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La religione dei borghesi è una deificazione dell’uomo contro la morte

di Francesco Lamendola - 01/03/2008

 

 

 

L'apparizione della borghesia, all'inizio della età moderna, è stata definita come il "grande scandalo" contro i decreti della Provvidenza, che per secoli aveva approvato la divisione della società in due soli ordini, bellatores e laboratores (o volgo), oltre, naturalmente, a quello degli oratores, i sacerdoti ed i monaci. Pertanto, fra Seicento e Settecento, la Chiesa si trovò a dover fronteggiare un problema gigantesco e assolutamente nuovo nella sua storia più che millenaria: la necessità di assimilare questa nuova classe di mercanti, imprenditori e finanzieri, la cui formazione culturale e le cui prospettive spirituali non erano affatto di matrice religiosa, bensì laica e immanentistica.

Si trattava, perciò, osserva lo storico olandese marxista (ma di lingua francese) Bernard Groethuysen, di conquistare alla propria visione del mondo una classe che, per la prima volta nella storia, si era formata all'interno di un paradigma ad essa sostanzialmente estraneo; ma anche, al tempo stesso, di non spegnerne l'ardore imprenditoriale e la stessa forma mentis economicistica, poiché, ormai, lo sviluppo della società europea era impensabile senza di essi. Anzi, è appunto allora che nasce l'idea di sviluppo e la sua inseparabile compagna, quella di progresso; e il consolidamento della borghesia appariva  manifestamente impossibile, al di fuori delle nuove prospettive aperte dalla borghesia.

Ebbene, proprio gli assertori più convinti della necessità di un "adattamento" alla nuova mentalità borghese, ossia i Gesuiti, così come - per reazione - i massimi oppositori ad esso, ossia i giansenisti, furono, per Groethuysen, i principali autori della trasformazione, che consentì al cristianesimo di conservare l'egemonia spirituale sul mondo occidentale, "governandone" i rapidi mutamenti economico-sociali e riuscendo ad evitare che l'avvento di una concezione umanistica e razionalistica, basata sul pragmatismo e sull'utilitarismo, ne minasse irrimediabilmente le basi intellettuali e spirituali. Per vie opposte, cioè, Gesuiti e giansenisti furono funzionali ad un unico disegno storico di vasta portata: quello di riassorbire le spinte, potenzialmente eversive dal punto di vista del cristianesimo, della modernità, rielaborando l'orientamento della religione in modo da tener conto dei cambiamenti sopravvenuti; e conservando, tuttavia, l'illusione che poco o niente fosse cambiato, in profondità.

 

Scrive Bernard Groethuysen in Le origini dello spirito borghese in Francia (titolo originale: Origines de l’esprit bourgeois en France. I L’église et la bourgeoise; Paris, Gallimard; traduzione italiana di Alessandro Forti, Torino, Einaudi, 1949; Milano, Il Saggiatore, 1964, 1975, pp. 148-150):

 

“«È inclinazione corrotta del cuore umano – dice il Quesnel – cercare nelle proprie buone opere e nella propria buona volontà qualcosa che non sia Dio, e che essa debba soltanto a sé. Il cristiano, invece, trova la sua gioia nel dovergli tutto in virtù di Gesù Cristo». Dover tutto a Dio senza che Dio ci debba nulla è, per i giansenisti, la quintessenza della pietà cristiana. «Dio non deve nulla agli uomini: ecco il gran principio e l conclusione di tutto». Ma l’uomo nuovo, cosciente dei propri diritti, non può ammetterlo: per lui, la grazia non è più un dono gratuito che ci sia dato e talvolta rifiutato; è un tributo che Dio paga regolarmente alla propria creatura. Do conseguenza, tutto è mutato, perché «l’uomo, allora, non è più una debole creatura, e Dio non è più il Dio onnipotente», o, piuttosto, l’uomo si è fatto «Dio a se medesimo, poiché veramente nostro Dio è colui da cui dipende che evitiamo il male e facciamo il bene» (Les Héxaples).

“A questo modo« ci viene tolto il nostro Dio e ci vien lasciato per divinità l’uomo» dicono i giansenisti. L’uomo si erge contro Dio, e vuol essere libero. (…)

“Ma qual è dunque l’inconcepibile catastrofe che avrebbe d’un tratto sconvolto l’universo cristiano?Causa di tutto è la Bolla Unigenitus. Essa ha «tutto mutato», ha «attaccato tutte le verità della religione cristiana». «Che non si disputi più a Dio  il suo imperio sovrano, la sua onnipotenza sui dolori; che ci si stimi felici di essere stati riscattati dal sangue di Gesù Cristo;  che si ami vivere sotto il santo imperio della sua grazia, e se ne conosca il prezzo, la gratuità, l’efficacia; che si sappia che questa grazia, per la quale passiamo dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, non è altro che l’ispirazione del santo amore. Rimarrà un solo fedele che non gridi anatema alla Bolla? È chiaro che la Bolla Unigenitus è nemica di queste preziose verità, che essa toglie alla Religione le sue più auguste prospettive» (Soanen, Lettres, 8 maggio 1738). Poiché quando Dio viene «spogliato della sua sovrana potenza sull’uomo», che cosa rimane più del cristiano? L’uomo allora »non attende più da Dio la decisione della sua sorte per l’eternità,  l’umiltà è annichilita… La speranza cambia di fondamento» (Les Héxaples). Non dobbiamo più «riporre la nostra fiducia essenzialmente in Dio, ma in noi stessi. La preghiera, l'azione di grazie, i sentimenti d'umiltà, in una parola tutto il culto interiore da noi dovuto a Dio, muta di aspetto. Così le sorti della pietà «si essiccheranno» e «l'umiltà cristiana si convertirà in vana fiducia nelle nostre forze». Divenuto signore assoluto della propria sorte eterna, e indipendente da Dio, l'uomo avrà cessato di essere cristiano.

"Il molinismo è «veramente un nuovo Vangelo, una nuova fede, un nuovo sistema compiuto e coerente di religione». Così «vi sono ormai in seno alla Chiesa cattolica due corpi di dottrine e come due sistemi di religione, diametralmente opposti e assolutamente inconciliabili». È, dicevamo, una lotta fra due Dii, l'antico e il nuovo, che non possono conciliarsi. Il Dio dei Gesuiti, più accogliente e accessibile agli umani, finirà per vincere; ma fino all'ultimo istante i giansenisti gli rifiuteranno obbedienza. Si vorrebbe far loro riconoscere che il nuovo Dio è lo stesso che i cristiani hanno sempre adorato: non vorranno ammetterlo. Il loro Dio era il Signore onnipotente di un universo che governava da signore; il nuovo dio lascia regnare l'uomo al posto suo, e questi è signore in tutto quanto concerne la sua salvezza."

 

Ci si può domandare, se l'analisi del Groethuysen è corretta - e noi pensiamo che, sostanzialmente lo sia - quale sia stato lo scotto pagato dal cristianesimo per la sopravvivenza della sua egemonia, ossia per l'assimilazione, al proprio universo spirituale, della nuova classe borghese. A noi sembra che la posta in gioco fosse molto più alta di quello che, all'epoca, potesse parere ai principali strateghi di quel disegno egemonico, ossia ai Gesuiti. Senza rendersene conto, infatti, essi aprirono la strada a una nuova versione, aggiornata e corretta, dell'eresia pelagiana: ossia all'idea che gli uomini possono salvarsi con le proprie forze, perché le conseguenze del peccato di Adamo ed Eva non hanno coinvolto la natura umana nella sua essenza, né hanno compromesso irrimediabilmente la sua facoltà di scegliere il bene.

Intendiamoci, né i Gesuiti né altri si sono mai spinti ad affermare nulla del genere; pure, il compromesso da essi realizzato fra la concezione tradizionale del cristianesimo e le nuove esigenze della classe borghese finì per condurli, inesorabilmente, lungo quella strada. Né avrebbe potuto essere altrimenti, una volta riconosciuto che la borghesia non poteva e non doveva rinunciare ai propri valori caratteristici, indispensabili per puntellare l'ordine costituito, Chiesa compresa. Infatti, i valori caratteristici della borghesia erano, e sono, la laboriosità, la parsimonia, la sobrietà, la fiducia in sé, l'intraprendenza negli affari, la disponibilità al cambiamento; infine (per usare un termine oggi assai di moda) la "mobilità", ossia la capacità di ricominciare daccapo, in qualunque luogo e circostanza, la lotta per la propria affermazione sociale.

Si tratta dei tipici valori del self-made-man; dei valori esaltati da Daniel De Foe nel suo celebre Robinson Crusoe. L'uomo che si fa da sé, cioè il borghese, è, per definizione, l'uomo spiritualmente autosufficiente; l'uomo che si fa norma a se stesso; l'uomo che trova in sé stesso le risorse per  conquistare quel "posto al sole" che ritiene gli spetti, in virtù delle sue capacità d'intelligenza, lavoro e creatività. Di più: egli è l'uomo che sottomette la natura, che piega il mondo ai propri disegni di autoaffermazione; che non accetta la realtà così com'è, ma vuole modificarla e riadattarla alle proprie esigenze di produzione e di profitto.

L'uomo religioso, nel senso cristiano del termine, si era delineato, invece, sulla base di valori completamente diversi: la coscienza della propria fragilità; la fiducia incondizionata in Dio; il perseguimento di un ordine morale che può non coincidere con la propria realizzazione sociale e con la propria felicità individuale; lo spirito di sacrificio in un'ottica trascendente; la risposta ad una chiamata che mira non alla realizzazione di ambizioni individuali, ma all'instaurazione di una Civitas terrena che è solo provvisoria e destinata a scomparire. L'uomo cristiano è, pertanto, l'uomo che si considera un perenne pellegrino, un homo viator, che non pensa affatto a plasmare il mondo, ma a sbarazzarsi di quanto è superfluo per conquistare la perfezione spirituale. Non c'è alcuna ragione per voler sottomettere la natura o per ergersi a suo dominatore, poiché essa è l'espressione di una suprema armonia voluta dal Creatore e della quale noi pure siamo chiamati a partecipare, senza insuperbire per il posto privilegiato che ci è stato assegnato in essa.

Insomma, alla base della filosofia cristiana sta il senso di una inadeguatezza strutturale dell'uomo, che solo in Dio trova il suo necessario completamento e la propria autentica realizzazione; mentre alla base della filosofia borghese sta l'orgogliosa consapevolezza della capacità di instaurare un regnunm hominis che, pur concedendo ancora l'omaggio formale a una trascendenza eticamente intesa, in effetti avoca a sé tutta la sfera dell'immanenza, sulla quale si riserva di agire in base a norme e obiettivi che non conoscono altra legge se non quella dell'utile, dell'efficace, del conveniente.

 

C'era, però - osserva Groethuysen, ancora una difficoltà da superare, prima di poter assistere al trionfo dello spirito borghese, e sia pure in un'ottica di ossequio formale verso la religione: il timore della morte. Per lo storico olandese, il timore della morte era stato, per secoli, lo strumento principale di cui la Chiesa si era servita per affermare la propria egemonia spirituale nella società europea. Ora, questa idea contrastava irrimediabilmente con il senso baldanzoso di fiducia in sé, di forza e quasi di onnipotenza, che contraddistingue lo spirito borghese, e ciò specialmente al tempo in cui la borghesia era una classe giovane e piena di fervore.

Egli ha descritto tale aspetto della trasformazione culturale del Sei e Settecento in alcune pagine particolarmente acute e brillanti della sua opera, delle quali riportiamo qui qualche rapido stralcio (Op. cit., pp. 90-92):

 

"«Nulla assicura e prova meglio la sovranità di Dio e il suo dominio s di noi come la morte». La vita si afferma e vuole espandersi, la creatura si eleva e cresce; ma nulla può resistere alla morte. «Essa spezza, schiaccia, distrugge, annienta ogni cosa: grandezza., potenza, elevazione, re, imperatori,, sovrani, grandi e piccoli della terra, nessuno può difendersene». «Mio Dio! Adoro il braccio sovrano che tutto distrugge d'un solo colpo» (Bossuet).

"La morte è la sfida suprema che la Chiesa lancia al mondo il suo grido di guerra, il suo canto trionfale. Essa si sente forte, è sicura della vittoria, perché ha dalla sua la morte, e la morte è più forte della vita."

"Davanti a «questa presenza immutabile dell'eternità sempre ferma, sempre permanente, che cancella nell'infinità della sua durata tutte le differenze temporali» (Nicole), e che è soltanto in Dio, o piuttosto è Dio stesso, la creatura riconosce la vanità della vita. In «quell'ultimo istante, nel quale tutt'il resto della nostra vita si dimostra illusine ed errore» (Bossuet), l'uomo sente la sua piccolezza nell'immensità del tempo.

"Ma se la vita è un'illusione, la morte non è anch'essa tale: l'estrema illusione di uno spirito ancor mal desto, che si aggrappa alla vita? Dinanzi alla visone dell'eterno e dell'infinito, non ci avverrà di arestarci e pensare alla morte senza vederci morire? Il cristiano non è di questo avviso. Le visioni dell'eternità e dell'infinito non potranno essere un fine ultimo, fargli dimenticare il giorno in cui anche lui morrà, in cui si vedrà nelle stesse condizioni in cui saremo, «quando non avremo più che un'ora o due a vivere e ci diremo: Fra due ore, il tempo per me non esisterà» (Nicole). Egli si riprenderà dinanzi all'annientamento del suo essere, e mai si sentirà maggiormente se stesso come quando tutto gli dirà la sua piccolezza e il poco posto che occupa nel mondo manifesterà così una ultima volta, prima di scomparire, tutto l'interesse che ha per se stesso. Temerà la morte e, pensando a quel che lo attende,  sostituirà agli spazi infiniti e alla visone sublime dell'eternità l'immagine del moribondo che non vuol morire, e trema dinanzi all'ignoto.

"Bisogna che sia così, perché il cristiano, in un universo in cui tutto trapassa, sia sempre ricondotto a se medesimo; perché, davanti all'annullamento di tutte le cose, non perda mai di vista la propria salvezza. Bisogna che abbia sempre presente la sua morte, la sua eternità; che la visione della morte e dell'eternità non gli faccia mai dimenticare l'io muoio: che non perda mai di vista l'ora terribile in cui si sentirà morire. Solo a questo modo sarà cristiano."

 

Groethuysen, evidentemente, nel tema del "trionfo della morte", che - in effetti - è un trema centrale della spiritualità (e anche dell'arte figurativa) medioevale, scambia la forma per la sostanza. Perché,  nella visione cristiana, la centralità della morte non è fine a se stessa e non ha affatto lo scopo di ribadire, paradossalmente, l'attaccamento alla vita; bensì costituisce un memento della vita vera, che attende ogni vivente dopo la soglia della morte.

Inoltre, è molto dubbio che l'avvento dello spirito borghese abbia emancipato l'umanità dal terrore della morte. È vero anzi il contrario, perché, respingendo la morte nel regno dell'indicibile - al punto che è considerato addirittura sconveniente nominarla in una conversazione mondana - non ha fatto altro che accrescerne la nascosta carica distruttiva.

Nella società borghese, la morte è la grande assente: si parla di tutto, tranne che della morte. Si esita perfino a dire che una certa persona è morta e si preferisce usare espressioni edulcorate come "scomparsa", "mancata" e simili. Werner Fuchs ha scritto un'opera esemplare al riguardo: Le immagini della morte nella società contemporanea, dalla quale emerge tutta la segreta angoscia con cui si vive, nel mondo moderno, l'evento della morte, inesprimibile e perennemente rimosso: a cominciare dal fatto che essa è divenuta invisibile, perché il morituro viene tempestivamente separato dalle cose e dalle persone care, e condotto a spegnersi, solo, in una anonima stanza d'ospedale.

 

Due osservazioni conclusive vorremmo formulare, giunti a questo punto.

La prima è che lo spirito borghese, a uno sguardo superficiale, può apparire come la quintessenza dell'ottimismo antropologico, per via della sua fiducia dichiarata nelle forze e risorse umane; mentre lo spirito cristiano può apparire come la quintessenza del pessimismo antropologico, nel senso che vede l'umanità, agostinianamente, come una "massa dannata" che nulla può fare per la propria salvezza, se non rimettersi interamente alla misericordia divina.

Ma si tratta, appunto, di un'impressione superficiale. Non appena si spinge lo sguardo un po' in profondità, ci si rende conto che lo spirito borghese, per la sua adorazione di ciò che è transitorio e, in particolare, di ciò che ha un valore economico, è non solo, nella sua essenza, nichilista, ma anche, nel senso di Eric Fromm, necrofilo: non ama la vita, ma la sua contraffazione. Viceversa lo spirito cristiano è, nella sua essenza, umanistico e biofilo: umanistico, perché tende a sfrondare la dimensione umana di tutto ciò che non le appartiene, restituendola alla sua purezza originaria; biofilo perché, ponendo il valore della persona infinitamente al di sopra di quello delle cose, ribadisce il primato della dimensione dell'essere su quella dell'avere.

Di conseguenza, sbaglierebbe di grosso chi affermasse che l'avvento della borghesia ha comportato  l'affermazione di una visione più ottimistica e più umanistica, liberando la società dal peso di un pessimismo di origine metafisica. Il passaggio alla modernità segna, al contrario, l'avvento di un orizzonte spirituale sostanzialmente utilitaristico e materialistico, che, storicamente, è culminato  nella minaccia di olocausto nucleare, sotto la quale tuttora viviamo.

La seconda riflessione è che ci si può chiedere fino a che punto lo spirito cristiano sia riuscito ad assimilare lo spirito borghese, e sino a che punto non si sia verificato esattamente il fenomeno opposto. Ce lo eravamo già domandato, in un saggio dedicato al tramonto del paganesimo (cfr. Francesco Lamendola, La battaglia del Frigido e la fine del paganesimo), a proposito del rapporto reciproco fra platonismo e cristianesimo: è stato il cristianesimo a platonizzarsi, o il platonismo a cristianizzarsi? E ce lo domandiamo anche adesso: è stato il cristianesimo che si è  imborghesito, o la borghesia che si è  cristianizzata?

Sono domande difficili, che non ammettono una risposta univoca.

Probabilmente sono accadute entrambe le cose.

Sicché, a partire dalle due grandi rivoluzioni della borghesia - quella culturale, la cosiddetta rivoluzione "scientifica", e quella tecnico-produttiva, ossia la rivoluzione industriale - la civiltà occidentale  è venuta via via elaborando una Weltanschauung mista, che ha in sé tanto elementi di quella cristiana, come di quella borghese, mescolati in diversa proporzione, a seconda dei tempi e dei luoghi.

Laddove è chiaro, per noi, che l'elemento duraturo, perché umanistico e trascendente, è quello propriamente cristiano, centrato sulla fratellanza, sull'amore universale e sulla realizzazione della Civitas Dei; mentre l'elemento transitorio, perché brutalmente immanentistico e anti-umanistico, è quello propriamente borghese, centrato sulla concorrenza, sul possesso, sul bellum omnium contra omnes.

Staremo dunque a vedere quale dei due elementi finirà per prevalere, determinando l'ulteriore evoluzione spirituale della nostra civiltà.