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Perché essere anticapitalisti?

di Piero Pagliani - 25/02/2008

 

 

Non conosco se non di sfuggita il pensiero di De Benoist ma il dibattito che si è recentemente aperto, con Franco D’Attanasio e Gianfranco La Grassa, a seguito della sua intervista pubblicata sul blog, merita di andare avanti perché tocca molti dei punti su cui i suoi frequentatori cercano di chiarirsi le idee.

Punti che Gianfranco La Grassa (GLG) ingrandisce da tempo con la lente della sua analisi critica. E bene ne è, perché così anche noi un po’ più miopi e meno esperti possiamo vedere qualcosa. Non starò a ripetere in questa sede, perché del tutto inutile, i grandi meriti dell’analisi di La Grassa. Una boccata d’aria in mezzo a una melassa asfissiante di banalità, tiritere stantie, formule gloriose ma consumate dalla rodente critica del tempo e della realtà.

Do anche per scontato che il complesso del pensiero di Gianfranco sia noto e quindi mi riferirò ad alcune delle sue affermazioni in merito all’intervista di De Benoist come a “riassunti” di elaborazioni ben più complesse.

 

E iniziamo. Non voglio difendere le tesi della decrescita, perché le conosco solo di seconda mano. Mi pongo invece una domanda che penso che venga spontanea dopo la lettura dell’intervento di GLG: “Perché essere anticapitalisti?”. Intendo dire anticapitalisti in senso generale e non solo nemici del nostro “capitalismo con le pezze al culo” (come più o meno avrebbe detto Gramsci). In altre parole la GF&ID (ovvero “grande finanza e industria decotta”). Posta la domanda, giustificherò perché ci si arriva (o per lo meno perché ci sono arrivato). Lo farò in modo frammentario e poco organico, non tanto per mancanza di spazio, ma perché ho in testa tutto tranne che un pensiero organico. E così non ho nemmeno dei dubbi sistematici e organici.

 

GLG afferma che piuttosto che con gli “spiritualisti” o gli “idealisti assoluti” è meglio confrontarsi con “quelli apertamente apologetici [del capitalismo] ma che predicano lo sviluppo; solo che lo vogliono attraverso il mercato (e annessi e connessi)”. Questa affermazione è un po’ il punto di arrivo delle argomentazioni precedenti focalizzate sui concetti di “sviluppo” e di “progresso”.

Io sono d’accordo che gli “spiritualisti” cui fa riferimento GLG siano una vil razza dannata che spazia tra il confusionario e il lavoro di disinformazione e di corruzione. Sono anche d’accordo che se non si ha una soluzione migliore del capitalismo è meglio non contar frottole. Ma d’altra parte lo scrittore cinese Lu Hsun diceva che se non si ha pronta una realtà migliore è meglio lasciare che la gente continui a sognare. E magari sognare un “mondo migliore” (e quindi non c’è da meravigliarsi che ci siano tanti “spiritualisti” - a parte i prezzolati patenti e i Masaniello).

Ma, ritornando allo stato di veglia, se la forza distruttrice-creatrice del capitalismo è, per l’appunto, così propulsiva per il progresso, perché dobbiamo sforzarci di cercare qualcos’altro? Se “noi” vogliamo lo sviluppo e “loro” anche, perché siamo in disaccordo? Perché “loro” lo vogliono “attraverso il mercato”?

Questo è un punto che io non capisco. A me, in modo naif, verrebbe quasi da dire “perché loro dicono di volerlo attraverso il mercato, ma in effetti fanno tutt’altro”.

Se non mi ricordo male, Marx affermava che la sfera della circolazione concepita come sfera autonoma è un “Un-wesen”, un non-essere, un fantasma. E infatti Marx parla di “apparenza della sfera della circolazione delle merci”: “die Schein der Warenzirkulation”.

Al contrario, la sfera della circolazione appare come fenomeno di qualcosa di reale solo quando non la si concepisce indipendentemente dal retrostante modo di produzione. In questo caso la Warenzirkulation è il modo di apparire dei rapporti di produzione stessi, è un “Erscheinung”, dove il prefisso “er” indica la presenza di qualcosa di sottostante, la presenza di una “sub-stantia” – i rapporti di produzione, per l’appunto – laddove invece, per contrasto, il precedente termine “Schein” assume il valore di “apparenza superficiale”, “allucinazione”, come lo “shining” di Kubrik.

Io ho sempre ritenuto importante questo passo di Marx, perché è un ottimo esempio del suo metodo scientifico e perché riporta l’attenzione sul fatto che ritenere fondante e indipendente la sfera della circolazione (il mercato), così come avviene anche adesso e così come dicono gli “apologeti” citati da GLG, è solo un “trucco borghese”.

Al contrario, il mercato non è un puro gioco di scambi, bensì nasconde dei rapporti di produzione, che a loro volta sono fondati su rapporti sociali specifici. Rapporti sociali che a loro volta si basano - vedi ”accumulazione originaria” - su rapporti di potere.

Io vedo il capitalismo come uno scambio politico tra Potere del denaro e Potere del territorio. Due poteri divisi, a volte in conflitto, ma destinati a sostenersi l’un con l’altro. In realtà ci sono tanti poteri del denaro empirici e tanti poteri territoriali empirici. Ecco dunque il conflitto tra dominanti, il conflitto tra stati, l’imperialismo (in senso leniniano), ecco le fasi monocentriche e quelle policentriche. Ma ecco anche, oltre a questi conflitti orizzontali, anche quelli verticali, tra dominanti e dominati. Ed ecco perché non regge la tesi dell’estinzione dello Stato e le altre scemenze ultraimperialistiche di contorno di certi teorici della cosiddetta globalizzazione.

Nella mia vita, passata non da parassita, ahimè, ma al duro servizio trentennale di diverse multinazionali informatiche, ho constatato che anche all’interno di una grande azienda in teoria tesa alla massimizzazione dei profitti, l’efficienza strumentale è del tutto ancillare a quella strategica, ovvero ai “giochi di potere”. E ho constatato empiricamente che questa sudditanza si inasprisce in ogni momento di crisi o di ristrutturazione. Dal momento che la storia capitalistica è più che altro storia di crisi e di ristrutturazioni, non c’è da meravigliarsi che la storia del capitalismo sia, diciamo così, più “storia di Potere” che “storia di Denaro”.

Per dirla con Marx, in generale nel capitalismo le cose “non vanno per il loro verso” (cosa che forse era meno evidente durante il lunghissimo periodo monocentrico britannico, in cui viveva Marx, che regalò all’Europa - cosa mai vista prima - un secolo pressoché senza guerre). E quando le cose non vanno per il loro verso il gioco dell’uguaglianza formale nella Warenzikulazion è messo a nudo, la forza economica non basta più e rifà capolino lo scambio politico tra Potere del denaro e Potere del territorio.

Quindi il primo punto che penso debba essere discusso è: “non ‘sviluppo’, ma ‘sviluppo e Potere’”. E non è cambiamento da poco. Perché relativizza il termine “sviluppo”. Perché sottolinea che c’è uno sviluppo in funzione di qualcuno ma non in funzione di qualcun altro, uno sviluppo godibile da qualcuno ma non godibile da qualcun altro.

Questo non vuol dire che sia meglio un mondo senza penicillina che uno con gli antibiotici. Vuol dire che la logica di sviluppo “in funzione di” e a “favore di” non permette di assolutizzare il termine “sviluppo”. Le cose sono più complesse. La realtà, come diceva Lenin, è difforme, spiacevole e poco armonica, in altri termini non così conforme alle simmetrie e alla pulita semplicità dei concetti usati per analizzarla.

Banalmente, tanto per fare un esempio, lo sviluppo può portare danni a qualcuno e benefici ad altri. Oppure danni riparabili solo da alcuni ma non da altri.

Pur lasciando stare la vicenda dei rifiuti di Napoli, in cui grazie anche a criminali di sinistra e politically correct i poveri cristi si beccano tassi di mortalità da tumore superiori di decine di punti percentuali a quello medio nazionale, pensate agli antiparassitari. Si può dire che gli antiparassitari non siano frutto dello “sviluppo”? No. Lo sono eccome. Per farli ci vuole una chimica e una industria chimica sviluppate (vedi Monsanto). Peccato che contengano atrazzina, che l’atrazzina sia un perturbatore ormonale e che così il tumore al seno, da patologia sconosciuta in Europa fino al secondo dopoguerra ora da noi sia diventata una piaga così come in molta parte del mondo a sviluppo emergente e letteralmente irrorato di antiparassitari, non per fenomeni naturali ma ex-lege (così la sviluppata e potente Monsanto è contenta).

Se poi hai i soldi e la cultura per farti i controlli e per farti curare in tempo, probabilmente ti salvi la vita in uno sviluppatissimo ospedale specializzato, altrimenti ciccia. Se invece sei una donna indiana abitante in uno slum, non oserai nemmeno rivelare di avere un tumore al seno per non essere scacciata di casa dal marito. In aggiunta, non è escluso che quella donna sia una contadina finita in uno slum proprio perché non era più in grado di comprarsi gli antiparassitari della Monsanto per mandare avanti il campo.

E a proposito di India. Perché ce la prendiamo tanto con la Fiat, col fatto che è un’industria decotta, frutto della precedente rivoluzione industriale, mentre sembra ingiusto criticare, diciamo così la Tata, che sta trainando in India il nostro stesso tipo di sviluppo? Perché lì, in India, si parla di questo tipo di sviluppo, con le stesse premesse e con lo stesso decorso: auto superinquinanti, miniere d’uranio a cielo aperto, pesticidi a go-go, prodotti agricoli geneticamente modificati (e in massima parte destinati all’esportazione, alla faccia delle fandonie sul cibo transgenico per alleviare la fame).

Questo è quanto succede, a meno di non credere alle favole degli Indiani tutti matematici e tutti geni dell’Informatica, tutti dedicati al terziario avanzato. Conosco abbastanza bene la Computer Science cinese e indiana. Da anni vado ai loro congressi e sono stato nel board scientifico di molti di essi. Vi assicuro che, per ora, la loro Informatica non è meglio di quella occidentale. Costa di meno. Tutto qui. La differenza tra un cinese che ha passato un periodo di studio in America e uno che non l’ha fatto, è che il secondo per quanto genio possa essere è spesso un analfabeta scientifico (di solito riscopre risultati vecchi come il cucco) mentre il secondo, per quanto asino possa essere, sembra un pozzo di scienza. Questa è la realtà, per adesso. Quindi lasciamo perdere le superficialità che sono raccontate nei libri e sui giornali (CINDIA e quant’altro). In India (e penso anche in Cina), si stanno ripercorrendo le stesse nostre tappe. La differenza è che ciò avviene a ritmo accelerato, con impressionanti investimenti - e ciò non è sorprendente dato che tutti i mezzi di pagamento ormai stanno in Asia - e in un mondo completamente cambiato.

Bisogna lasciarli fare senza dir niente? Bisogna star zitti perché anche loro, poveracci, si meritano lo “sviluppo”? Oppure bisogna compiacersene perché più si svilupperanno, meglio romperanno le palle agli Stati Uniti?

Io ho qualche milione di ragioni per non star zitto. Da quando con le riforme liberiste di Rajiv Gandhi iniziate tra il 1990 e il 1991, è iniziato questo sviluppo da capogiro, con un aumento di PIL annuo che rasenta le due cifre, le condizioni generali di vita sono migliorate per una nutrita minoranza e peggiorate per una grandissima maggioranza.

Non credete che lo sviluppo possa avere questi effetti? Bene: secondo l’agenzia ufficiale National Nutrition Monitoring Board, la quantità di cibo pro capite che era di 178 kg agli inizi del 1990 (ovvero prima delle riforme liberiste) è diminuita nel 2004 a 155 kg, un livello ancora più basso di quello medio durante il periodo coloniale. La National Sample Survey Organisation (prestigioso istituto statistico) ha trovato che a livello nazionale le kilocalorie pro capite nelle aree rurali sono diminuite da 2211 nel 1983 a 2149 nel 1999-2000, un livello molto più  basso di quello della Cina e del Brasile nel 1993 e più basso di quello della Tanzania e del Kenya del 1980. Alcuni indicatori come l’aspettativa di vita e la mortalità infantile, che in termini aggregati sono migliorati, se invece vengono disaggregati mostrano che c’è stato un vero e forte miglioramento solo in Kerala e nel Tamil Nadu, mentre sono peggiorati nel resto del paese. E laddove sono migliorati ciò è avvenuto per due ragioni diverse: nel caso del Tamil Nadu per il suo forte sviluppo, nel caso del Kerala per le sue politiche sociali.

Del resto nel corso del forte sviluppo dovuto alla reaganomics la mortalità infantile aumentò negli USA per la prima volta dopo un secolo di flessione.

Il rapporto 2007 della National Commission for Enterprises in the Unorganised Sector, un’altra agenzia ufficiale, consegnato al primo ministro Manmohan Singh, stima in 836 milioni il numero di Indiani che vive con meno di mezzo dollaro al giorno. Vuol dire che la classe media beneficiata dallo sviluppo è di 270 milioni di persone. Un numero grande in assoluto.

 Ma gli altri 836 milioni? In esubero. Come mostrano questi dati che ormai coprono un ventennio di sviluppo, centinaia di milioni di persone non sono in attesa della loro quota di ricchezza, ma stanno arretrando e molto più di quanto dicano le statistiche se si pensa alla parte del leone che ha la classe media su cibo ingerito, kilocalorie e tutto il resto.

Centinaia di milioni di persone (in maggioranza contadini, piccoli artigiani e piccoli commercianti) in esubero come è successo in Europa all’inizio della nostra modernizzazione capitalistica. Solo che allora c’erano decine di milioni di persone e tre continenti da colonizzare: l’America del Nord, quella del Sud e l’Australia. Ora c’è da colonizzare solo la Luna e Marte e parliamo di centinaia e centinaia di milioni in India, probabilmente lo stesso numero in Cina, poi le Filippine, l’Indonesia, ... . Dove andranno? Aveva ragione il dottor Kissinger che negli anni Settanta (segretamente) parlava della necessità di una riduzione ex-officio della popolazione mondiale, di qualche miliardo di persone?

Certo, anch’io se sto male piglio gli antibiotici, vado in auto (anche se preferirei non farlo e quando posso non lo faccio), mi piacciono certe comodità moderne. Non sono un fautore del pauperismo materiale (anche se in un certo senso sono per un pauperismo ideale e morale), né del Buon Selvaggio. Ma non trovo necessario crepare di polmonite, andare in calesse o accendere il fuoco con i legnetti per poter dire che così non va.

E quindi, come prima risposta approssimativa, io sono anticapitalista perché le cose così come sono non vanno. E se non si danno risposte a queste domande si lascerà campo libero ad ogni sorta di spiritualista, di idealista assoluto, di ideologo del “terzo settore”, ma anche ad ogni sorta di canagliata di destra e soprattutto di sinistra, come avviene col Partito Comunista Marxista al governo nel Bengala Occidentale, che manda i suoi militanti e la polizia a sparare, lanciar bombe, stuprare donne e bambine nei villaggi dei contadini che non vogliono sloggiare a favore delle multinazionali; contadini tacciati di essere un “residuo semi-feudale” che si oppone, per l’appunto, allo “sviluppo”; uno “sviluppo” a volte targato Tata-Fiat.

Per dare risposte a milioni, miliardi di persone - ovviamente qualora si pensi che sia affare degli anticapitalisti e non solo di ONG, di spiritualisti o di sviluppisti cinici - occorre allora destrutturare il concetto di “sviluppo”, precisarlo, localizzarlo, contestualizzarlo. E occorre storicizzarlo.

Il caso dell’India dimostra che lo spazio sociale ed ecologico delle soluzioni dei problemi varia nel tempo. E probabilmente si riduce. Ad esempio si è ridotto lo spazio ancora disponibile di terra emersa. Sono diminuiti i giacimenti di idrocarburi fossili e il ritmo di scoperta di nuovi è rallentato moltissimo. Si fanno già da tempo guerre per l’acqua (ad esempio quella delle alture del Golan), anche se pochi se ne sono accorti.

Svilupparsi (capitalisticamente) a partire dalla fine del secolo scorso e svilupparsi a partire dalla fine di due secoli fa sono due cose ben diverse. Svilupparsi adesso e svilupparsi due secoli fa non è la stessa cosa perché lo spazio sociale ed ecologico non è rimasto lo stesso.

La decrescita non sarà una soluzione. Poggerà su presupposti errati o non confermati. Può darsi. Non conosco queste teorie. Ma non devo conoscerle per sapere che le risorse non sono infinite. Mi basta sapere che “infinito” in fisica non misura niente.

E non serve a nulla, come qualcuno cerca di fare (non su questo blog), non serve a nulla tirare in ballo il Primo Principio della Termodinamica (l’energia non si crea, l’energia non si distrugge). Perché esiste anche l’entropia e quindi un barile di petrolio bruciato qui non ritorna ad essere un barile di petrolio intatto là, non lo si riusa. In compenso inquina.

GLG, vivendo nel Veneto, sa che l’ex candido ghiacciaio della Marmolada da anni è ridotto ad uno straccio nero, che le Dolomiti crollano per lo scioglimento del permafrost. Gli scienziati ormai hanno prove schiaccianti che il riscaldamento globale è opera dell’uomo. La tesi alternativa di maggior peso, cioè la correlazione con l’attività solare, si è rivelata una bufala (semplicemente non si era mostrata tutta la sequenza storica, ma solo fin dove faceva comodo). Ha perfettamente ragione GLG a mettere in guardia che l’ambientalismo dominante è controllato da figuri loschi o ambigui. Ma che le questioni ambientali siano utilizzate per loschi fini non vuol dire che la Marmolada sia colma di ghiaccio e che le Dolomiti stiano in piedi come prima. Anche 2+2=4 può essere usato per loschi fini. Ma non è detto che per questo debba fare cinque. Dipende dalla forza politica ed economica che uno ha, non dalla matematica.

Un solo esempio. Il Bosforo è da tempo una fogna. Farci transitare anche tutte le petroliere necessarie per trasportare il petrolio del Caspio è omicida. E questo è un dato di fatto (per lavoro ho soggiornato abbastanza a lungo a Istanbul per capirlo). Questa preoccupazione ecologica è stata ampiamente sfruttata dal governo turco per giustificare un’opera geopolitica come la pipeline Baku-Tbilisi-Ceyhan, voluta dagli USA per portare il petrolio del Caspio al Mediterraneo senza passare per la Russia o per l’Iran. Un’operazione geopolitica che io stesso denunciai in un libro e in qualche articolo. Sono anche sicuro che i geostrateghi USA e turchi (più qualche ditta appaltatrice) avranno sovvenzionato ecologisti, studi di settore, proclami in favore dell’ambiente. Nonostante ciò il povero Bosforo è veramente una fogna, non è una bugia.

Se si esalta la potenza produttiva del capitalismo, la sua capacità inaudita di sviluppo e quindi di trasformazione della natura, allora non ci si può meravigliare che abbia anche un’inaudita capacità di sconvolgere l’ambiente e di esaurire risorse.

Che ci sia una questione ambientale non giustifica né i loschi figuri che se ne approfittano e magari falsificano o esagerano i dati (dai Soros ai camorristi) né dà maggior credito ai nostri Verdi, così aristotelicamente corrotti da aver passato sotto silenzio l’inquinamento atomico dell’Adriatico durante la criminale guerra contro la Serbia, come giustamente aveva una volta fatto notare GLG.

Può anche darsi, come è stato detto da qualcuno intelligentemente, che per imporre la decrescita occorrerebbe un regime bolscevico. E’ un’affermazione ragionevole. Può essere impraticabile, ma la questione ambientale esiste. Ed è intrecciata a quella sociale.

Perché le risorse non si creano, ma in compenso vale la legge di entropia. E in aggiunta l’acquisizione e l’allocazione delle risorse residue seguono i percorsi del Potere, dei molti poteri, tanto più quanto più le risorse sono scarse.

Certo, si potrà scoprire qualche altra tecnologia, come la fusione fredda. Oppure si riusciranno a fare centrali nucleari convenzionali a prova di disastro. Ma a parte il fatto che le tecnologie nucleari sono quasi per definizione in rapporto simbiotico col potere (sia del denaro che del territorio), bisogna ricordare che ogni componente ecologica ha dei tempi di recupero propri e delle soglie di non ritorno proprie, che interagiscono tra loro. Certo, occorre studiare questi tempi e queste soglie, quantificare i limiti e gli intrecci di questi limiti, per ragionare in modo razionale e per prendere razionali decisioni. Ma occorre farlo.

Si farà in tempo? Non si farà in tempo? E, domanda cruciale: chi se ne cura? I poteri in lotta tra di loro? I sovrani si curavano delle pestilenze prodotte dalle loro guerre? Magari rischiavano di caderne vittima essi stessi, ma le loro preoccupazioni erano altre.

Nessuno crede alla fine del mondo dell’anno 1.000, né del 2.000 né del 3.000, né alle profezie di Nostradamus o ai segreti di Fatima. Ma sappiamo, perché è evidente, che l’uomo ha di già la possibilità di distruggere il pianeta un numero di volte grande a piacere.

Per parafrasare T. S. Eliot, una guerra atomica potrebbe far finire il mondo con uno schianto, lo “sviluppo” potrebbe farlo con un piagnisteo.

Per esorcizzare gli scenari più cupi bisogna credere, come aveva fatto Marx, che l’uomo si pone solo i problemi che può risolvere. Per me questo però è un vero cedimento positivista.

L’uomo si è posto molti problemi che poi si sono rivelati insolubili. Specialmente da quando ha iniziato a porli in modo razionale, descrivendo cosa era da intendere per soluzione accettabile.

Se si pone un problema in modo vago si può sempre accettare una vaga soluzione.

 

Poniamoci allora in modo razionale il problema “Perché essere anticapitalisti?”