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Into the wild: il volto nascosto degli americani

di Claudio Asciuti - 26/02/2008

 

Cinema: il volto nascosto degli americani

America. Un’America che non è Bush, non il Vietnam o l’Iraq, non le multinazionali e le guerre preventive, la filosofia della stupefazione o quella del liberismo sfrenato, non lo sterminio dei Nativi o degli oppositori al colonialismo; a guardare bene Into the Wild, il nuovo film di Sean Penn, quel che s’intravvede è il vero volto dell’America: quello fisico, geografico, quello della wilderness (la “natura selvaggia”, tema fondante della pittura, del cinema e della letteratura americana) da un lato - quello libertario, comunitario, ribelle dall’altro; il volto di un popolo che non avendo una tradizione alle spalle, se ne è dovuta trovare necessariamente una, passando attraverso pensatori come Ralph Waldo Emerson, il filosofo della natura (“La natura è il segno dello spirito”) o Henry Thoreau, profeta della disobbedienza civile e della vita nei boschi al di fuori della società stessa; quest’ultimo non a caso uno dei numi tutelari assieme a Leone Tolstoi e a Jack London del viaggio del giovane Chris verso le terre del Grande Nord.
Into the Wild (2007) è un film che Sean Penn, ex-ragazzo cattivo del cinema statunitense, ribelle e anticonformista e piuttosto scomodo per le sue posizioni sull’Iraq, ha dedicato al caso di Chris McCandless, scomparso nel 1993, e che Jon Krakauer, giornalista e scrittore di libri nomadici e alpinistici (di lui ricordiamo Aria sottile, romanzo e documentazione molto critica sulle spedizioni commerciali sull’Everest), ha scritto ricostruendo la sua epopea. Una storia che al regista americano non poteva non interessare, dopo aver diretto pellicole come Lupo solitario (1991), o La promessa, (2001) o l’episodio USA, uno dei migliori del film collettivo 11 settembre 2001 (2002), pellicole cioè che attraversano tutta la serie di conflitti umani, dal desiderio alla perdita.
Ma per comprendere bene questo film bisogna partire da una constatazione innanzitutto etica: in un mondo come l’odierno, dove al cinema tutte le idiozie sono lecite e anzi raccomandante, e i moralisti s’indignano per un po’ di sesso e non battono ciglio dinnanzi a intere stragi, Into the Wild viene vietato in Italia ai minori di anni 14. Perché è un film che è una riflessione sulla famiglia, sul sistema, sul mondo: per nulla consolatoria e politicamente scorretta.
La storia è molto semplice. Nel 1990 il giovane Chris Mc Candless (Emile Hirsch in un’ottima performance), abbandona l’università, dà in beneficenza i suoi soldi e inizia un pellegrinaggio alla ricerca del proprio sé, sulle orme di vagabondaggio caratteristica della cultura americana, che vede nella strada la vera maestra esperienziale. Il suo viaggio attraversa luoghi e spazi, e incrocia individui di ogni genere con cui stringe amicizia: la coppia formata da due hippies stagionati che lo adottano come se fosse un figlio, un vecchio militare a riposo che lavora come artigiano del cuoio, e che invece vorrebbe adottarlo legalmente (Hal Holbrook), una ragazzina che s’innamora di lui, un agricoltore un po’ hacker che finirà in carcere (il sempre bravo Vince Vaughn), due turisti danesi in giro per gli States. Dietro di sé lascia due genitori che rimangono assieme solo per questioni finanziarie (un intenso William Hurt e Marcia Gay Harden), una sorella a cui è stretto da un legame affettuoso ma non irrecidibile, una società i cui unici valori sono la carriera e il consumo; davanti a sé il raggiungimento di una libertà interiore e di uno sprofondamento nella wilderness alaskana.
Penn sceneggia dal libro di Krakauer un materiale molto lineare, che filma attraverso un quasi ininterrotto flash black, intervallato dalla situazione presente (la lotta per la sopravvivenza in Alaska) e scandito da titoli che trasformano il viaggio in un romanzo di formazione, dalla nascita alla morte, e punta la macchina da presa sulla figura di Chris, ripreso quasi sempre in relazione con l’ambiente circostante, sia esso fiume, montagna, deserto, cioè in campi lunghi e lunghissimi, ma senza cadere nel calligrafismo tipico di certo cinema americano e nemmeno nell’immagine documentaristica. Ciò che si rileva è la wilderness ripresa nel suo duplice aspetto di luogo edenico e di luogo pericoloso. Con questo mondo naturale, il giovane Chris è comunque in sintonia: che sia solo o con qualche compagno di strada; fuori dalla wilderness come tutti noi, sembra suggerirci Penn, è in pericolo: quando si ritrova in città il contrasto fra il mondo naturale e quello cementificato è stridente; ma quando cala la notte Penn lo risolve attraverso una ripresa sgranata, fatta di fermo-immagine sull’ attonito ragazzo che s’ aggira fra barboni, ubriachi, spacciatori, fino al punto estremo in cui vede sé stesso nelle sembianze di un giovane yuppie, impegnato a bere e chiacchierare in un locale, evento che lo spinge a correre via dalla città. Non a caso l’unico episodio di violenza sarà successivo: il vigilante privato della linea ferroviaria che lo prende a manganellate, fatto tradizionale, anche questo, che parte da London (e che sullo schermo prende forma grazie al grande Robert Aldrich in L’imperatore del Nord) e traversa tutto l’immaginario nomadico americano.
Insomma, sembra dirci Penn, la wilderness è un mondo meraviglioso che va affrontato con la compagnia di qualcuno. O meglio: il mondo è wilderness e va affrontato così. Il punto di equilibrio del film, non a caso, ma anche punto del non ritorno, è quando Chris ritrova la coppia di amici, che gestisce una rivendita di libri usati, in una specie di villaggio nel deserto, incrocio fra una di quelle TAZ, “zone temporaneamente autonome” teorizzate dal filosofo anarchico Hakim Bey (ovvero Robert Wilson), una tardiva comunità di hippies e un campeggio da festival pop. Un luogo, cioè, dove la gente forma e si sente comunità al di fuori della legge americana e dal sistema corrente, e dove, ad esempio, a intrattenere i residenti la sera bastano alcuni musicisti e un po’ di buona volontà, senza l’ausilio di rockstar.
In questo senso ritornano i fantasmi di Leone Tolstoi, che con l’esperienza di Jasnaia Poljana volle creare una comunità, o di Jack London, che nel suo ranch alloggiava spesso, oltreché amici, conoscenti e lavoratori, anche senzatetto, o ancora Jack Kerouac che con un efficace neologismo da allora entrato nell’uso, era uno dei tanti Vagabondi del Dharma, uomini impegnati cioè a ricercare altri valori, spesso metafisici, magari diversi, ma che si riconoscevano lungo le vie americane come appartenenti ad una stessa comunità.
E proprio in questa scelta sta la cifra conclusiva del film: l’idea del ritorno non alla società ma alla comunità porta (tardivamente) all’abbandono della wilderness, che da terra promessa si trasforma in prigione: causa il disgelo Chris non può traversare i fiumi che lo isolano dal mondo, e nutrendosi con bacche che erroneamente scambia per commestibili, si condanna a morte per avvelenamento e per in inedia. Non senza aver lasciato un biglietto, in cui definisce la sua (breve vita) come “felice”. Come avrebbe detto Emerson, voglio vivere, non espiare.