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Via dall'Afghanistan

di Marco Ghisolfi - 27/02/2008

     

 

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Scampato agli attentati di Nassirya per finire assassinato a 60 chilometri da Kabul. E’ stato questo il paradossale e grottesco destino del maresciallo Giovanni Pezzullo, morto alcune settimane fa nell’inferno bellico afgano. Di questi giorni anche l’ennesimo attacco a dei convogli militari italiani, in quella che dovrebbe essere la tranquilla provincia di Herat. E con con l’uccisione di Pezzullo sono 11 i soldati italiani caduti in Afghanistan.
Passato il tempo catartico in cui, secondo molti, è da sciacalli criticare la nostra missione “di pace” poiché l’obbligo morale in questi casi è celebrare l’eroe di turno e stringerci intorno al tricolore, occorre a mente fredda fare delle riflessioni su cosa diavolo stiamo facendo in Afghanistan.
Passata la commozione, guardiamo le cose per quelle che sono. E’ inevitabile chiedersi perché, a quasi sei anni dall’attacco contro i talebani, è ancora così facile essere uccisi distribuendo aiuti o inaugurando un ponte, com’è successo appunto ai nostri, in zone che dovrebbero essere esenti da pericoli di una certa gravità. E soprattutto come è possibile che un paese, dotato di un governo (fantoccio) a tutti gli effetti, sia ancora fuori controllo. Sappiamo, o facciamo finta di non sapere che attentati e morti nelle file delle forze militari internazionali sono all’ordine del giorno, proprio perché la popolazione ci vede come occupanti e basta.
La ragione di una situazione così grave si chiama Iraq. La logica politica e quella militare, oltre al buonsenso sempre ignorato, avrebbero suggerito di portare fino in fondo la strategia decisa per l’Afghanistan. Che prevedeva la sconfitta sul campo dei talebani, ritenuti colpevoli di proteggere Bin Laden, ma anche una vasta opera di nation building, cioè la ricostruzione del regime politico su basi democratiche occidentali e il risanamento di un paese disastrato da decenni di guerra ininterrotta. Dopo aver compiuto il primo grande errore, vale a dire premesse sbagliate per un attacco giustificato ad hoc, Usa & Co ne hanno compiuto un altro più grave, pensando bene nel 2003 di rivolgersi all’Iraq, sottraendo all’Afghanistan forze decisive, anziché portare a termine l’opera. Non solo soldati (42.500 in Afghanistan; gli Stati Uniti da soli ne impiegano 170.000 in Iraq), ma anche intelligenza e capacità decisionale.
In Afghanistan, per esempio, rimane ancora del tutto aperta la questione delle coltivazioni di papavero da oppio. L’industria della droga vale oggi il 30% del Pil dell’Afghanistan e il 93% della produzione mondiale di oppio, mentre con i talebani la produzione era stata quasi azzerata. Scarso anche il coordinamento tra la missione militare Usa e quella degli altri paesi. Non si può dire peraltro che il prezzo pagato in Afghanistan abbia prodotto buoni frutti in Iraq: l’aumento delle truppe ha reso un po’ più calme le acque, ma stiamo sempre parlando di un paese tutt’altro che pacificato, dove soldati e civili muoiono come mosche ogni giorno.
Così, sia qua sia là, eccoci alle prese con due mezze vittorie che sanno di sconfitta. In Iraq e in Afghanistan abbiamo messo in piedi un fantoccio di democrazia: si vota e si muore per strada, si riuniscono i parlamenti e poi ogni tribù decide per sé. Smettiamola allora di chiamare eroe chi muore in una presunta “missione di pace”, che altro non è che una sporca guerra di occupazione, e andiamocene a casa. Di corsa.