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Il Sessantotto. La non-rivoluzione vista da un ventenne di oggi

di Matteo Marchetti - 25/02/2008

Fonte: Il Riformista

Un conto è ricevere dei valori e rifiutarli, un altro non riceverne affatto

Cantate con me: "A la rue! A la rue!". Un ritornello affascinante ma al tempo stesso cupo, gioioso ma al tempo stesso carico di rabbia. Ricorda qualcosa? Sono sicuro di sì: quando l'agenda della Storia non offre niente di meglio ci si guarda indietro, si sfogliano i vecchi calendari e si scova un anniversario, una ricorrenza, qualcosa da celebrare. Lo scorso anno ne erano passati trenta dal cupo 1977, il prossimo probabilmente singhiozzeremo per lo sbarco sulla Luna. Quest'anno è il turno del Sessantotto, scritto per esteso perché sì. Chissà quanti libri ad hoc , quanti speciali televisivi andranno in onda; magari anche una fiction, che tutto sommato non si rifiuta a Edda Mussolini, figurarsi ai dorati anni Sessanta. Sono passati quarant'anni, ma dobbiamo ancora realizzare cosa sia successo davvero.
"Lottavano così come si gioca, i cuccioli del maggio; era normale: loro avevano il tempo anche per la galera", cantava Fabrizio de André. Una lotta studentesca, universitaria e quindi borghese, attuata dai figli della società bene contro ciò che loro stessi sarebbero diventati. Anticapitalista, attuata nel santuario e dagli eredi del capitalismo. Antiamericana, ispirata dagli antiamericani d'America. Contro la rigidità e le chiusure di una società ancora preindustriale nei suoi comportamenti ma capace di altrettanto settarismo e altrettante esclusioni. Una lotta totale, contro qualsiasi istinto di autoconservazione; la creazione di una nuova umanità, libera dai tabù e dallo sfruttamento. Rivoluzione. Non siete convinti? Allora ditemi: che cos'è una rivoluzione, se non la distruzione traumatica di un sistema di potere e la sua sostituzione con un altro?
Durante gli anni Sessanta tutte le certezze del dopoguerra si erano andate sgretolando: il riformismo del primo centro-sinistra passava nuovamente la mano ad una Democrazia cristiana da tempo adagiatasi sugli allori del 'Fattore K'; il boom si arenava, e 'congiuntura' diventava una parola fin troppo conosciuta. Intanto un intero mondo si stava aprendo al di fuori dei pranzi della domenica. Il Village di New York, Londra, le prime droghe, Berkeley.
Arriva l'eco delle prime proteste nell'ateneo californiano, forme di disobbedienza non violenta contro la guerra in Vietnam; si bruciavano le cartoline di reclutamento. Nel 1966 Trento torna di prepotenza nella storia d'Italia dopo i fasti risorgimentali e dà il via alle occupazioni universitarie, seguita poi da Milano, Roma e così via. Gli studenti chiedono cose concrete, rivendicazioni spicciole, ma è la prima crepa in una diga. Agiscono in quanto - come dicevano - "forza lavoro in formazione". Una revisione ideologica in senso utopista, forse ingenuo, ma comunque devastante per l'ordine costituito.
I gruppi di studio affollavano le facoltà, si studiavano i Grundrisse e i Quaderni rossi, si leggeva il Diario in Bolivia del Che; si covava qualcosa di enorme. Poi la cronaca è travolgente: il maggio francese, e allora continuons le combat , il Quartiere Latino e le sue barricate; da oltreoceano arrivano gli echi di Woodstock, le orecchie di centinaia di migliaia di giovani ferite da Jimi Hendrix che suonava la chitarra con i denti e incantate dalle melodie di Joan Baez; gli acidi, i cannabinoidi, droghe di ogni tipo per "aprire le percezioni"; l'amore svestito del talare e riconsegnato al talamo, affrancato dalle mille ipoteche morali di cui i secoli lo avevano sommerso.
Musica, grida, cortei, botte, libri, manifesti, volantini, fogli, lenzuola. Questo è stato il Sessantotto per il mondo. Si mette in dubbio l'intera macchina sociale. "Mi han detto che questa mia generazione ormai non crede in ciò che spesso han mascherato con la fede nei miti eterni della Patria o dell'eroe, perché è venuto ormai il momento di negare tutto ciò che è falsità". Francesco Guccini riuscì a catturare nella sua Dio è morto l'essenza stessa di quegli anni: un'intera generazione che vuole scrivere da sé il proprio futuro.
Nel triennio 1966-69 l'Italia è scossa dal movimento studentesco, movimento generazionale e non di classe: i giovani ascoltano la stessa musica, hanno gli stessi passatempi e gli stesi interessi, gli stessi timori e le stesse aspirazioni; a tutelare gli interessi dei giovani proletari sono i giovani borghesi delle università rampognati da Pasolini. Il Partito comunista è ormai imborghesito e corrotto da due decenni di attività istituzionale, va superato. All'Internazionale si preferisce Contessa di Paolo Pietrangeli, o magari la successiva ed esotica El pueblo unido degli Inti Illimani. Il movimento trova la propria koinè nelle arti, dalla musica al cinema, alla letteratura. È un periodo di formidabili avanguardie, di sperimentazioni, di svecchiamento. È anche un periodo di violenza, ma ancora ingenua, un gioco appunto, come diceva de André.
Alle azioni di quei cuccioli del maggio seguì la rivoluzione italiana, silente ma perfettamente riuscita, tanto che la nostra classe dirigente è composta in massima parte da suoi artefici. E, se vogliamo, il suo successo è dovuto alla sua incompiutezza: a differenza dei rivoltosi parigini, colti in "flagranza di rivoluzione" e quindi travolti dal riflusso di Pompidou, i nostri sessantottini hanno potuto giovarsi di una politica immobile e screditata e farsi scudo con il ben più minaccioso Autunno caldo del 1969. Quanto costruito in quei tre anni non finisce perché sconfitto ma perché desideroso di assumere nuove forme più congeniali al proprio scopo.
Restano gli strascichi di questo movimento, le conseguenze sul futuro del Paese. Non è un mistero: il Sessantotto ha perso il controllo di sé, si è dato alla testa. Non parlo, si badi bene, della follia collettiva degli anni di piombo, ma dei malintesi sui diritti del lavoratore dipendente - specialmente di quello pubblico - e del presunto obbligo dei docenti di 'capire' i propri alunni; un dissennato permissivismo su tutto, in nome dell'autodeterminazione e della libertà dell'individuo.
Il Sessantotto travolse la famiglia tradizionale, quella dei pizzi a tombolo e dei vestiti da pomeriggio; sconvolse la morale, relegando alle barzellette e al cinema corteggiamenti lunghissimi ed estenuanti trattative con baffuti genitori gelosi. Al posto di tutto questo, però, non è stato in grado di costruire nulla. Questo il problema: le generazioni successive: un conto è ricevere dei valori e rifiutarli, un altro non riceverne affatto.
Alla sacrosantità dell'autorità costituita non è seguito nulla, se non sberleffo o prevaricazione; alle convenzioni sociali è seguita la maleducazione esibita come spregiudicatezza, alle reti familiari l'individualismo. È ovvio che nessuno abbia un cattivo ricordo del periodo, portatore di istanze di rinnovamento e uguaglianza, latore di grandi novità per il Paese. Peccato che poi fu seguito nell'ordine dalle P38 e da Drive in.
"Ma penso che questa mia generazione è preparata a un mondo nuovo, a una speranza appena nata, ad un futuro che ha già in mano, a una rivolta senza armi, perché noi tutti ormai sappiamo che se Dio muore è per tre giorni, poi risorge […] Nel mondo che faremo Dio è risorto", conclude Guccini. La canzone viene cantata al termine dei suoi concerti, subito prima dell'altro cavallo di battaglia, La locomotiva ; il pubblico scatta in piedi, i più alzano il pugno chiuso e cantano. Tanti sono di mezza età, figli del boom. Questa canzone era dedicata a loro, ma stiamo ancora aspettando l'alba del terzo giorno, mentre in tanti hanno smesso di vegliare il cadavere di Utopia e si sono reinventati come membri rispettabili della società che quarant'anni fa distrussero, per poi ritrarsi nell'ombra.
Matteo Marchetti 20 Anni, Roma