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Roma e i Barbari

di Stenio Solinas - 29/02/2008

Oi Barbaroi, I Barbari, è un termine greco che i romani fecero proprio.
Stava a indicare tutto ciò che era estraneo, diverso:
per cultura, religione, istituzioni... Non implicava un giudizio di valore, anche se, in fondo,
lo era, la polis e poi la civitas come uniche
forme di aggregazione umana e politica
degne di questo nome. Nella loro accettazione
stava la chiave di volta di un’integrazione,
qualcosa di più e di diverso di un’assimilazione
e di una dominazione, il sapiente
dosaggio che armonizza le diversità in una
unicità che le comprende, le esalta e le trasfigura.
Diceva Spengler che “l’imperialismo è
un traguardo così necessario di ogni civilizzazione,
che afferra un popolo e lo spinge ad
assumere il ruolo del dominatore, anche per
forza, se lo rifiuta». Applicato alla visione
imperiale di Roma quel dominatore sta però
per dominus, colui che in qualche modo dà
forma intorno a sé, costruisce. C’era in fondo
nel mondo antico, al di là delle sporadiche
conquiste che potevano attraversarlo,
una tendenza spontanea “dello stesso orbis
terrarum“, nota ancora l’autore del Tramonto
dell’Occidente, che costrinse i romani a darle
il loro nome, quel civis romanus sum che
avrebbe caratterizzato la sua idea imperiale.
Già dopo Zama Scipione avrebbe intuito con
angoscia che ogni ulteriore conquista di
quella che allora era ancora una città-stato
sarebbe stata impari rispetto alle forze che la
semplice penisola poteva metterle a disposizione.
Al crepuscolo dell’impero, ha ricordato
Piero Buscaroli nelle bellissime pagine
dedicate in I luoghi e il tempo alla romanità,
il poeta Claudiano paragonerà Roma a una
vecchia macilenta e senza più forze: «Ipsa
nocet moles», il peso la opprime, i confini
invece che delimitarla la soffocano...
Roma e I Barbari è anche il titolo della grande
mostra di Palazzo Grassi a Venezia (sino
al 20 luglio) duemila tesori archeologici provenienti
da musei di tutto il mondo e che si
snoda lungo i tre piani dell’ edificio che la
accoglie: la nascita dell’impero, la sua difesa
e il suo declino, i regni romano-barbarici di
Vandali, Ostrogoti, Visigoti e Franchi, le
ambizioni di Bisanzio sull’Occidente, l’insediamento
dei Longobardi in Italia, la restaurazione
stessa dell’impero sotto Carlo
Magno, questi alcuni dei temi in essa rappresentati.
Nel brutto dipinto di fine Ottocento di
Joseph Noël Sylvestre, dedicato al Sacco di
Roma compiuto dai Visigoti di Alarico nel
410 dc, quest’ultimi sono rappresentati come
selvaggi nudi, ma invece si tratta di popolazioni
già cristianizzate e in fuga dagli Unni
che ne hanno invaso il territorio. Quarant’anni
dopo i Vandali ripetono l’impresa dal
mare e nel commento di Salviano, “il popolo
romano muore e ride insieme”, si avverte la
fine di un’epoca e di uno stile, l’idea ormai
della morte di Roma, ma non per questo del
mondo, che se in sant’Agostino significa lo
scindere della città celeste dalla città terrestre
(“perché ti spaventi che vadano in rovina
i regni terreni? Ti è stato promesso quello
celeste perché tu non andassi in rovina con
quelli terreni”), vuol dire altresì che quel
sanguinoso finale di partita segna la scomparsa
di un modo d’essere e di agire. Dopo
ci sarà ancora tempo per il sogno e per il
mito, ovvero per la trasfigurazione di una
realtà. Ma niente potrà più essere come è stato.
Nel suo percorso cronologico la mostra è
didascalica, ma non per questo noiosa e/o
pedante. All’inizio c’è la sottomissione,
ovvero i Barbari vinti, e in catene, che popolano
i monumenti dedicati alla gloria di
Roma: archi di trionfo, colonne commemorative,
l’Arco di Tito (79-81) rappresentante
il corteo trionfale durante il quale vengono
esibite le spoglie del Tempio di Gerusalemme,
la colonna di Traiano (98-117), il Sarcofago
detto del Portonaccio dove su sei diversi
piani la decorazione scultorea allinea i trofei,
il trionfo, la sottomissione appunto. Sono i
garanti della Pax Romana ed ha ragione Jean
Jacques Aillagon, curatore della mostra, a
dire che “il tema della supremazia di Roma
sull’Orbe è rappresentato in mille varianti da
un perfetto sistema di propaganda. Roma è la
prima civiltà che usa l’immagine per diffondere
l’idea di se stessa e del mondo».
Non tutto è facile in questa marcia trionfale.
Nel 9 dc l’avanzata di Roma in Germania è
arrestata dalla sconfitta delle legioni di Varo
nella foresta di Teutoburgo a opera di Arminio.
Il quadro di Lionel Royer, Germanico di
fronte alle legioni di Varo, dove l’imperatore
su un cavallo bianco contempla un panorama
di scheletri, ossa, carcasse di corazze, elmi,
spade, racconta nel suo nazionalismo revanscista
ottocentesco, quando la Francia sogna
di vendicarsi della Germania che l’ha umiliata
a Sedan, anche l’incubo e la consapevolezza
di un romano come Germanico, pronipote
di Augusto e figlio adottivo di Tiberio, che
occorre porre un freno e un argine. Nel 16
Arminio sarà sconfitto, ma la frontiera dell’Impero
si arresta lungo il corso del Reno e
del Danubio, gli Agri Decumati che diverranno
uno dei luoghi più fortificati del suo
impianto difensivo.
È tempo, insomma, di difendere ciò che è
stato conquistato, e sempre più l’imperatore
è un soldato, un generale. La sua raffigurazione,
diffusa in tutto l’Impero, proclama l’unità
del mondo romano: il Cammeo di Nancy
rappresenta Caracalla (211-217) sostenuto
dall’Aquila e nell’atto di reggere un corno
dell’abbondanza. Onorato da vivo e divinizzato
da morto l’imperatore è il garante della
sicurezza e della prosperità di Roma. Ma via
via che busti e ritratti si fanno sempre più
realistici e sempre più sofferti si capisce
come l’impresa diventi sempre più disperata.
Nel formulare una vera e propria morale dell’Uomo
romano, fiero della propria virtù,
attaccato alla famiglia e al culto degli antenati,
l’Impero costruisce altresì una comunità
umana e civica aperta, disposta ad accogliere
nella società che andava costituendo le élites
di tutte le province nel tempo conquistate e
annesse al suo territorio. La Tavola Claudiana
del primo secolo dc racconta proprio questo,
un imperatore, Claudio, che chiede al
Senato d’accordare ai notabili Galli l’accedere
alle istituzioni romane e al Senato stesso.
È questo che permette una comunità omogenea
e al tempo stesso multiforme, dove
accanto alle pratiche romane del culto domestico
dei Lari si aggiungono, nell’intimità
della famiglia, le divinità locali romanizzate.
Roma si adegua alle diversità religiose e non
pone ostacoli alla pre-esistenza di culti
autoctoni. A Evreux (Normandia) nello steso
tempio convivono il culto di Giove e di locali
dei della fecondità, lo splendido altare di
Bonn stabilisce l’esistenza di culti esogeni
come quello di Mitra.
Il resto lo fa l’ampia rete viaria che sarà uno
dei capolavori della civiltà romana. Dall’Africa
alla Germania, dalla Britannia alla Siria,
da un capo all’altro, dunque, dell’Impero,
templi, terme, acquedotti, basiliche definiscono
un paesaggio urbano coerente, una
civiltà urbana che si estende e si riconosce.
A partire dal III secolo la pressione sulle
frontiere si fa sempre più forte e l’Impero
reagisce in due modi: oppone sì una forte
resistenza militare, ma lascia anche che
popolazioni barbariche ritenute amiche si
stabiliscano sul suo territorio. È l’epoca delle
truppe “federate“, ovvero dell’arruolamento
esterno nel quale i soldati “barbari“ conservano
alcuni elementi del proprio armamento
e la pratica dei loro culti, tra cui, fra i Germani,
quello del dio Freyr, simbolo della fertilità.
“Franco nel civile, sono soldato romano
sotto le armi“ si legge in una iscrizione tombale
dell’epoca. Lo straniero si fa difensore
del Limes...
L’ultimo atto, l’estrema risposta, è l’invenzione
geniale di Diocleziano e della sua
Tetrarchia. Non più un governo unico e centrale,
ma due Augusti, di Occidente e di
Oriente, ai quali si appoggiano due Cesari,
quattro le capitali a tenere l’Impero sotto
controllo. Il famoso gruppo dei Tetrarchi della
Basilica di San Marco a Venezia raffigura
Diocleziano,
Galerio, Massimiano
e
Costanzo Cloro
e ben esprime
la “comunione“
ideale fra i
quattro protagonisti
della
problematica
unità dell’Impero,
l’idea
astratta di un
modello che si
traduce in un
monumento.
Durerà un ventennio,
prima
che ricominci
la tragica serie
delle usurpazioni
e Costantino, figlio di Costanzo, la spunta
su Massenzio, figlio di Massimiano e dà vita
a un altro Stato, cristiano, che è insieme la
continuazione e l’opposto del sogno di Diocleziano.
Da quel 313 dell Editto che porta il suo nome
a quel 410 che vede Roma violata c’è un
secolo ancora di illusioni, sconfitte, mal
risposte speranze. Dopo sarà la volta dei Barbari
che cercano di farsi re, Stilicone, figlio
di un Vandalo e di una Romana, diverrà protettore
dell’imperatore bambino Onorio e
dell’impero minacciato. Galla Placidia,
sorella di Onorio, verrà fatta prigioniera dai
Visigoti, nel 476 Odoacre, già alleato di Attila,
depone Romolo Augustolo e manda a
Costantinopoli le sue insegne del potere. La
mostra continua, i regni barbarici, l’impero
d’Oriente, la Chiesa come nuovo cemento
dell’Europa, ma noi ci fermiamo qui.
Ricapitolando, Roma ebbe imperatori africani
e illirici, si collegò alle classi dirigenti
straniere e le cooptò, costruì una fertile rete
di complicità internazionali, riuscì attraverso
una formidabile organizzazione e una perfetta
logistica ad esercitare un mito attrattivo
che sopravvisse alle periferia dell’Impero
meglio che nel suo centro. Un lungo processo
di omosi permise una coabitazione plurisecolare
che lungi dall’accelerare il crollo
prolungò la vita dell’impero. Nella Guerra
civile, Montherlant scrive che “la storia
romana è un microcosmo di tute le storie; chi
conosce la storia romana non ha bisogno di
conoscere la storia del mondo. Tutto quello
che è opus romanum è opus humanum”.