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L’ondata delle nuove «Piccole patrie»

di Edoardo Castagna - 03/03/2008


 
B
alcanizzazione non è, a dispetto della storia degli ultimi anni, un termine nuovo, nella lingua italiana.
  L’idea che in Europa sia attiva una tendenza alla frammentazione in mille patrie, anche minuscole, è nell’aria da ormai un secolo e mezzo. Anche così si è manifestato il nazionalismo, esploso durante l’Ottocento ma attivo – anche attraverso il suo gemello 'positivo', il patriottismo – ancora ai giorni nostri. Di fatto, la mappa politica dell’Europa di oggi è frutto sia di processi di unificazione, come quelli realizzati da Italia e Germania, sia di frantumazione: dell’Impero asburgico, di quello ottomano e, in anni recenti, dell’Unione sovietica. I Balcani, regione a lungo soggetta al dominio imperiale di Vienna o di Istanbul, rappresentano l’acme del processo di frammentazione, tanto da lasciare il proprio nome all’intero fenomeno. Del quale il Kosovo di questi giorni non è che l’ultimo (forse) capitolo.
  Ma è l’intera Europa a essere agitata, da qualche anno in qua, da un ritorno di fiamma dei nazionalismi 'regionali', dagli estremi settentrionali e occidentali giù giù fino ai fluidi confini con la turbolenta area mediorientale. In un processo duplice e apparentemente paradossale, la voglia di nuove, esclusive «piccole patrie» si fa più acuta proprio mentre il Vecchio continente sta faticosamente cercando di imboccare la strada dell’unificazione.
  Il problema è definire la legittimità di queste pulsioni e valutare i rischi che implicano. Casi come quello della Cecoslovacchia, sciolta di comune accordo tra cechi e slovacchi in un mirabile esempio di civiltà, o come quello di Serbia e Montenegro, sono purtroppo l’eccezione. La norma, quando un nazionalismo salta il fossato e decide di iscriversi al circolo dei «grandi», degli Stati veri e propri, è quella che hanno offerto al nostro sguardo Croazia, Bosnia e Serbia negli anni Novanta e il Kosovo ora: feroci scontri militari, conflitti internazionali, antichi «oppressori» (i serbi, nell’ultimo caso) che si ritrovano a essere «oppressi».
  Oggi Europa e dintorni contano una dozzina di nazionalismi, più o meno accesi, che aspirano alla piena indipendenza.
  Tutti ugualmente legittimi – o tutti ugualmente illegittimi: dipende soltanto dalla prospettiva con la quale ci si accosta al problema.
  Nei fatti, non esiste alcun criterio per stabilire che cosa sia una nazione e che cosa no, e quindi per distinguere le istanze lecite da quelle che non lo sono. L’antropologo statunitense Benedict Anderson ha coniato una fortunata ed efficace definizione: la nazione è una «comunità immaginata». Ovvero, non esiste alcun criterio oggettivo che consenta di descriverla; un certo gruppo umano è una nazione quanto
sente di essere tale, quando si immagina di essere un’unità autonoma e autosufficiente. A noi italiani sembra scontato che la nazione coincida con l’area in cui si parla una stessa lingua, perché questo è il tratto distintivo – e oggettivo – della nostra «comunità immaginata». Ma basta dare un’occhiata al di là dei nostri confini per trovare le smentite: nell’Austria germanofona, che mai vorrebbe essere confusa con la Germania; nella Svizzera multi­linguistica; nella Francia che raccoglie solo una parte dell’ampia porzione del mondo francofono.
C
ome ha mostrato un altro antropologo di scuola anglosassone, Walker Connor, le nazioni si appigliano sempre, per definire la propria identità a criteri «oggettivi», ma che come tali funzionano soltanto nel momento in cui occorre opporsi a un’altra nazione: quella limitrofa, o quella egemone nello Stato da cui ci si vorrebbe svincolare. I croati insistono sul loro essere cattolici quando vogliono differenziarsi da quei serbi con i quali hanno in comune la lingua (salvo scriverla i primi in caratteri latini, i secondi in cirillico); ma per non confondersi con gli altri loro vicini, i cattolici sloveni e ungheresi, allora battono proprio il tasto della differenza linguistica. La Svizzera non può contare né su omogeneità linguistiche, né religiose: e allora lavora sul piano della storia e delle istituzioni, facendo coincidere la propria identità con la secolare tradizione di indipendenza dai vicini «imperi» e con l’originale formula politica fondata sulla democrazia diretta. Lingua, religione, storia, tradizioni, sono tutti elementi «oggettivi» che, visti dall’interno, funzionano, tanto da apparire perfino scontati. Eppure, appena lo sguardo si allarga, è difficile considerarli poco più che pretesti.
  Il cammino dell’Unione europea, lungo ormai più di cinquant’anni, sembrava aver trovato – nonostante le tante resistenze particolari – una sintesi accettabile per le identità nazionali. Invece, nuovi e vecchi nazionalismi sono tornati a emergere proprio nel momento in cui l’integrazione continentale ha iniziato a farsi più forte, complice anche l’instabilità della porzione orientale appena svincolata dal giogo sovietico. Il fenomeno si ripete tanto all’interno dell’Unione, tanto in quelle aree – i Balcani, appunto – che sanno che prima o poi finiranno per entrarvi. Oppure, esattamente con gli stessi meccanismi, nell’altro grande collettore presente sul suolo europeo, quella Russia post­sovietica che al suo interno, soprattutto nel Caucaso, include ancora numerosi aspiranti alla propria piccola patria. Il fenomeno, a ben guardare, non è poi così paradossale, e va di pari passo con la contemporanea affermazione del regionalismo. In Italia abbiamo sotto gli occhi in Italia il ruolo giocato dalla voglia di decentramento, dall’affermazione delle identità locali, dall’impegno per la tutela di storia e tradizioni particolari; il tutto si ripete identico nell’intera Europa, dalla Spagna all’Ucraina, dalla Francia alla Germania. E a volte sfocia in veri e propri separatismi, quando le condizioni lo consentono (ovvero, quando esiste un qualche appiglio «oggettivo» cui aggrapparsi). E poco importa se Bruxelles ha – saggiamente – deciso che le stellette della bandiera europea rimarranno dodici, indipendentemente dal numero dei Paesi membri.
  Tanta prudenza non sembra basti a scoraggiare gli aspiranti alla propria nuova, piccola patria.
 




L’«IKURRIÑA» (LA BANDIERA BASCA) SVENTOLATA A SAN SEBASTIÁN, DURANTE UN CORTEO INDIPENDENTISTAM