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Un futuro originario

di Francesco Boco - 29/02/2008

 

 

 

 

In una conferenza del 1978 intitolata La filosofia analitica della politica[1] Michel Foucault problematizza i rapporti degli individui con il potere. Potere inteso non soltanto come sovrastruttura omnicomprensiva (Stato, economia…), ma anche nelle più ristrette relazioni individuali quotidiane in cui si ponga il problema dell’autorità e della sua forza impositiva. Con la parola potere Foucault intende le “relazioni di potere” che si vengono a creare nelle relazioni umane di ogni genere. Tali relazioni sono mobili e non date in modo definitivo, poiché ad esse è sempre possibile opporre una resistenza, anche nel caso estremo in cui il potere sia un dominio.

Ciò che le lotte contro il potere mettono in discussione, per l’autore francese, non è la possibilità di inserirsi e di “guadagnare” una parte nel gioco[2] dell’esercizio dei poteri, esse mettono più radicalmente in discussione l’esercizio stesso del potere, rifiutando di inserirsi nel suo discorso e nelle sue dinamiche per una forma immediata e in apparenza contingente di autonomia; si tratta di una resistenza strategica al gioco stesso.

«Vorrei insistere sul carattere immediato di queste lotte. Da un lato, se la prendono con le istanze del potere più vicine; se la prendono con tutto quello che viene esercitato direttamente sugli individui.[…] Dall’altro lato, queste lotte immediate non si aspettano neppure che la soluzione dei problemi stia in qualche avvenire, nella rivoluzione, nella liberazione, nella scomparsa delle classi, nel deperimento dello Stato.[3]»

Il fine profondo di queste lotte e di queste forme di resistenza è, secondo Foucault, la messa in discussione di un potere molto più profondo e radicato nella storia dell’Occidente: quello che l’autore chiama il potere pastorale. Un potere di tipo religioso che si è consolidato dal Medioevo, chiamando in causa l’individuo e la sua moralità condizionandone la vita intera. Con il venire meno del potere religioso vi è stato tuttavia un innesto  e addirittura una moltiplicazione e una diffusione delle tecniche pastorali nel quadro laico dell’apparato dello Stato, tanto che ogni macchina disciplinare chiama in causa l’individuo stesso. «L’individuo è diventato una posta in gioco fondamentale per il potere.[4]» In questo contesto, secondo Foucault, la funzione delle lotte di resistenza alle relazioni di potere diventa fondamentale per garantire la libertà e la mobilità dei rapporti di soggezione. Vedremo tuttavia che la visione dell’autore francese non è priva di problematiche.

In anni più recenti il celebre sufi Hakim Bey ha diffuso il suo famoso testo intitolato T.A.Z.[5], efficace sigla che indica le Zone Temporaneamente Autonome. Coerentemente con quanto affermato al suo interno, il saggio è disponibile in varie lingue in diversi siti internet e non è protetto da alcun diritto d’autore.

Dalle lotte “individualizzate” descritte da Michel Foucault non tutto è cambiato, ma qualcosa certamente sì. Bey parla infatti di zone liberate in modo temporaneo all’interno delle quali non vale il potere statale e in cui il “sistema” non entra con i suoi controlli tentacolari. L’eccentrico autore parla esplicitamente di covi pirata, un modello a cui ispirarsi nell’età di internet e delle reti informatiche e di informazione. Come i pirati, che si rifugiavano per periodi più o meno lunghi in covi al di fuori della legge sempre pronti ad abbandonare la base per stabilirsi altrove, così devono agire le comunità cyber-anarcoidi considerate da Bey. Zone autonome temporanee dunque perché la loro durata nel tempo è sempre condizionata dalla repressione mossagli contro dal potere costituito: nel momento in cui il potere faccia irruzione la loro stessa esistenza finisce, o meglio, termina in quel luogo, per trasferirsi altrove.

Secondo un’ottica fortemente legata alle visioni cyberpunk, Hakim Bey fa un costante riferimento alle risorse del Web, un oceano immenso di possibilità comunicative da utilizzare per creare comunità virtuali o per preparare azioni concrete. In ogni caso, nel parlare di rete essa va intesa nel senso di estensione dei contatti di informazione e comunicazione tra singoli e comunità, così come nella sua traduzione inglese di World Wide Web.

Lo stirnerismo di Bey pare spesso trincerarsi in un narcisismo sostanzialmente incapace di incidere concretamente nella società storicamente collocata in cui vada ad operare. Questo perché la funzione delle T.A.Z. sembra essere soprattutto quella di garantire degli spazi liberati a gruppi più o meno vasti in cerca di un luogo in cui dare libero sfogo alle proprie velleità e ai propri desideri irrealizzati. Il tutto appare abbastanza autoreferenziale; Bey afferma esplicitamente, come d’altra parte – pure in diverso contesto - lo stesso Foucault, che non v’è interesse a produrre cambiamenti duraturi o a giungere a una vera e propria rivoluzione (d’altra parte quest’ultima costringerebbe a problematizzare il costituirsi successivo di un nuovo potere, di un nuovo ordine, forse addirittura di un nuovo dominio…) quanto piuttosto a ottenere dei risultati consapevolmente limitati nel tempo. È un agire, pare, attento in gran parte al presente e ad esso soltanto, piuttosto che al futuro e al protrarsi di una determinata esperienza.

È comunque vero che la capacità tentacolare del potere e dei sistemi di controllo e repressione rendono assai difficoltosa la realizzabilità di progetti rivoluzionari a lungo termine. Spesso, nel momento in cui una realtà estranea alle leggi comuni diventi un esempio riuscito di alternativa e resistenza, questa viene prontamente stroncata e dispersa.

In una dinamica in parte simile e in parte differente a quella delle T.A.Z. possiamo inserire quelli che il geniale Guillaume Faye definì col nome di Territori Ideologicamente Liberati[6]. «Per contenere le “idee pericolose” la soluzione è stata quella di disinnescare ogni idea, qualunque essa sia. E soprattutto sterilizzare il pensiero e la riflessione. […] In questa breccia deve farsi largo qualunque progetto radicale in quest’epoca di conservatorismo assoluto.»[7]

Esiste, è chiaro, una continuità con le Zone temporaneamente autonome, ma esiste una solida differenza, consistente soprattutto nella sostanza ideologica che caratterizza tali territori. Al di fuori di un’ottica sterilmente narcisistica e dalle prospettive ristrette, dove si vada a realizzare un discorso ideologico, e non soltanto ontologico come vuole il Bey, fortemente alternativo e affermativo al di là dei valori e delle leggi comuni, non si tratta di azioni attente unicamente al risultato presente, ma anche alla durata politica di un modello di avanguardia. Questo significa essenzialmente che le idee non possono essere sconfitte da alcuna repressione o offensiva del sistema. Il radicamento di realtà di questo tipo dimostra la capacità aggregativa, costruttiva e l’efficacia di un’azione che, come minimo, potenzia e perfeziona la proposta delle T.A.Z.

Il fatto che un film e un libro come Fight Club[8] abbiano inciso profondamente nella cultura non omologata ispirandone attivismo, linguaggio e stile di vita ha certamente qualcosa di significativo. Osservando il personaggio principale vediamo un tipo d’uomo affetto da sdoppiamento di personalità; l’una ancora segue le regole e le leggi del sistema, l’altra, emersa con forza in un dato momento della sua vita, quasi inavvertitamente, rappresenta un potente istinto ribelle al di fuori di ogni valore comune e, anzi, capace di richiamare altre menti annebbiate da pubblicità e media. L’opera insiste in modo talvolta shockante e calcato sul tema del dolore (argomento peraltro su cui scrisse a suo tempo Ernst Jünger), considerato come l’unico mezzo di risveglio in una società che annebbia, protegge e conserva nella tranquillità di ogni giorno il bravo borghese.

Ecco che gradualmente Tyler Durden prende definitivamente il sopravvento e la rottura col mondo del “potere costituito”, col sistema, è netta e decisiva. Prende forma il Progetto Meiam (contrazione di Me I am, io sono me stesso), nel libro chiamato Chaos. Si diffondono in tutta America realtà liberate e al di fuori della legge, delle specie di Territori ideologicamente liberati in cui si preparano azioni di controinformazione e di resistenza. Un modello che ha avuto successo insomma, e non soltanto su carta.

Trascuriamo la visione “primitivistica” che emerge talvolta dal racconto del tuttofare statunitense, per focalizzare su un punto molto interessante che ci permette forse di giungere alla parte centrale di questo breve scritto.

Abbiamo brevemente considerato quattro differenti discorsi di opposizione o alternativa al sistema e al potere, prendendo il via da una citazione di Michel Foucault. Torniamo ora a quanto detto inizialmente. Il filosofo francese considera dunque le resistenze ai rapporti di potere in un’ottica del tutto individuale perché, afferma, il potere va a considerare e a colpire l’individuo sin nel suo profondo a causa soprattutto di un condizionamento di secoli: è perciò nel piccolo che si combatte la lotta per la libertà del momento.

Poco importa se ciò fosse vero o meno negli anni in cui questa conferenza fu pronunciata, ciò a cui dobbiamo arrivare è una critica che vuole essere in fondo un’affermazione.

La società attuale è certamente e radicalmente individualista e questo risultato di disgregazione monistica interna non è che il prodotto di secoli di educazione e di indottrinamento in buona parte di matrice cristiana (parzialmente si può dunque dare ragione a Foucault sul tema del potere pastorale…) e, certamente, non comunitaria ma repressiva. In questo contesto si potrebbe poi citare il ruolo disgregante avuto in maniera centrale dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese, ma già Nietzsche scrisse pagine memorabili in merito, facendo derivare democrazia e immortali principi dalla medesima radice giudaico-cristiana.

Chiarito dunque l’ambito di diffuso individualismo in cui ci troviamo a vivere, appare però altrettanto vero che modelli di ribellione che si consolidino – quali che siano ideologie e tipologie – secondo un’ottica fortemente comunitaria automaticamente ed inevitabilmente si contrappongono in modo radicale e netto all’individualismo imperante. In questo modo non soltanto si affermano un modello ed un esempio del tutto differenti ed estranei a quello dominante, ma anche si pongono fortemente in discussione gli apparati di potere dal più evidente a quello meno. 

Scrive Foucault: «Non possiamo metterci al di fuori della situazione, e in nessun posto possiamo essere liberi da ogni rapporto di potere. […] La resistenza si basa sempre sulla situazione che combatte.[9]» Sembra una cosa ovvia, ma non è priva di conseguenze.

L’autore sta chiaramente presupponendo il fatto che ogni negazione necessiti irrimediabilmente di una affermazione da negare, è un rapporto dialettico inevitabile. Questo in ultima analisi significa che ogni resistenza, e lo conferma lo stesso Foucault, dipende strettamente dalla relazione di potere contro cui lotta. Ancora: ogni resistenza non afferma nulla, ma si limita a rifiutare totalmente il gioco di potere di volta in volta in questione. In conclusione, ogni resistenza è un riflesso condizionato di natura oppositiva che ha carattere reattivo e improduttivo, quindi soltanto negativo e non affermativo. Si nega tutto per non sostituirlo con nulla.

È vero che Foucault afferma, nella medesima intervista, il fatto che il “no” costituisca soltanto una parte della resistenza, che deve poi tradursi in processo creativo; tuttavia questo discorso non è privo di problemi irrisolti, soprattutto perché o non risulta chiaro cosa, come e in quale contesto si debba produrre, oppure, e sembra la tesi più convincente, perché appare in fin dei conti sin troppo chiaro che la detta “creatività” si debba inserire nel suddetto rapporto di potere per mutarlo e mantenerlo in movimento ma non annullarlo: le relazioni di potere sono mobili e non date in modo definitivo.

Insomma, pur rifiutando il dato potere non si fa altro che mantenersi all’interno dello stesso discorso e non si fa altro che mutarne i termini per mantenerlo in vita. Lo stesso Foucault scrive che il potere non è un male, nel momento in cui garantisce la libertà della lotta, che gli è però naturalmente legata fisiologicamente. Il rapporto dialettico di cui si diceva qualche riga più su.

 

Rimane comunque l’ambiguità di fondo del discorso foucaultiano, che se da un lato afferma che la resistenza si tiene al di fuori del rapporto di potere (pur non essendo direttamente soggetta a tale potere, ne è però inevitabilmente influenzata se ad esso resiste e intende dunque negarlo), altrove e in scritti più recenti afferma quanto riportato sopra. Prendiamo per buona l’ultima parola e continuiamo a tenere fermo il fatto che, seppure si parli di resistenza, non si ha vera rivolta se non quando si spezzi la catena del discorso storico temporale precedente, per fare irrompere un principio nuovo, una affermazione estranea a quanto sino a quel momento considerato valido. Il tempo si azzera: «la rivolta è fuori dal moderno e da qualsivoglia visione necessitata della storia. L’ adesso, il qui-e-ora della rivolta svelle la storia dai suoi cardini, sconvolgendone il continuum temporale, minandone la linearità unidirezionale.»[10]

Sembra dunque vera un’altra tesi: quelle che abbiamo sin qui chiamato resistenze, vanno a costruire e consolidare, nel lungo periodo, realtà estranee alle dinamiche di controllo e potere del sistema e sono, per forza di cose, esterne ed estranee alle sue dinamiche e questo per necessità per così dire fisiologica di sopravvivenza.

Ma anche, e soprattutto, perché all’interno di una comunità si parla un linguaggio differente da quello parlato all’esterno, e non è cosa da poco: ciò condiziona la comunicazione e l’informazione. Questo significa che, nei fatti, tali forme di resistenza, i territori liberati di cui sopra, nel loro senso autentico vanno a realizzare comunità con leggi proprie e valori propri del tutto indipendenti da quelli del sistema, o per lo meno questo sembrerebbe essere il loro scopo. Quindi si tratta di zone in cui il potere statale non entra, perché nel momento in cui lo facesse, inevitabilmente la loro esistenza avrebbe termine.

Si sta probabilmente commettendo ancora un errore fondamentale, ci stiamo mantenendo a causa di questa svista, in un discorso estraneo a quello della rivolta creativa. Si sbaglia a insistere nell’utilizzo della parola “resistenza”. Si resiste, lo abbiamo visto, a un qualcosa che si nega, a un qualcosa che attacca e che preesiste, ma non si resiste a niente nel momento in cui si afferma, nel momento in cui si crea, nel momento cioè in cui si ha ben altro da fare che dirsi “contro” o “anti”. Insistere nell’utilizzo del termine “resistenza” significherebbe svuotare di significato esperienze che devono doverosamente essere attive – si tratta di un errore, questo sì, ontologico.

Quando si considerino i territori ideologicamente liberati come luoghi di creatività totale e originaria - e non si potrebbe fare altrimenti -  si capisce come sia opportuno fare riferimento alla immagine del “passaggio al bosco” di jüngeriana memoria, piuttosto che a sterili idee di resistenza a un qualcosa da cui si continua, inevitabilmente, a dipendere.

Il bosco, figura con cui Jünger indica il rifugio della comunità dei ribelli e con cui possiamo certamente indicare una zona libera, è il luogo in cui esistono leggi, valori e linguaggio differenti da quelli esterni. Solo all’interno di questa dimensione comunitaria il singolo può prepararsi a fare irruzione nel mondo. Se vogliamo, può prepararsi a cavalcare la tigre; ma potrà farlo soltanto dopo che avrà imparato a cavalcare. Quando cioè in se stesso e con chi è come lui avrà dato vita a una nuova affermazione. Prima di tutto interiore.

«Non rimane allora che il bosco, ove condurre un’esistenza che si rinnova dopo ogni persecuzione e che più volte è stata descritta; il bosco è ovunque, anche nei sobborghi di una metropoli. Il deserto cresce: è questo lo spettacolo offerto dalla civiltà e dai suoi rapporti svuotati di senso. Guai a chi alberga deserti: guai a chi non porta con sé, anche solo in un’unica cellula, quel tanto di sostanza originaria che assicura continuamente nuova fertilità.»[11]

E quando tornerà nel mondo dei borghesi non dovrà essere lui a opporgli resistenza, ma sarà questo mondo a opporre strenua resistenza a lui. La pericolosità di una radicale affermazione che irrompe nell’attimo determinante della rivolta è ben chiara. Perciò inizialmente questi territori liberati hanno natura liquida e mobile, per sfuggire al controllo e alla repressione del sistema. Ma un qualcosa che duri e produca frutto necessita presto o tardi di radicamento, e questo lo si ottiene solo attraverso un’organizzazione comunitaria capace di autogestirsi e di rendersi immune ai virus del mondo esterno (che è ora costretto alla resistenza…). Soltanto in questo modo si produrrà poi un’azione in grado di mutare il mondo circostante, cambiandone il linguaggio. La scelta di un attimo decide il futuro.

Possiamo parlare di affermazioni locali – o territoriali – perché ogni realtà agisce secondo le possibilità e le opportunità concesse dalla specifica situazione storico-politica in cui si trova ad operare. Tali realtà locali sono però legate tra loro da una rete di contatti e di informazione stretta e solida; questo permette ai vari territori liberati di non sentirsi isolati e dispersi nell’oceano e, allo stesso tempo, permette un continuo rinnovamento di metodi operativi e di linguaggio. L’utilizzo dei potenti media digitali garantisce di fatto un’incisività molto più solida rispetto a quella che si otterrebbe con la sola presenza locale individuale – che rischierebbe di essere isolata -, perciò l’utilizzo di forum di discussione, web radio, siti di controinformazione, blog, myspace ecc. risulta quanto mai utile e fondamentale. Anche perché grazie a una costante comunicazione si può creare un linguaggio comune alle varie realtà e dare forma a una capacità comunicativa al passo coi tempi e non semplicemente circoscritta.

Se volessimo dare un nome a questo modo di agire e pensare lo potremmo forse chiamare creativismo. Per la vastità di campi in cui agisce e produce nuovi linguaggi, nuovi discorsi, nuove affermazioni. Un grande estraneo al no della semplice resistenza.

 

Sintetizzando. Si è posto il problema della società dei controlli, che attraverso ogni mezzo possibile disciplina la vita degli individui impedendo che si creino zone al di fuori del suo controllo tentacolare e chiuse alla vista del Grande Fratello globale. Tant’è che le possibili esperienze di resistenza al potere sistemico altro non sono che delle espressioni dialettiche interne allo stesso e utili a prolungarne la durata attraverso metamorfosi. Entrare in una “zona d’ombra” in cui poter agire e costruire liberamente un realtà altra significa, a questo punto, non resistere, bensì affermare un mondo nuovo, differenziato a livello antropologico, ideologico, comunicativo e mitico.



[1] In Michel Foucault, Antologia, Feltrinelli, Milano, 2006. pp. 204-218.

[2] Per “gioco” l’autore non intende una finzione, ma una serie di regole e procedure di produzione della verità, più o meno efficaci.

[3] Ibidem, p. 214.

[4] Ibidem, p. 218.

[5] Hakim Bey, T.A.Z., Shake ed., Milano, 2006.

[6] Guillaume Faye, Archeofuturismo, SEB, Milano, 1999. In internet su www.uomo-libero.com

[7] Ibidem.

[8] Chuck Palahniuk, Fight Club, Mondadori, Milano 2003

[9] M. Foucault, Un’intervista: il sesso, il potere e la politica dell’identità, 1984, in Ibidem, pp. 259-260. Secondo corsivo mio.

[10] G. Damiano, Sovvertire il tempo, Note su L’Anticristiano, in Margini n° 57, gennaio 2007, p. 1.

«L’eternità, insomma, viene decisa nei tuoi attimi e soltanto lì e in base a ciò che tu stesso ritieni dell’ente e a come tu ti tieni in esso – in base a ciò che tu vuoi e puoi volere da te stesso. […] L’eterno ritorno consiste non in un circolo di momenti successivi in sé indifferenziati, ma nell’attimo di una decisione volontaristicamente presa. In ciò “dimora” l’essenza della libertà.»

[11] E. Jünger, Trattato del Ribelle, Adelphi, Milano, 2001, pp. 82 – 83.