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Tre interpretazioni del politeismo nella Scuola italiana di Storia delle Religioni

di Gianfranco Bertagni - 12/01/2006

Fonte: gianfrancobertagni.it

 

 

 

Le origini nell’Illuminismo: Voltaire, Hume, Rousseau.

 

Dal “Dizionario filosofico” di Voltaire: “Oso credere che si è cominciato dapprima a conoscere un solo dio, e che poi la debolezza umana ne abbia adottati parecchi”

Da “La storia naturale della religione” di Hume: “Il politeismo e l’idolatria furono, e debbono esserlo stato necessariamente, la prima e la più antica religione dell’umanità”.

Dall’ “Emilio” di Rousseau: “Il politeismo è stata la loro prima religione e l’idolatria il loro primo culto”.

 

La questione secondo Comte (metà 800) e Tylor (1910).

 

I tre gradi dell’evoluzione religiosa secondo Comte: feticismo, politeismo, monoteismo.

Tylor sostituì ‘feticismo’ con ‘animismo’.

 

La reazione: Andrew Lang (fine 800) e Wilhelm Schmidt (1954-1955).

 

Lang, opponendosi a Tylor,  in “The making of religion” segnala la nozione di esseri supremi in varie popolazioni primitive.

Torna così la vecchia dottrina del monoteismo primordiale, ripresa in forma scientifica sulla base dei dati dell’etnologia religiosa elaborati da padre W. Schmidt.

 

La scuola italiana: Pettazzoni, Brelich, Sabbatucci.

Pettazzoni: Il politeismo è una formazione religiosa relativamente tarda, rappresentativa di una fase assai avanzata della religione. Le forme religiose più elementari (animismo, polidemonismo, totemismo), il divino impersonale (mana) diffuso nella natura (naturismo) oppure sviluppato nell’azione sacrale (dinamismo magico-rituale), variamente concorrono a formare quel presupposto elementare del politeismo che è l’idea e la figura di un dio, le cui caratteristiche sono un nome proprio e un culto prestato da una comunità. La formazione di un pantheon dipende molto spesso dalla unificazione politica di varie comunità: più che ragioni universali, sono qui in gioco ragioni storiche e contingenti.

Brelich: il dio politeistico è morfologicamente diverso dal dio monoteistico, e politeistiche vanno chiamate solo quelle religioni in cui gli esseri venerati possono chiamarsi ‘dèi’, e non in cui si creda semplicemente in una pluralità di esseri personali extra-umani.

Caratteri delle divinità politeistiche: immortali, capaci di intervenire nelle vicende terrene, con personalità complesse (antropomorfe), differenti tra loro nei caratteri, funzioni, sfera d’attività, ma tutte inserite in un organico mondo divino (pantheon) mediante una rete di rapporti.

Il politeismo è la forma di religione caratteristica delle civiltà superiori (quelle con scrittura; con tecniche agricole come l’irrigazione artificiale, dighe, concimazione, ecc…; con abitazioni in materiale duraturo; con l’esistenza di città; con una estesa specializzazione nelle attività umane; con una distinzione in classi sociali e un ordinamento gerarchico). Civiltà superiori sono quella mesopotamica (IV millennio a.C.), quella egiziana, quella di Mohenjo Daro (in India), quella cretese, quella greca, quella romana, celta, germanica, quella cinese, quella giapponese, quella precolombiana.

Perché si forma il politeismo? L’uomo si stacca dalla natura, che diventa un’alterità minacciosa; continua a distaccarsi e l’alterità si fa sempre più minacciosa. Allora l’uomo pone un alt al distacco e alla minaccia: trova un modo per svilupparsi culturalmente senza distaccarsi oltre dalla natura. “Il dinamismo del distacco ha ceduto all’equilibrio di una distanza fissa”. Il che si è ottenuto oggettivando la natura in forme divine. La nuova distanza (quella tra l’uomo e dio), in quanto fissata e immutabile, permette una comunicazione continua con la natura, che diventa comunicazione tra gli uomini e gli dei, cioè il culto.

La pluralità degli dei e la loro differenziazione corrispondono alla molteplicità degli interessi e bisogni di una società articolata; l’organizzazione in un pantheon risponde al bisogno, tra i vari componenti della società per la loro sussistenza, di un’organizzazione statale.

Politeistiche attualmente sono le religioni shinto, induismo, e di rari popoli politeistici primitivi (Costa di Guinea, Polinesia).

Il dio monoteista ha alcuni elementi comuni con quello politeista: per es., la capacità di intervenire nelle vicende del mondo, l’incorporeità, la potenza e scienza sovraumane, ecc.. Ma ci sono anche differenze: gli dei politeisti non sono onnipotenti, onniscienti (si possono ingannare tra loro), non sono perfetti (altrimenti sarebbero uguali), nascono e in alcuni rari casi muoiono.

C’è un legame stretto tra politeismo e società: la società politeista organizza e articola tutta la realtà che sfugge al controllo e con cui tuttavia le preme di entrare in rapporto; le divinità sono questa realtà, mentre il dio unico è al di fuori della realtà che egli ha creata. Il dio unico è trascendente.

Caratteri personali delle divinità: perché solo con entità personali si può entrare in rapporto.

Tesi monogenetica del politeismo.

Sabbatucci: L’unico vero politeismo è quello sumerico, dal quale derivano poi tutti gli altri. Sono i sumeri ad avere inventato gli dèi. Poi questa invenzione si è diffusa, formando i politeismi classici (greco e romano). Per quanto riguarda gli altri politeismi, in realtà non sono dei veri e propri politeismi, trattandosi di formazioni religiose che per le nostre abitudini mentali recepiamo come politeismi (ricordiamo che ci fu un tempo in cui ogni religione non monoteistica veniva definita politeistica). Sabbatucci invita a rinunciare ad attribuire a orizzonti culturali altri le nostre categorie.

Nel 98 è uscita la sua opera fondamentale sul politeismo, in 3 volumi. Il primo dedicato al politeismo vero e proprio (mesopotamico, greco e romano); il secondo dedicato alle formazioni religiose considerate politeistiche, ma che in realtà non lo sono (quelle germaniche, cinesi, giapponesi); il terzo che è l’indice e la bibliografia.

Il percorso della scuola romana: Pettazzoni (più attenzione al monoteismo, quasi nulla sul politeismo), Brelich (attenzione al politeismo, un corso e un articolo dedicati ad esso), Sabbatucci (approfondimento sulla linea di Brelich).

Prendiamo in esame il politeismo romano, così come è interpretato da Sabbatucci. A Roma, diversamente che in Grecia, l’oggetto del pensiero sistematico non è più il mondo naturale – fondato dall’operato di entità sovraumane, ma è lo Stato che si rende autonomo (contrapponendosi al ‘religioso’): esso vede come attori i cives, il cui prodotto è la giurisprudenza, su cui appunto si fonda lo Stato. Così una realtà storica (un prodotto umano) prende il posto del ‘naturale’: gli stessi dèi politeistici sono, a Roma, proprio in quanto definenti e garanti di questo prodotto culturale.

Il politeismo dunque raggiunge pieno sviluppo in Grecia, per poi morire a Roma. Ovviamente il colpo definitivo è inferto dal Cristianesimo, la cui visione salvifica allontana ulteriormente i credenti della Città celeste dal mondo (naturale) e dalle entità ad esso collegate, in un processo oppositivo e rivoluzionario. Lo Stato romano infatti era avviato nella direzione della riduzione progressiva dell’extra-umano all’umano, mentre la costituzione di una comunità ecclesiale ecumenica va nella direzione della riduzione del mondano alla logica della trascendenza. Due visioni radicalmente opposte: tanto che, per rinnovarsi in senso cristiano, l’Urbe ha dovuto accettare – con Costantino – di essere trasferita in Oriente, perché la Roma d’Occidente divenisse la Casa di Pietro.

L’orizzonte rituale romano è morto proprio quando da strumento per pensare lo Stato (o meglio per pensare quella realtà civica) è stato ridotto a religione dei pagani. Ma prima del Cristianesimo e dello stesso statalismo romano il politeismo aveva dovuto sostenere nel mondo mediterraneo un altro assalto: quello portato dal misticismo, che non si interessa del come rapportare l’uomo al mondo, bensì del come uscirne attraverso una strategia salvifica.

Relativamente a quelle forme religiose che crediamo politeiste, ma che in realtà non lo sono, Sabbatucci si chiede: come mai l’Occidente legge l’‘altro’ in una chiave – quella politeistica – la cui specificità va oltre una struttura genericamente ‘non monoteistica’? Il fatto è che, secondo Sabbatucci, la cultura occidentale è fondamentalmente ‘personificante’ e quindi attribuisce agli altri orizzonti i propri processi di personificazione e trasforma i nomi in numi.