad caelum manibus fundentes, novitate aspectus perculere militem, ut quasi haerentubus membris immobile corpus vulneribus praeberent Dein cohortationibus ducis et se ipsi stimulantes, ne muliebre et fanaticum agmen pavescerent, inferun signa sternuntqueobvios et igni suo involvunt. Praesidium posthac impositumvictis excisique luci saevis superstitionibus sacri: nam cruore captivo adolere aras et hominum fibris consulere deos fas habebant. Haec agenti Suetonio repentina defectio provinciae nuntiatur."

 

Diamo qui di seguito la traduzione di L. Annibaletto:

 

"29. Sotto il consolato di Cesennio Peto e Petronio Turpiliano, si subì un grande scacco in Britannia, dove il governatore A. Didio s'era limitato, come dicevo sopra, a mantenere ciò che aveva conquistato, e il suo successore Veranio, dopo aver devastato con limitate incursioni il paese dei Siluri, non aveva potuto portare più oltre la guerra perché impedito dalla morte. Pur avendo goduto in vita grande fama di austerità, egli rivelò la sua cortigianeria nelle ultime parole del suo testamento: infatti tra molte adulazioni verso Nerone aveva scritto che avrebbe a lui sottomessa l'intera provincia se fosse vissuto ancora due anni. Allora però chi teneva in pugno la Britannia era Paolino Svetonio, il quale, per abilità militare e per voce di popolo, che non lascia nessuno senza rivali, gareggiava con Corbulone, di cui bramava uguagliare il vanto d'aver riconquistato l'Armenia domando questi ribelli. Ordunque si accinge ad assalire l'isola  di Mona, forte per i suoi abitanti e rifugio di disertori, e fa allestire delle navi a fondo piatto contro le secche e i fondi pericolosi: questo servì per la fanteria; i cavalieri tennero dietro a guado o, dove le acque erano più profonde, nuotando aggrappati ai cavalli.

"30. Sulla riva stava all'erta l'esercito nemico, denso d'armi e di uomini, mentre attraverso le file correvano le donne che, simili a furie, vestite a lutto e scarmigliate, agitavano fiaccole: attorno ad esse, i Druidi con le mani levate al cielo, scagliavano tremende maledizioni e con lo strano spettacolo impressionarono a tal punto i nostri soldati che, come avessero le membra paralizzate, offrivano il corpo alle ferite senza un movimento. Poi, incoraggiati dal comandante ed incitandosi l'un l'altro, a non lasciarsi atterrire da una folla di donne invasate, passano all'attacco, abbattono quelli che si fanno loro incontro e li avvolgono nelle loro stesse fiamme. In seguito fu posta una guarnigione presso i vinti e furono abbattuti i boschi, consacrati alle loro selvagge superstizioni: tra l'altro ritenevano un sacro dovere cospargere gli altari con il sangue dei prigionieri e consultare gli dei spiando nelle viscere umane. Mentre era impegnato in questa impresa, Svetonio venne a sapere che la provincia s'era d'improvviso sollevata."

 

Riteniamo, infine, di fare cosa utile al lettore riportando il punto di vista di Mario Manlio Rossi, un filosofo italiano che, se non ottenne vasti riconoscimenti dagli ambienti accademici, si segnala tuttavia per la sua originalità e per la vastità dei suoi interessi che lo spinsero a scrivere una monumentale Storia d'Inghilterra in quattro volumi (Firenze, Sansoni Editore, 1948); lavoro unico nel suo genere, all'epoca, per la puntualità dell'informazione e per l'audacia della interpretazione, che lo distinguono dalla pedanteria erudita di tante opere consimili.

Nel ricostruire e interpretare le varie fasi della resistenza dei Celti di Britannia contro i Romani, e particolarmente del centro druidico dell'isola di Mona, Mario Manlio Rossi individua acutamente non solo le componenti politiche e religiose, ma anche quelle economiche, che permettono di comprendere da un lato la guerriglia degli isolani, dall'altra l'esosa rapacità di ricchezze degli occupanti, sia commercianti privati che rappresentanti dell'erario romano.

Particolarmente acuti, poi, ci sono sembrarti i giudizi su Lucio Anneo Seneca, il filosofo che, durante il regno di Nerone, partecipò ampiamente alla speculazione finanziaria dei capitalisti romani sui territori di recente conquista in Britannia e nei piccoli regni indigeni semi-indipendenti;  e su Svetonio Paolino, il militare tutto d'un pezzo che, dopo aver messo a ferro e fuoco il centro del druidismo sull'isola di Mona, salvò il dominio romano sull'intera Britannia, all'epoca della grande rivolta  della regina Boudicca (o Boadicea), quando ormai tutto  sembrava perduto; ma che non era adatto a condurre, poi, un regime di pacificazione e di integrazione nei confronti delle popolazioni sottomesse con la guerra.

L'Autore, inoltre, mette in luce i contrasti esistenti fra l'amministrazione militare romana e quella civile e ne valuta le conseguenze nelle modalità di attuazione del dominio romano sulla Britannia, evidenziando gli aspetti positivi del prevalere della seconda.

Interessante, infine, la critica ai criteri della stessa storiografia tacitiana, accusata non tanto di essere l'espressione dell'egoismo senatorio, quanto di prediligere e sopravvalutare persone e situazioni che si prestano a quella resa epica, per cui la prosa dello storico latino va giustamente famosa; di aver subordinato, cioè, le ragioni della letteratura a quelle della scienza storica o, se si preferisce, le ragioni del vero a quelle del bello,

Riportiamo alcuni passi tratti dal vol. I, pp. 78-86

 

"L'agitazione era tenuta viva [durante il periodo in cui fu propretore romano in Britannia Ostorio Scapula, dal 47 al 52 d. C.], almeno secondo notizie un poco leggendarie, da Carataco, che aveva animato la resistenza incontrata dalle legioni fino alla Severn, ed ora si era rifugiato nel Galles.

"Le invasioni angolsassoni lasceranno il Galles quasi immune: ma non è strano che Ostorio Scapula e i suoi successori invece sii preoccupassero tanto del Galles, perché questo paese montuoso era il fulcro della resistenza nazionale.

"Questo, forse, si doveva al fatto che la civiltà gallese era ancora primitiva, quella dei primi stadi della Téne: anzi i Siluri erano probabilmente un residuo celtizzato degli Iberici neolitici. È certo strano che le tribù gallesi si mettessero sotto la guida d'un capo come Carataco, esponente d'una civiltà più progredita, d'un popolo germanizzato e romanizzato come i Belgi. Ma forse Carataco era appoggiato dai Druidi, la potenza dei quali doveva essere fortissima nel Galles perché a nord di esso si trovava l'isola di Mona, centro religioso del druidismo.

"Per avere le spalle sicure, Ostorio Scapula dovette disarmare le tribù: atto d'imperio che suscitò malumori soprattutto fra gli Iceni, che si erano sottomessi senza lotta e si consideravano alleati più che soggetti di Roma. Non fu cosa pericolosa: Ostorio poté lasciare le legioni nei loro accampamenti disposti a difesa della linea di confine, e sottomettere gli Iceni con le forze ausiliarie.

"Dopo, forse per stroncare le influenze druidiche che tenevano agitato il paese, Ostorio, anziché proseguire la lotta contro i Siluri, marciò contro i Degeangli (o Decangi) che abitavano nel Galles settentrionale, forse intendendo passare poi su Mona e spazzar via la santa confraternita. Ma in questa impresa venne fermato da una rivolta del partito antiromano dei Briganti, che però batté facilmente.

"Ma i Siluri e Carataco continuavano con le loro razzie, sistematicamente organizzate, e i Romani spesso si trovavano a mal partito. Solo quando i Dumnonii furono più o meno domati e poté riportare la II legione in un campo fortificato sulla Severn, la libertà di movimento dei Siluri venne efficacemente contenuta e Carataco spostò verso nord, presso gli Ordovici, il centro della resistenza volante ai conquistatori.

"Ma non contento dei successi di guerriglia, ripetendo l'errore imperdonabile di Cassivellauno, cercò una decisione campale.

"Il luogo della battaglia venne scelto abilmente: le schiere britanne si appoggiavano ad un monte fortificato (forse l'attuale Caer Caradoc) ai piedi del quale scorreva un fiume. Ma le legioni romane, animate dalla speranza di concludere anni di vane fatiche contro un nemico sfuggente e invisibile, montarono all'assalto. Carataco fuggì presso la regina dei Briganti, che lo consegnò prigioniero dei Romani. Fu portato prigioniero a Roma, ma Claudio lo lasciò vivere tranquillo, in qualche posto d'Italia, con la famiglia. Si chiudeva così, dopo nove anni, una gesta ormai leggendaria.

"Però i Siluri non erano domati e continuavano ad attaccare i punti deboli delle linee e a far razzie al di qua di esse. Ostorio cominciò a far irradiare dal campo fortificato la II legione, collocando guarnigioni fortificate tra i Siluri. Ma le solite prepotenze dei soldati provocarono un riaccendersi dello spirito di resistenza: i Siluri aggredirono le guarnigioni isolate, interrompendo le comunicazioni. Ostorio riportò qualche successo ancora, ma la zona era ben lungi dall'essere pacificata. E Tacito dice che il generale romano morì (nel 52?) per le pene e le fatiche di questa  lotta continuamente rinnovata.

"Allora, i Siluri conseguirono nuovi successi, tali da stimolare anche l'intraprendenza dei Briganti. Venuzio, marito di Cartimandua, si mise contro la politica romanofila di questa e cercò di continuare le gesta di Carataco.

"Ma era stato inviato intanto un nuovo governatore, Didio Gallo, che riuscì bene o male a contenere i Siluri e a mantenere sul trono Cartimandua. Del resto, era uomo anziano, poco intraprendente: si accontentò di difendersi alla giornata, inviando forze nei punti minacciati-

"I Romani in Britannia erano costretti alla difensiva. (…)

"La situazione era così insoddisfacente che Nerone considerò la Britannia perduta, e pensò di ritirare le legioni. Ma lo trattennero i giovani militaristi e forse i capitalisti che avevano già impegnato fondi nell'isola.

"Nel 58, a Didio Gallo venne sostituito un fanfarone entusiasta, Veranio Nipote, cortigiano devoto dell'imperatore. Egli era sicuro che due anni bastassero per rimettere le cose a posto. Ma fece soltanto qualche spedizione contro i Siluri e morì dopo pochi mesi.

"Il nuovo propretore, Svetonio Paolino, militare esperto, metodico e attivo, era di tutt'altra tempra. Pensò subito a eliminare quella che era la causa profonda del turbamento e il vero nerbo della resistenza nazionale: il druidismo.

"Già cesare aveva intravvisto che i druidi erano l'intima forza della indipendenza celtica. La corporazione, certamente, aveva sempre condotto una politica antiromana: appunto perché sovrapposta alle tribù e ai popoli, la sua potenza sarebbe svanita quando i Celti venissero unificati nell'impero. Come guida spirituale del celtismo, non poteva rinnovarsi e uniformarsi allo stile ben diverso dell'unità dovuta alla conquista romana che diffondeva in tutti i popoli conquistati sentimenti politico-religiosi in concorrenza col celtismo druidico. Lo spirito imperiale era prima di tutto laico, religioso solo per derivazione; mentre il druidismo era essenzialmente teocratico, e in nome dell'antica fede lottava contro una concezione a base politica come quella romana.

"A questa era facile accordarsi con gli dei celtici, con le molte divinità tribali: si potevano ritrovare nei protettori delle attività umane adorati dai vari popoli celtici i lineamenti degli dei del pantheon romano, e potevano convivere pacificamente, tanto che proprio in Britannia era sorto il primo tempio al divo Claudio. Quindi, anche sul piano religioso il druidismo era minacciato da un'altra interpretazione della religiosità tribale, da un'altra unificazione delle divinità e dei geni dei popoli celtici.

"Come si è visto, il druidismo era l'unica struttura comune a tutti i Celti, e quindi costituiva la coscienza etnica di essi, l'unica forza spirituale che ostacolasse la sottomissione sporadica, tribù per tribù, alla quale i Celti erano destinati dato che non esisteva un vero sentimento nazionale. L'ostilità del druidismo verso l'impero, che s'intravvede a malapena, per accenni degli storici contemporanei, era certo la forza profonda, nascosta che contrastava la marea montante della conquista romana e dello spirito imperiale nella Celtica.

"Ma proprio quell'accentramento, quell'unità corporativa che teneva legato il druidismo in tutti i paesi celti, costituiva la sua debolezza: mentre le varie tribù potevano continuare indefinitivamente una resistenza sporadica, era possibile colpire e distruggere il druidismo nella sua organizzazione centrale.

"Quindi, Svetonio Paolino, anziché perdere tempo e forze nella guerriglia, cominciò sistematicamente con l'attacco al Vaticano druidico, all'isola di Mona.

"Dopo di anni di pacificazione e di fortificazioni, Svetonio poté traversare il Galles, e al di là delle montagne si trovò nella pianura fertile che si stende oltre lo Snowdon., sulle due rive dello stretto di Menai. Aveva di fronte le foreste misteriose dove si celebravano sacrifici umani, e dallo scorrere del sangue, dal contrarsi delle membra si traevano auspici: almeno, questa era l'idea che si facevano i Romani dei riti druidici. E ora sul lido dell'isola stavano le schiere armate della confraternita, e le druidesse con fiaccole accese correvano su e giù a incoraggiare i militi, mentre i sacerdoti si assorbivano nelle preghiere sacrificali e con le mani protese al cielo, invocavano immobili dai numi dell'oltretomba lo sterminio dei sacrileghi.

"I legionari avevano traghettato su barche a fondo piatto, la cavalleria era giunta a guado. La scena li tenne fermi: era un altro mondo, e si apriva paurosamente, fra urla incomprensibili ed esagitazioni fanatiche, sull'al di là. Ma lo spirito scettico di Svetonio vinse facilmente la meraviglia un po' spaurita dei soldati, e nelle schiere druidiche non videro più che donne isteriche e preti fanatici. Si gettarono addosso, li massacrarono, li bruciarono, profanarono il bosco sacro.

"Ma la distruzione non giunse a termine ché un messo portò a Svetonio Paolino la notizia dell'improvvisa perdita di quella che era la base del dominio romano: la provincia costituita da Clausio all'estremità orientale dell'isola.

"Questa comprendeva, come si è visto, il vecchio territorio dei Trinobanti con quello dei Catuvellauni e dei Cantii; ma a nord, gli Iceni, che si erano subito sottomessi, avevano conservato la loro autonomia e il loro re Prasutago, divenendo tributari e alleati di Roma, ma senza essere governati direttamente da essa. Il disarmo ordinato da Ostorio Scapula e la conseguente ribellione non avevano mutato la situazione.

"Ma lo staterello iceniano subiva le conseguenze economiche di un incivilimento troppo rapido. Per tener quieti i maggiorenti, che volevano costruire case, avere oggetti di lusso, vivere la vita più comoda che si viveva nell'impero romano. Claudio, anche per accelerare il processo di romanizzamento, aveva concesso o fatto concedere larghi prestiti, garantiti probabilmente da ipoteche sui beni terrieri. Gli affaristi Romani, sempre col miraggio d'una Britannia ricca, si aspettavano di poterne trarre larghi interessi ed esportarne prodotti del suolo e delle greggi, soprattutto perché l'autonomia conservata risparmiava in parte agli Iceni la pesante tassazione imperiale.

"Ma il re Prasutago, che si dice fosse ricchissimo, forse per salvare i sui beni da parenti avidi,  aveva costituito coeredi le sue due figlie e l'Imperatore. Quando egli morì nel 61, il governo di Nerone trasse pretesto da questa eredità per ridurre il regno a provincia e per mettere le mani su tutti i beni di Prasutago. Cato Deciano, procuratore romano (il funzionario che si occupava del lato amministrativo e finanziario), procedette con l'avidità abituale di tali funzionari. D'altronde, i capitalisti romani si spaventavano per la riduzione a provincia, che avrebbe incanalato tutte le risorse del territorio icenico nelle casse del fisco anziché nelle loro tasche, e incominciarono a incamerare le terre. Fra essi, più avido e impaziente di tutti, primeggiava l'obliqua figura di Seneca, assurto ai nostri occhi, per due filosofemi e quattro lettere farisaiche, alla dignità di maestro di morale!

"Le confische morali e le espropriazioni… stoiche accelerarono quella crisi che lo stesso veloce incivilimento e gli incauti investimenti romani avevano preparato. La soldataglia occupò il paese, gli uscieri invasero case e campi. La prepotenza s'incanagliò di fronte alle proteste di gente oppressa e tradita: la regina Boudicca (Boadicea), vedova di Prasutago, venne bastonata e le sue figlie violentate dai soldati. E tutto questo, a un popolo che si era sottomesso volontariamente fin dall'inizio!

"La rivolta scoppiò irresistibile, sotto l'impulso di Boudicca,  tragica figura di virago gigantesca, dal viso mascolino, dalla voce tonante, chiome bionde profluenti, rutilante di collane d'oro, avvolta nel grande mantello.

""La marea delle tribù si gettò a sud, sulla provincia. Svetonio Paolino era lontano, Cato Deciano non poté inviare a Camulodunum che scarsi soccorsi, male armati, e scappò in Gallia. La città venne presa e distrutta; gli abitanti, in gran parte Romani accorsi a sfruttare il nuovo territorio, uccisi con indescrivibile crudeltà. La legione più vicina, la IX, accorse da Lindum: venne circondata, i soldati vennero massacrati e solo la cavalleria riuscì a sfuggire.

"La salvezza del dominio romano si dovette all'energia di Svetonio Paolino. Alla prima notizia dell'insurrezione, abbandonò Mona con tutte le truppe, raccolse tutta la XIV e quanto poteva portar via della XX, un 10 mila uomini in tutto, e mandò ordine alla II di congiungersi con lui: ma il comandante di questa preferì rimanere al sicuro dietro i terrapieni del suo accampamento, mentre Svetonio Paolino si precipitava verso sud, per arrivare in tempo a difendere almeno l'Inghilterra a sud del Tamigi. Attraverso il paese in subbuglio, proteggendo accuratamente fianchi e spalle, giunse a marce forzate a Londra, ma trovò che non era possibile difenderla. Mercanti e affaristi romani si erano andati radunando in quel punto centrale dei traffici, la città si era estesa a caso: nessuno aveva pensato a fortificarla. Paolino dovette abbandonarla alla sua sorte, ritornando probabilmente verso gli accampamenti della Fosse Way.

"Londra e la sua popolazione subirono la tragica sorte di Camulodunum. Poi, le torme ribelli si gettarono su Verulamium, distrussero anche questo municipio e massacrarono la popolazione.

"Paolino intanto proseguiva nella ritirata, senza accettare battaglia. Ma i viveri scarseggiavano; i ribelli, ormai una moltitudine di 200 mila guerrieri e donne portate sui carri ad incitare alla strage, minacciavano di circondare i 10 mila Romani. In qualche luogo fra Verulamium e la Severn, sulle alture di Chiltern o sui Cotswolds, Svetonio Paolino dovette accettare battaglia. Appoggiato al fondo di una stretta vallata che non permetteva ai Britanni di svolgersi e avvilupparlo, divise le sue forze in tre cunei che attaccassero l'avanguardia nemica da tre parti. Le schiere britanne marciarono disordinate, urlanti all'attacco. Le legioni, sempre migliori nell'avversità che nel successo, le attesero a pie' fermo. Quando furono a portata, scagliarono i giavellotti e si gettarono subito al contrattacco in formazioni serrate, ben protette dall'armatura pesante contro i Britanni che usavano ancora lo spadone poco maneggevole e il debole scudo della Tène e vennero respinti sul grosso, in disordine. I Romani penetrarono fino alla linea dei cari dai quali le donne assistevano alla mischia. Cominciò la rotta e il massacro.: 80 mila Britanni restarono sul campo.

"La rivolta era domata. Boudicca si avvelenò. E Svetonio Paolino mise a ferro e fuoco il paese, con l'aiuto dei rinforzi inviati d'urgenza dalle guarnigioni di Germania. La repressione fu sanguinosa e atroce come la rivolta. Ma l'avidità di denaro salvò la Britannia dall'annientamento, perché il nuovo procuratore, Giulio Classiciano, trovò impossibile riscuotere i tributi in un paese sconvolto dalla vendetta militare, e reclamò a Roma contro Svetonio Paolino - una delle solite liti tra funzionari civili e militari. Naturalmente gli uffici imperiali appoggiarono Giulio Classiciano: venne inviato per un'inchiesta un liberto, Policlito, che naturalmente diede ragione a Classiciano. E di lì a poco, tra il 61 e il 62, Svetonio Paolino venne sostituito da Petronio Turpiliano.

"Il programma di Turpiliano, evidentemente, era la pacificazione. E questa venne efficacemente perseguita anche dal suo successore, Trebellio Massimo.

"Naturalmente Tacito, con la sua severità morale doppiata dall'ubbia imperiale, non sarà capace di apprezzare quest'opera utile e onesta. Lo storico non amava i pacifici: gli occorrevano belle stragi per aver qualcosa da raccontare, spiegando il suo stile famoso. Il suo ideale era un massacratore come Paolino. Quindi, si sbriga di Turpiliano e Trebellio con due frasi sprezzanti, dicendo che il primo si diede arie di pacificazione per amor di quieto vivere e il secondo pensò solo a rubacchiare e si lasciò prendere sottogamba dai soldati. Ma anch'egli riconosce che i 'barbari' cominciarono sotto Trebellio «a scusare gli attraenti vizi» della civiltà: cioè, i Britanni non vennero soltanto pacificati, ma cominciarono anche ad assimilarsi. Tanto è vero che già nel 67 le forze d'occupazione venivano ridotte, inviando in Germania la XIV legione. Da allora in poi, non avverranno più sommosse nel triangolo belgico.

"Che in cinque anni si potesse raggiungere questo risultato, fa onore all'abilità dei governatori, ma è anche naturale. Il grande salasso della rivolta di Boudicca aveva eliminato le ali estreme della prepotenza romana e dell'indipendenza britanna. I massacri di Camulodunum, Londra, Verulamium avevano eliminato tutta una classe di profittatori, di depredatori - la gente accorsa sulle orme dell'esercito a prestar soldi e rubacchiare>, i veterani che, lasciato l'esercito., si erano insediati nelle colonie e pretendevano vivere alle spalle del paese., con l'alterigia di conquistatori pensionati. Le stragi sistematiche ordinate da Paolino avevano certo esaurite le tribù più indipendenti, meno facili alla conciliazione - quindi, probabilmente, quelle meno civilizzate, più pastorali.

"la via era appianata per una romanizzazione rapida, ad opera di governatori prudenti, senza ubbie grandiose di gloria militare, e di procuratori oculati, in una popolazione di proprietari agricoli e di coltivatori che poteva facilmente venir inquadrata nell'economia prevalentemente agricola delle province romane, lontane alle forme capitalistiche e dalle imprese finanziarie che avevano per teatro Roma e le grandi città dell'oriente."

 

Altre notizie su questa pagina di storia poco conosciuta dell'antica Britannia si trovano nel classico studio dello storico inglese Brian H. Warmington, Nerone (titolo originale: Nero. Reality and Legend, London, 1969), traduzione italiana: Bari, Laterza Editore, 1973, pp. 101-110.

Sulla confraternita sacerdotale dei druidi, si può utilmente consultare l'opera di Stuart Pigott, I Druidi, sacri maghi dell'antichità (titolo originale, The Druids, 1968), traduzione italiana: Roma, Newton & Compton Editori, 1982; 2001.