Gli economisti avvertono che negli Stati Uniti è in arrivo la recessione. Ma è da mesi che gli americani faticano ad andare avanti

GLI INDOVINI HANNO UCCISO il toro e ora stanno esaminando le viscere in cerca di segnali: disoccupazione in crescita, dollaro in calo, consumi deboli, crisi del credito, borsa traballante. Qualcosa non va? E davvero in arrivo, Dio non voglia, una recessione? L’unica risposta sensata è: chi se ne frega!

Secondo un sondaggio della Cnn, il 57 per cento degli statunitensi pensava di essere in recessione già a dicembre. Gli economisti potrebbero obiettare che è così solo perché i cittadini ignorano la definizione tecnica di recessione: almeno due trimestri consecutivi di crescita negativa del pil. Ma la maggior parte dei cittadini usa una definizione meno ricercata: tempi duri.

La vecchia fissazione degli economisti per la crescita come misura del benessere economico li colloca in un universo parallelo tutto loro. Il sito Worldmoneywatch.com, per esempio, ci dice che “il tasso di crescita del pil è il più importante indicatore dello stato di salute dell’economia. Se il pil aumenta, crescono anche l’industria, i posti di lavoro e i redditi”. Ma, sant’iddio, negli ultimi anni abbiamo avuto una forte crescita, come il presidente George W. Bush non si stanca di ricordarci, ma non si è visto alcun aumento dei redditi, almeno non per i ceti medi. Alcuni economisti perplessi ammettono che la crescita si è “sganciata” dalla prosperità di massa.

La crescita non è l’unico indicatore economico ad averci abbandonato. Negli ultimi cinque anni la vivace crescita di produttività americana ci è stata invidiata da gran parte del mondo. Allo stesso tempo, però, i salari reali sono scesi. Naturalmente non dovrebbe essere così. Gli economisti hanno creduto a lungo che più si lavora sodo, più una specie di processo occulto fa sì che aumentino anche i salari.

E che dire del tasso di disoccupazio­ne? Il vecchio credo progressista era che la “piena occupazione” produceva un paradiso dei lavoratori con salari più alti e un migliore potere contrattuale per i giovani e le donne. Eppure abbiamo da anni un tasso di disoccupazione sotto il 5 per cento, ma di nuovo senza i guadagni previsti. I progressisti non avevano considerato fattori come un salario minimo troppo basso, sindacati impotenti e un’accozzaglia di strategie aziendali per tenere giù salari e stipendi.

Un paese diseguale

Se questi grandi e solenni indicatori economici - crescita, produttività e tassi di occupazione - si sono sganciati dalla vita reale della maggior parte delle persone, dev’esserci qualcosa di sbagliato negli economisti, nell’econo­mia o in entrambi. Siamo diventati un paese così diseguale da avere due eco­nomie distinte: una per i ricchi e una per tutti gli altri. La seconda è in recessione, se non in depressione, da molto tempo. Ma non tutti gli economisti vogliono ammetterlo.

Ho l’impressione che la favolosa crescita di produttività degli Stati Uniti sia un altro esempio dello scollamento tra le misure economiche e la vita reale. È stata attribuita ai progressi dell’istruzione e della tecnologia, e sarebbe bello se fosse così. Ma secondo il McKinsey global institute, un istituto privato di studi economici, la crescita di produttività americana è anche frutto delle “innovazioni gestionali”. Uno studio del 2001 cita Wal-Mart come esempio. La produttività si può au­mentare accelerando i tempi delle catene di montaggio, raddoppiando il carico di lavoro e riducendo le pause. Può sembrare una bella trovata vista dall’alto, ma ai livelli medio-bassi l’au­mento di produttività sa tanto di soffe­renza. Solo dopo che i lavoratori di­pendenti sono stati spremuti perbene, c’è la possibilità di una recessione vera, secondo la sua definizione tecnica. La gente spende meno e la crescita rallenta al punto che anche i vertici economici devono svegliarsi e prendere atto della situazione.

Contrazione dei consumi

È quello che sta succedendo in Giap­pone, dove un recente titolo del Wall Street Journal annunciava: “Il ricorso sempre più frequente ai lavoratori temporanei frena la ripresa del Giap­pone: nelle aziende aumentano i lavo­ratori part-time e il potere di spesa si riduce”. Gli Stati Uniti, dove la spesa per i consumi rappresenta il 70 per cento dell’economia, sono ancora più vulnerabili di fronte a una contrazione dei consumi individuali.

In ogni caso, cos’è questa fissazione per la crescita? Come regola generale di sopravvivenza economica, bisognerebbe evitare di dipendere da una crescita continua, a meno che non si voglia essere mangiati vivi. Nel libro Deep economy, Bill McKibben sostiene che il “culto della crescita” ha portato al riscaldamento globale, a livelli spa­ventosi d’inquinamento e alla riduzione delle risorse.

Apocalisse a parte, il mantra della crescita ci ha ingannato per troppo tempo. Hanno continuato a dirci: “Non pensate a quanto è grande la vostra fetta in proporzione alle altre, l’importante è far crescere la torta ! “. Oggi, mentre una recessione minaccia nuove sofferenze per chi già fatica ad andare avanti, potrebbe essere il momento ideale per tirare fuori il coltello e rifare le porzioni. ■ nm

Dalla rivista Internazionale

Barbara Ehrenreich, Una paga da fame. Come (non) si arriva a fine mese nel paese più ricco del mondo
Feltrinelli 2004, 7,00 euro

Loretta Napoleoni, Economia canaglia: Il lato oscuro dell’economia

Bruno Carosio, L’autunno degli Stati Uniti. Neoliberismo e declino sociale da Reagan a Clinton
Shake 1998, 12,91 euro

Immanuel Wallerstein, Il declino dell’America
Feltrinelli 2004, 25,00 euro