La Striscia è un carcere a cielo aperto Dopo la mia liberazione con altri pacifisti sono rimasto bloccato ad un check point. Prigionieri con noi anziani e malati, in una gabbia di metallo
È difficile spiegare che cosa una persona può vivere quando è protagonista di una vicenda come quella che è capitata a me (Bernardini dieci giorni fa è stato vittima di un sequestro lampo nella Striscia di Gaza, ndr). È altrettanto arduo cercare di capire come sia possibile diventare da un momento all'altro un soggetto/oggetto di discussione e di interpretazione politica nel proprio paese. Scrivo queste righe in primis per scaricare la tensione accumulata in questi giorni, poi per spiegare alcune cose. Innanzitutto ho cercato - in un momento di totale confusione e di emozione - di mandare un messaggio di pace. Io non sono un giovane nelle mani della «propaganda comunista» che a bacchetta ripete quello che qualcuno gli ha chiesto di dire. Non credo nella guerra come risoluzione dei conflitti internazionali e sto vedendo con i miei occhi cosa significa vivere in un posto dove è il fucile a dettare la legge. Dove sono i muri, il filo spinato, le perquisizioni, i check point, le incursioni e i missili ad avere sempre l'ultima parola. Ho anche dichiarato che l'Autorità palestinese deve prendersi le sue responsabilità per quello che è successo e impedire che atti simili siano all'ordine del giorno a Gaza. Questo perché i sequestri, la violenza, i kamikaze non fanno altro che il male del popolo palestinese, mettono a repentaglio e spesso distruggono la vita di persone innocenti e qualsiasi possibilità di avere finalmente la pace in questa terra.
Pochi giornali hanno riportato queste mie dichiarazioni, mentre tutti hanno sottolineato le mie parole (e lo ripeterò all'infinito) sulla politica del governo israeliano verso il popolo palestinese. Io sono qui e continuerò a starci, con una delegazione di attivisti pacifisti formata da persone fantastiche, che mi hanno sostenuto e che hanno fatto il possibile per farmi tornare con loro. Personalmente dovevo intervistare alcune candidate donne alle prossimi elezioni del parlamento palestinese. Non so se riuscirò a portare a termine il mio lavoro. Quasi nessuno di noi appartiene ad un partito politico e siamo venuti qui per capire o cercare di capire questo mondo. Non siamo un gruppo di irresponsabili che non prendono le dovute precauzioni in situazioni di tensione. Nessuno avrebbe potuto far nulla in quel momento. Solo una scorta armata. Presentarsi a Gaza con una scorta armata avrebbe distorto il senso della nostra presenza lì e avrebbe creato ancora maggiori tensioni. Oltretutto non crediamo che i fucili possano essere strumenti di sicurezza ma solo di morte. Questa esperienza terrificante, ha rafforzato ancora di più in me la convinzione che solo attraverso il dialogo, il rispetto delle differenze e del diritto internazionale, si possa arrivare ad una pace giusta e alla creazione di due stati, con leggi, istituzioni e culture diverse. Oggi non è così. Qualche direttore ha sostenuto che l'abbandono delle colonie rappresenti la fine dell'occupazione. Forse non si rende conto che l'occupazione è ben lontana dall'essere conclusa. Se non l'ha già fatto, l'inviterei ad andare a Gaza prima di scrivere. Gaza è una prigione a cielo aperto. Tutto è monitorato. Dopo la mia liberazione, io e membri della delegazione siamo rimasti per due ore chiusi al check point israeliano in una gabbia di metallo. Un uomo palestinese, anziano e malato su una sedia a rotelle, attendeva da più di due ore di passare. I soldati pretendevano che si alzasse e passasse i cancelli camminando. Noi della delegazione abbiamo deciso di non passare senza che prima uscisse l'anziano, che era accompagnato da due donne con un bambino. Questo non per creare tensione con i soldati, o fare politica a tutti costi, ma solamente per solidarietà con chi è costretto a vivere in questo modo. Il tutto sotto i continui bombardamenti dell'esercito israeliano volti a creare la famosa zona cuscinetto che invece mira e colpisce i villaggi di Beit Lahahya e Beit Hanoun, a nord della Striscia. Questa non è propaganda, ma purtroppo lo stato attuale di come si vive a Gaza e in molte altre parti della Palestina. Circondare, limitare, controllare e costringere a vivere i palestinesi dietro ad un muro di nove metri, non mi sembra un antidoto contro il terrorismo (che qui è un problema reale e concreto), ma una politica asfissiante e denigrante per la dignità di chi la subisce.
Ho dichiarato che i sequestratori sono stati gentili con me e che hanno cercato di tranquillizzarmi. Ho dichiarato, inoltre, che hanno cambiato atteggiamento dopo una telefonata che ha creato in loro il panico e di conseguenza in me la paura che qualcosa stesse andando storto. Ho avuto paura che volessero uccidermi perché non stavano ottenendo quello che avevano chiesto. Tanta paura. Affermo anche che il mio rilascio è avvenuto dopo una sparatoria e che non so che fine abbiamo fatto i miei rapitori. Non ho subito percosse. Ho anche dichiarato di aver avuto la sensazione che si trattasse di un gruppo disorganizzato e confusionario e che non mi sembrasse un rapimento a fini politici ma a scopo di estorsione.
Potrei anche sbagliarmi, ma in quei momenti cerchi di affidarti alle tue emozioni e di restare lucido per osservare più particolari possibili. Ringrazio chi ha lavorato per la mia liberazione, in particolare Luisa Morgantini e le forze politiche palestinesi che si sono adoperate in ogni modo per strapparmi da un incubo. Continuerò a venire in Palestina e a criticare la politica di un governo che sta strozzando la popolazione civile attraverso una punizione collettiva che disgrega il tessuto sociale. Lavorerò, come faccio da tempo, con israeliani contrari all'occupazione e palestinesi che credono nella democrazia.
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