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Della verità, della tortura, della pubblica opinione e di altre inquisizioni

di Franco Cardini - 03/03/2008

 

Una curiosa coincidenza, passata se non erro inosservata, ha voluto che la seconda edizione del fin troppo discusso libro di Ariel Toaff, Pasque di sangue (Il Mulino), abbia visto la luce alla fine del febbraio del 2008, quasi contemporaneamente allo scader di un anniversario caduto nell’oblio. Il settantacinquesimo da quel fatale 27 febbraio 1933 nel quale il palazzo del Reichstag, a Berlino, prese fuoco: un crimine il reo confesso del quale venne immediatamente acciuffato e consegnato alla non proprio irreprensibile giustizia del nuovo governo tedesco. Due storie molto differenti tra loro ed evidentemente prive del minimo legame, quella raccontata dal Toaff e quella svoltasi sotto i cieli berlinesi di quel tutto sommato non granche lontano febbraio? E’ ancora fecondo, il ventre che in qualche modo le ha partorite entrambe? Comunque, due storie di delitti, di arresti, di torture, di confessioni, di credibilita di esse e di credulita o incredulita dei contemporanei e dei posteri.
Sullo sfondo, si staglia un’annosa, anzi millenaria questione: che noialtri occidentali ameremmo fosse stata definitivamente risolta fin dal 1764, da quando a Livorno fu stampato quell’opuscolo dell’avvocato Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, che un quarto di secolo piu tardi indusse Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena, granduca di Toscana, ad abolire – primo in Europa – tortura giudiziaria e pena di morte nel suo stato.
La tortura giudiziaria, certo, non l’aveva “inventata l’inquisizione”, contrariamente a quanto qualcuno continua caparbio a dire. Ne era una faccenda di sadici feroci (per quanto tra i giudici qualcuno poteva anche essercene). Era un’antica pratica, che riposava su una base etico-antropologica in eta premoderna sostenibile e credibile, ma anche allora chissa quanto verosimile - e oggi del tutto insostenibile, immonda e aberrante -: che cioe l’innocente forte e sicuro della sua buona coscienza avrebbe resistito al dolore. Ma fin dall’antichita c’era chi ne dubitava e l’avversava: primo tra tutti il piu grande giurista del II-III sec. d.C., Ulpiano. Il fatto e che il Corpus Iuris di Giustiniano ne aveva legittimato l’uso: evidentemente sottoponendolo a una regolamentazione rigorosa, per quanto ci si chieda quando e quanto osservata. In linea di principio, anche se cio oggi ci fa amaramente sorridere, la tortura era uno strumento al quale si ricorreva in caso d’insufficienza di prove e, newlle intenzioni del legislatore, perfino pro reo. Tortura garantista: scandalo nello scandalo.
Ma la questione delle confessioni estorte sotto tortura e della loro validita e credibilita e straordinariamente complessa. Ariel Toaff la ripropone nel suo libro, mostrandone alcuni aspetti con argomenti a mio personale avviso interessanti e da non respingersi pregiudizialmente. Certo, in un deprecabile passato le confessioni estorte con la tortura passavano tranquillamente agli atti, e con un abile escamotage giuridico-formale venivano magari definite “spontanee”. I poveri ebrei accusati d’infanticidio rituale subirono al riguardo esperienze analoghe a personaggi famosi come, ad esempio, Tommaso Campanella. Ma la fiducia un tempo nutrita circa le confessioni estorte si e andata ormai rovesciando nel suo contrario. E oggi si tende comunemente a pensare che una confessione sotto tortura non possa essere veritiera. O meglio, come piu finemente e stato osservato da illustri studiosi intervenuti nel dibattito sul libro di Toaff, le confessioni estorte con la tortura riflettono i pregiudizi e i “teoremi” dei giudici. Lasciamo pure da parte la questione – pur importante - dei “framnmenti di verita”, o quanto meno della cultura degli inquisiti, che potrebbero filtrare attraverso le confessioni e conferire loro una qualche almeno parziale attendibilita. Il punto e che, ohime, dalla considerazione delle fonti e dallo status quaestionis del dibattito fra gli specialisti si sarebbe tentati di giungere a una desolata conclusione pirronistica: che cioe la confessione estorta sotto tortura non puo mai, di per se, venir considerata ne veritiera, ne menzognera. E se i giudici obbligavano l’inquisito a confessare sotto tortura la verita ch’essi volevano, come probabilmente avveniva sempre o quasi, cio non e detto che talvolta non ci azzeccassero. E allora, che fare? Dichiarare inutili certe maledette scartoffie processuali, anche se sappiamo che, sotto altri aspetti – per esempio quelli antropologici – esse possono essere preziose? Certamente no: sono comunque fonti straordinarie. Il punto e che ogni caso va giudicato iuxta sua propria principia. Con discrezione, con rigore filologico, con prudenza, con pazienza e senza pregiudizi.
Il fatto e che, se non tra gli studiosi, nell’opinione pubblica cio non accade. A quanto sembra, ancor oggi nel beato XXI secolo, vi sono inquisizioni buone e inquisizioni cattive; confessioni aprioristicamente incredibili e confessioni non meno aprioristicamente accettate; e pertanto, anche se il dirlo ripugna, torture “cattive”, ma anche torture “buone”.
La cosa v’indigna? Ragioniamo. All’indomani dell’incendio del Reichstag, in quel febbraio del 1933, fu acchiappato quasi immediatamente uno scalcagnato comunista olandese, tale Van der Lubbe. Che naturalmente – per paura, sotto la tortura o perche era un mitomane? – confesso tutto e subito. L’episodio servi a Hitler a sospendere le residue garanzie costituzionali, ma il processo intentato contro i leaders comunisti, a cominciare da Georgi Dimitrov, e che avrebbe dovuto dimostrare che il delitto era frutto di un vasto complotto, si risolse in un fiasco. Solo il povero Van der Lubbe fu condannato. Era reo confesso, e sosteneva d’aver fatto tutto da solo: ma alla sua confessione non credette nessuno. Ne i nazisti, convinto che non fosse un criminale isolato bensiun semplice esecutore ; ne il resto del mondo, persuaso che fosse un provocatore oppure il capro espiatorio della trappola architettata da Hitler per criminalizzare e mettere a tacere le opposizioni.
Cambiamo scena. Quasi nessuno ormai si ricorda piu di Khalid Shaikh Mohammad. Segnato a dito come la “mente” degli attentati dell’11 settembre 2001, fu arrestato a Rawalpindi nel marzo del 2003 in circostanze a dir poco confuse e contraddittorie: nonostante i suoi catturatori e inquisitori appartenessero alla prima democrazia del mondo, mai nulla di sicuro si e accertato sulla sua identita e sulle sue autentiche responsabilita. Quel che sappiamo su di lui e frutto esclusivo d’informazioni ottenute attraverso fonti mediatiche statunitensi tipo MSNBC o ABCNews. Non si sa di sicuro nemmeno che faccia abbia: circolano “sue” foto che evidentemente ritraggono persone differenti. Dicono che abbia confessato “spontaneamente”, in quel modello di civile soggiorno e di trasparenza democratica ch’e il carcere di Guantanamo. Si e dichiarato responsabile di una sfilza impressionante di attentati, riusciti o no. A differenza del povero Van der Lubbe, fatto immediatamente sparire e alla confessione del quale per principio nessuno credette, il criminale Khalid Shaikh ha confessato di tutto di piu, tutti gli hanno immediatamente creduto e chiunque si azzardi a pretendere di rivedere le carte processuali che lo riguardano o ad azzardare la solita timida domanda del cui prodest? viene additato al pubblico ludibrio come “revisionista” e “filoterrorista”.
Quid est Veritas?, chiese tempo fa uno scafato procuratore imperiale romano che aver pur imparato qualcosa dalla lezione della “Nuova Stoa” a un oscuro agitatore galileo: che non rispose. La nostra opinione pubblica e i suoi opinion makers, invece, che cos’e la verita lo sanno benissimo e senza fallo. E rispondono subito. Innocente bugiardo Van der Lubbe, criminale veritiero Khalid Shaikh. E tortura iniqua levatrice di menzogna nell’un caso, Maestra di Verita nell’altro.