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Il futuro del Kosovo fra sovranità e tutele

di Lorenzo Salimbeni - 26/02/2008

Fonte: eurasia

 
 

Articolo-resoconto sulla conferenza "Il futuro del Kosovo", tenutasi a Modena sabato 23 febbraio 2008. Relatori: Dr. Stefano Vernole (redattore di "Eurasia"), Prof. Paolo Bargiacchi (docente di Diritto Internazionale - Univ. di Palermo), Dott.ssa Ana Urosevic (Primo Consigliere dell'Ambasciata della Rep. di Serbia in Italia).


Comunque la si giri, dal punto di vista geopolitico, ovvero da quello del diritto internazionale, la vicenda kosovara è una miccia accesa nello scacchiere dei Balcani e non solo. Con gran tempismo ed efficiente organizzazione, l’associazione culturale Pensieri in Azione di Modena, con il patrocinio del Coordinamento Progetto Eurasia e nell’ambito dei seminari promossi da Eurasia - Rivista di studi geopolitici, ha in effetti analizzato la questione sabato scorso nell’ambito di un convegno che ha visto la partecipazione al tavolo dei relatori di Paolo Bargiacchi, docente di diritto internazionale all’Università di Palermo, Stefano Vernole, coautore del saggio “La lotta per il Kosovo” dato alle stampe l’anno scorso dalle Ed. all’Insegna del Veltro, e Ana Urosevic, primo consigliere dell’ambasciata serba a Roma in sostituzione dell’ambasciatrice Sanda Raskovic-Ivic, richiamata a Belgrado per consultazioni in seguito all’improvvido riconoscimento del Kosovo da parte del Ministro degli Affari Esteri D’Alema.

Bargiacchi è stato chiaro: in base al diritto internazionale, il Kosovo non ha diritto all’indipendenza. Se il principio dell’integrità territoriale è il primo punto a favore della causa serba, il tanto invocato (dai separatisti) principio di autodeterminazione dei popoli va ridimensionato, alla luce della sua evoluzione da quando venne annunciato dal Presidente statunitense Wilson a oggi: alla autodeterminazione esterna, cui si appellavano i popoli “oppressi” o colonizzati nel secondo dopoguerra, si è appunto affiancata l’autodeterminazione interna, la quale consiste nel diritto delle minoranze etniche di vedersi riconosciute ed adeguatamente rappresentate e garantite nella loro autonomia in seno allo Stato che le contiene. Basti pensare alla componente francofona del Quebec in Canada, la quale gode addirittura del privilegio di aprire rappresentanze diplomatiche all’estero, e d’altro canto le stesse riforme regionaliste abbozzate in Italia s’ispirano alle medesime tendenze autonomiste. Questo è lo stato dell’arte, senza omettere che la famosa Risoluzione 1244/1999 non prevedeva in alcun modo l’indipendenza di Pristina, bensì chiedeva di congelare la situazione al fine di consentire la creazione di istituzioni autonome kosovare: d’altro canto Belgrado proponeva Hong Kong e le Isole Aland come modelli che rispecchiassero il motto “più dell’autonomia, meno dell’indipendenza”. Il piano Ahtisaari, invece, presentava punti quanto meno controversi a favore delle istanze schipetare: l’aver subito le persecuzioni di Milosevic (laddove almeno altrettanto hanno patito i serbi della martoriata regione), i 9 anni di amministrazione ONU che avrebbero sostanzialmente slegato la Provincia dal resto dello Stato ed il rischio di nuove crisi qualora non venisse concessa l’indipendenza (sottoponendo il diritto alla forza bruta). Ha avuto quindi tutte le ragioni il Presidente Putin per affermare, nel perorare la causa serba, che “il Kosovo rompe la prassi consolidatasi in materia di sovranità e autodeterminazione”. Va solo incidentalmente ricordato a tal proposito che nel diritto internazionale consuetudine e prassi sono le fonti giuridiche prioritarie, pertanto, checché se ne dica da più parti, quanto sta avvenendo in queste giornate non costituisce eccezionalità, bensì un precedente a tutti gli effetti cui altre minoranze potranno legittimamente appellarsi: il fatto compiuto produce norma nel lungo periodo. Se Washington e Londra ai tempi dell’aggressione all’Iraq cercarono una serie di pezze d’appoggio politiche per compensare la palese inconsistenza di riferimenti nel diritto internazionale tali da dar loro mandato di agire, stavolta si è stravolto senza problemi il contenuto del piano Ahtisaari, il quale prevedeva l’indipendenza sotto il controllo delle Nazioni Unite ed in base ad una nuova risoluzione che aggiornasse la 1244, nonché gli eventuali riconoscimenti internazionali dopo 4 mesi, per non parlare della missione Eulex, la quale non ha la prevista autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Su questo sfondo giuridico ha avuto ancor maggiore significato l’analisi di Vernole, il quale, dopo aver segnalato la minacciosa presenza dell’imponente base NATO di Camp Bondsteel (ubicata proprio nei paraggi del nuovo staterello che l’ha concessa in affitto per 99 anni), ha quindi evidenziato le aree a rischio che si trovano in zona. Innanzitutto Mitrovica e il Kosovo settentrionale sono quasi esclusivamente serbi (al pari della zona meridionale) ed hanno già espresso l’intenzione di non secedere dalla madrepatria; la Valle di Presevo è già stata teatro in passato di scontri attizzati da separatisti albanesi; il Sangiaccato è un’area quasi esclusivamente musulmana all’interno della Serbia che potrebbe a sua volta sganciarsi; i serbi di Bosnia hanno finalmente un precedente cui appellarsi per staccarsi da Sarajevo e d’altronde pure i serbi di Kumanovo in Macedonia sono in fermento; Skopje deve inoltre guardarsi dai separatisti albanesi del Tetovo, giacché un recente sondaggio commissionato dalla televisione di Tirana ha dimostrato che il 90% dei suoi spettatori sogna una Grande Albania che raccolga tutte le comunità albanesi dei Balcani. Non meno importante è l’azione che il plutocrate Soros sta portando avanti attraverso le radio ed i giornali da lui finanziati in Vojvodina al fine di ispirare il separatismo della forte componente ungherese. Uno stato fantoccio a Pristina è nondimeno funzionale agli interessi energetici atlantismi, i quali prevedono il passaggio in quella regione dell’oleodotto Nabucco partente dalla Turchia (uno dei pochissimi Stati islamici a riconoscere lo staterello) in contrapposizione con il progetto russo South Stream che attraverserebbe la Serbia. Nel momento in cui la Russia tutela quindi gli interessi suoi e di Belgrado, si potrebbe finalmente vedere in azione il potenziale della nuova alleanza eurasiatista che si riconosce nell’Organizzazione di Shangai, incentrata sulla cooperazione sino-russa e di Stati ex sovietici ed ha in qualità di osservatori non solo l’ambigua India, ma anche Iran e Afghanistan, due Stati nel centro del mirino statunitense. Riferendosi, invece, allo status del Kosovo nell’ordinamento interno di Belgrado, il redattore di Eurasia ha precisato come le scelte di Milosevic finalizzate a depotenziare l’autonomia della regione avessero avuto senso in una Jugoslavia oramai ridottasi sostanzialmente alla sola Serbia, essendo nel frattempo venuti a mancare i bilanciamenti e i contrappesi che in una struttura federale ben più ampia avevano la loro ragion d’essere. Senza dimenticare che un progetto di pulizia etnica da parte serba non fu mai elaborato, che sul suolo kosovaro si ebbero scontri fra le bande dell’Uçk e l’esercito regolare, che incidentalmente coinvolsero pure civili di entrambe le parti, e che l’esodo albanese del ’99 ebbe inizio solamente dopo i bombardamenti americani, i quali peraltro colpirono soprattutto le zone densamente abitate da albanesi. Non è dunque dietrologia affermare che, una volta assolta la funzione di sovvertire il rapporto numerico sul territorio, la prolificità schipetara potesse diventare un ostacolo per il controllo della zona e che fosse opportuno frenarla a suon di proiettili a uranio impoverito, uno dei cui spiacevoli effetti collaterali, una volta entrato in circolo dal sottosuolo, è proprio la sterilità.

La dottoressa Urosevic ha ribadito la massima disponibilità di Belgrado a garantire l’autogoverno della provincia nel rispetto della propria sovranità: la Serbia è nata in Kosovo, lì c’è il nocciolo della sua cultura. Citando il Presidente Tadic, la funzionaria diplomatica ha confermato l’illegalità della proclamazione d’indipendenza, la quale andrebbe a sottrarre identità, storia e tradizioni al popolo serbo, laddove in questi 9 anni di amministrazione dell’ONU 250.000 non albanesi (quindi non solo serbi ma anche rom, sinti, turchi ed egiziani) sono stati cacciati dal Kosovo ed hanno preso fuoco 35 monasteri ortodossi teoricamente tutelati dall’UNESCO (ma Bargiacchi chiederà retoricamente dove risieda la capacità sanzionatoria di quest’ente) e più di 800 abitazioni private. Quasi a placare gli animi dopo gli scontri consumatisi sul luogo del delitto e a Belgrado nei giorni precedenti, Urosevic ha specificato che il Paese da lei rappresentato, avendo a cuore la stabilità della regione e quindi dell’Europa, non intende ricorrere all’uso della forza, bensì ha piena fiducia negli strumenti legittimi e pacifici, tanto è chiara la violazione della sua sovranità statale, principio basilare dell’ONU.

Nel corso dell’intenso e partecipato dibattito (oltre 100 i presenti) è anche emerso come il report Ahtisaari delineasse già le fondamenta della Costituzione kosovara, con tanto di espliciti riferimenti alla multietnicità ed all’istituzione di enclave e di aree protette a beneficio delle minoranze, come se le già ricordate violenze di questi anni perpetrate da parte albanese non avessero mai avuto luogo. In sede ONU, infine, il veto incrociato fra Russia e USA ha paralizzato il Consiglio di Sicurezza, il quale non può quindi esprimersi su questa delicata vicenda, di cui potrebbe farsi carico l’Assemblea Generale, esprimendo una mozione di condanna dell’indipendenza di Pristina, oppure la Serbia stessa, chiedendo un parere consultivo (giuridicamente non vincolante, ma politicamente molto importante) alla Corte Internazionale di Giustizia.