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Risveglio al Prozac

di Mark Epstein - 04/03/2008

prozac detersivo.jpg“Nonostante dieci anni di pratica spirituale e cinque di psicoterapia, Leslie era ancora infelice. Incapace di controllare la frustrazione quando avvertiva un rifiuto, si chiudeva in sé piena di rabbia, mangiava fino a sentirsi male e si metteva a letto. Quando il suo terapista le consigliò di prendere l’antidepressivo Prozac, si sentì offesa, pensando che una simile azione sarebbe andata contro i suoi precetti buddisti.”

Mark Epstein è praticante buddista, psichiatra e autore di diversi libri sul buddismo e la psicologia. In questo articolo costruisce un ponte tra i mondi generalmente distanti della meditazione e della pratica psichiatrica.

I farmaci e la pratica

Nonostante dieci anni di pratica spirituale e cinque di psicoterapia, Leslie era ancora infelice. A chi la conosceva superficialmente non appariva depressa, ma per gli amici intimi e le persone che amava aveva un carattere difficilissimo. Soggetta a minacciosi attacchi d’ira quando si sentiva anche minimamente trascurata, Leslie si era alienata la maggior parte delle persone che le erano state vicine durante la vita. Incapace di controllare la frustrazione quando avvertiva un rifiuto, si chiudeva in sé piena di rabbia, mangiava fino a sentirsi male e si metteva a letto. Quando il suo terapista le consigliò di prendere l’antidepressivo Prozac, si sentì offesa, pensando che una simile azione sarebbe andata contro i suoi precetti buddisti.

Negli antichi testi buddisti si racconta come il re di Kosala dicesse al Buddha che, a differenza dei seguaci delle altre religioni, dall’aspetto macilento, rude, pallido ed emaciato, i discepoli del Buddha sembravano “gioiosi ed esultanti, giubilanti ed euforici, felici della vita spirituale, dalle facoltà soddisfatte, liberi dall’ansia, sereni, tranquilli e con la mente di una gazzella”. L’idea che gli insegnamenti del Buddha debbano provocare uno stato mentale altrettanto piacevole è ancora molto diffusa negli ambienti buddisti di oggi.

Per molte persone, la meditazione buddista ha tutto ciò che occorre per essere una psicoterapia alternativa, compresa l’aspettativa che una pratica intensa deve riuscire a trasformare qualsiasi esperienza emotiva sgradevole. Ma la verità non detta è che molti studenti avanzati del dharma, come Leslie, hanno scoperto che sentimenti inabilitanti di depressione, agitazione o ansia resistono anche a un lungo periodo di pratica buddista. Questa angoscia è spesso aggravata da un senso di colpa riguardo la persistenza della depressione, oltre che dalla sensazione di aver “fallito” come studenti del dharma.

Tale situazione è analoga a quella di un seguace della medicina naturale che – nonostante i cibi naturali, gli esercizi, la meditazione, le erbe e le vitamine – si ammalasse di cancro. Come ha detto Treya Wilber in un articolo scritto prima della sua scomparsa prematura dovuta a un cancro al seno, l’idea che dovremmo assumerci la responsabilità di tutte le nostre malattie ha i suoi limiti.

«Perché hai scelto di darti il cancro?» è la domanda che molti amici “New Age” le rivolsero, provocando in lei sensi di colpa e recriminazioni simili a quelli che spesso provano gli studenti del dharma malati di depressione. Amici più sensibili le si avvicinarono con la domanda leggermente meno sgradevole: «In che modo hai intenzione di usare questo cancro?». Una domanda che, secondo le sue parole, la fece sentire “investita di potere, sostenuta e sfidata in modo positivo”.

In presenza di una malattia fisica, forse, è un po’ più facile realizzare questo cambiamento; con una malattia mentale, l’identificazione è sovente così grande che è estremamente difficile riuscire a creare un distacco, vedendola come un sintomo di una malattia curabile anziché come un’evocazione della condizione umana.

Naturalmente, la Prima Nobile Verità sostiene l’universalità della dukkha, della sofferenza o, per usare una traduzione migliore, dell’inappagamento universale. La disperazione della depressione, il dolore dell’ansia o il disagio della disforia (depressione leggera) sono semplici manifestazioni della dukkha, o facciamo torto a noi stessi e al dharma aspettandoci che qualsiasi tipo di dolore mentale si dissolva una volta divenuto oggetto di consapevolezza meditativa?

La grande forza del buddismo sta nell’affermazione secondo cui tutti i contenuti della mente nevrotica possono trasformarsi in cibo per l’illuminazione, e la liberazione della mente è possibile senza la risoluzione di tutte le sue nevrosi. Questo punto di vista provoca un sollievo immediato in molti occidentali, che così si sentono accettati dai loro insegnanti del dharma per ciò che sono. Inoltre, l’accettazione e l’amore incondizionati provocano una gratitudine e un apprezzamento profondi.

Questo è un contributo inestimabile della psicologia buddista: la capacità di trasformare quello che spesso è un punto morto nella psicoterapia, cioè quando il nucleo nevrotico è stato portato alla luce, ma non si riesce a fare nulla per sradicarlo.

La situazione di Eden esemplifica tutto ciò. Scrittrice, dall’età di ventinove anni ella cominciò a provare sensazioni opprimenti di vuoto o vacuità. Avendo già alle spalle dieci anni di psicoterapia intensiva, aveva compreso che la sua sensazione di intorpedimento e i suoi bisogni provengono da carenze emozionali della sua giovinezza. Suo padre, uno scienziato freddo e distaccato, evitava i figli ritirandosi nel rarefatto mondo intellettuale della ricerca scientifica, mentre la madre era molto amorevole e protettiva, ma indiscriminata nelle sue attenzioni: elogiava Eden per qualsiasi cosa, provocando in quest’ultima dubbi sul suo affetto.

Eden era arrabbiata ed esigente nelle relazioni: perdeva la pazienza per qualsiasi difetto o incapacità del partner di soddisfare tutti i suoi bisogni. Grazie alla psicoterapia, aveva riconosciuto l’origine del problema, ma non ne aveva trovato sollievo. Continuava a idealizzare e poi svalutare i suoi uomini, senza riuscire a stringere con essi una relazione intima.

Il vuoto interiore di Eden era un buon esempio di quello che lo psicoanalista Michael Balint ha definito il “rammarico del difetto basilare”: “Il rammarico o il rincrescimento che ho in mente riguardano la realtà incancellabile di un difetto o di una imperfezione che, di fatto, allunga la sua ombra su tutta la vita, e i cui effetti negativi non possono mai essere completamente trasformati in positivi. Anche se l’imperfezione può guarire, la sua cicatrice resterà per sempre; cioè, alcuni dei suoi effetti saranno sempre dimostrabili”.

Nel caso di Eden, nessun antidepressivo si rivelò efficace. Per trovare sollievo, ella dovette affrontare direttamente la sua sensazione interiore di vuoto, rendendosi conto che ciò che stava desiderando ardentemente non l’avrebbe più appagata. Poiché da bambina non aveva goduto delle necessarie attenzioni, si accorse che se qualcuno cercava di prestarle attenzione nella sua vita adulta, si sentiva oppressa e soffocata. Solo grazie alla tranquilla stabilizzazione della meditazione, riusciva ad affrontare l’ansia di questa sensazione interiore di vuoto senza reagire violentemente a essa.

Questo illustra l’approccio buddista. Una persona deve trovare il coraggio o l’equilibrio mentale per affrontare il proprio nucleo nevrotico o “difetto basilare” attraverso la disciplina della consapevolezza meditativa. Nella concezione buddista, tutti gli elementi della personalità hanno il potenziale di trasformarsi in veicoli per l’illuminazione; tutte le onde della mente non sono altro che un’espressione dell’oceano della grande mente.

La malattia mentale non è un concetto molto sviluppato nel pensiero buddista, se non forse in senso esistenziale, dove troviamo un’analisi squisita. I testi buddisti parlano dei due mali: uno interiore, consistente nella convinzione di un sé permanente ed eterno, e uno esteriore, consistente nel desiderio di un oggetto reale. L’oggetto dell’attenzione, nella psicologia buddista, è sempre la condizione esistenziale dell’ego soggettivo, espressa particolarmente bene da Richard De Martino nel classico Psicoanalisi e buddhismo zen (1960; in collaborazione con Erich Fromm e D. T. Suzuki): “Condizionato e dipendente dagli oggetti, l’ego è anche ostruito da questi ultimi.

Nella soggettività in cui è consapevole di se stesso, l’ego è allo stesso tempo separato e isolato da se stesso. Non può mai, in quanto ego, contattare, conoscere o avere se stesso nella piena e genuina individualità. Qualsiasi tentativo in questo senso lo rimuove come soggetto in perenne arretramento dalla sua stessa presa, lasciando semplicemente un oggetto immagine di se stesso. Continuamente elusivo a se stesso, l’ego ha se stesso meramente come oggetto. Diviso e dissociato nel suo centro, è al di là della sua stessa portata, ostruito, rimosso e alienato da sé. Nell’avere se stesso, non ha se stesso”.

È a questa aspirazione esistenziale verso il significato o la completezza, e alle sensazioni interiori di vuoto, mancanza, isolamento, paura, ansia o incompletezza, che la psicologia buddista si rivolge più direttamente. La depressione, in quanto entità critica, viene raramente considerata. I cinquantadue fattori mentali dell’Abhidhamma (i testi psicologici del buddismo tradizionale), per esempio, contengono un compendio di emozioni afflittive come l’avidità, l’odio, la vanità, l’invidia, il dubbio, la preoccupazione, l’inquietudine e l’avarizia, ma non includono la tristezza, eccetto che come un sentimento spiacevole in grado di tingere altri stati mentali. La depressione non è menzionata.

Nel tradizionale Abhidhamma, la mente viene descritta come un organo di senso, o “facoltà”, allo stesso modo dell’occhio, l’orecchio, il naso, la lingua o il corpo, che percepisce concetti o altri dati mentali, controlla gli altri organi di senso ed è soggetta a “oscuramenti”, veli di emozioni afflittive che oscurano la natura autentica della mente. La facoltà della mente e la consapevolezza prodotta da essa vengono considerate la fonte primaria della sensazione “io sono”, che è quindi presupposta reale.

Ma nella letteratura buddista non esiste un’analisi approfondita della propensione della mente a dissesti cui non è possibile porre rimedio con la sola pratica spirituale. Man mano che il buddismo si è evoluto, la sua attenzione si è concentrata ancora di più sulla scoperta della “natura autentica” della mente, piuttosto che sull’analisi della malattia mentale. Tale “natura autentica” è la mente rivelatasi naturalmente vuota, chiara e senza ostacoli. Il senso della pratica della meditazione è diventato l’esperienza della mente in questo stato naturale.

“Parlando in termini assoluti”, ha scritto il compianto maestro di meditazione tibetana Kalu Rinpoche, “le cause del samsara sono prodotte dalla mente, e la mente è ciò che ne sperimenta le conseguenze. Null’altro che la mente crea l’universo, e null’altro che essa lo sperimenta. Tuttavia, sempre parlando in termini assoluti, la mente è fondamentalmente vuota; in sé e per sé non esiste. La comprensione che la mente, creatrice e sperimentatrice del samsara, non è reale in sé, può certo rappresentare un grande sollievo. Se la mente non è fondamentalmente reale, non lo sono neanche le situazioni da essa sperimentate.

La scoperta della natura vuota della mente e il rifugio in tale scoperta possono essere fonte di grande sollievo e rilassamento nel tumulto, nella confusione e nella sofferenza che costituiscono il mondo”. Un bagliore di questa verità può provocare, da un punto di vista psicoterapeutico, una grande trasformazione, ma essa è piuttosto sfuggente per coloro la cui mente non riesce a prendere rifugio nel proprio stato naturale a causa di un’ansia, una depressione e uno squilibrio mentale profondi.

Timothy era un fotografo di successo la cui vita andò improvvisamente a pezzi. Il terapista che da quattro anni lo seguiva morì improvvisamente per un attacco di cuore, alla moglie venne diagnosticato un cancro al seno che necessitava contemporaneamente di un intervento chirurgico e di chemioterapia, mentre la sua gallerista fallì improvvisamente e chiuse la sua attività senza versare a Timothy le migliaia di dollari che gli doveva. Il suo studio sembrava contaminato dalle ansiose ore passate al telefono con la moglie e i dottori di lei; non vi riusciva più a prendere rifugio, e d’altra parte, a che pro andarci se nessuno gli vendeva le opere?

Nulla aveva più senso, gli sembrava di essere immerso nella morte e nell’angoscia, e cominciò a essere ossessionato dalla propria salute. Non essendo un attivo praticante spirituale, Timothy non disponeva di un contesto in cui collocare il dolore che l’aveva improvvisamente travolto; non sapeva come restare in quest’ultimo continuando la vita di tutti i giorni, e come essere presente al dramma della moglie. Controvoglia, andò con lei a un seminario di Jon Kabat-Zinn su come affrontare le malattie gravi; qui nacque il suo interesse verso la pratica buddista.

Lentamente, riscoprì la sua vitalità e tornò a prendere possesso dello studio; inoltre, imparò a relazionarsi con la moglie in un modo che l’ansia non esaminata gli aveva impedito. Ma la cosa più importante fu che la pratica del dharma sembrava dargli un metodo per sperimentare l’agonia mentale senza soccombere all’incredibile dolore da essa prodotto.

Quella di Timothy era una situazione in cui la medicina sarebbe stata fuori luogo. La sua crisi era esistenziale o spirituale, oltre che un caso di angoscia inesplorata; ed egli riuscì a trovare un po’ di quel sollievo cui fa riferimento Kalu Rinpoche.

Il desiderio che la meditazione possa, in sé e per sé, rivelarsi una sorta di panacea per tutte le sofferenze mentali è diffuso e certamente comprensibile. Lo psichiatra Roger Walsh ricorda un ritiro di tanti anni fa, in cui ebbe l’opportunità di osservare Ram Dass alle prese con un giovane che aveva avuto una crisi psicotica durante la pratica. «Oh, bene», si ricorda di aver pensato; «adesso vedrò Ram Dass affrontare in modo spirituale uno psicotico». Dopo aver osservato Ram Dass salmodiare insieme al giovane tentando di creare in lui una centratura meditativa, Walsh notò che fu necessario trattenere il giovane, a causa della sua agitazione e violenza crescenti.

A un certo punto, il ragazzo morse Ram Dass sullo stomaco, provocando un’immediata richiesta di Torazina, un potente farmaco anti-psicotici. Il desiderio di evitare la medicina con la pratica spirituale, di affrontare la mente nel suo stato primitivo, è certamente nobile, ma non sempre realistico.

Negli ambienti del dharma, la cura farmaceutica dell’ansia mentale continua a essere vista con diffidenza; esistono dei pregiudizi contro l’uso di medicine per correggere gli squilibri psichici. Così come alla malata di cancro viene chiesto di assumersi la responsabilità di qualcosa che potrebbe non dipendere da lei, allo studente depresso del dharma si dà troppo spesso il messaggio che nessun dolore è troppo grande per non poter essere affrontato sul cuscino di meditazione, che la depressione è l’equivalente della debolezza o stanchezza mentale, che il problema è nella qualità della pratica e non nel corpo. Ricordo quei pregiudizi quando studiavo psichiatria.

Ero molto diffidente verso tutti i farmaci psicotropi, e ponevo sullo stesso livello il litio e gli anti-psicotici come la Torazina, che mascherano o reprimono i sintomi psicotici senza correggere la condizione schizofrenica di base. Una delle poche cose concrete che è valso la pena imparare in quegli anni di studio, fu che esistono davvero molti stati psichiatrici che è possibile curare o prevenire con l’uso di farmaci, e che la negazione di tale cura è una follia.

Ciò non vuol dire che sia sempre chiaro quando un problema è chimico, psicologico o spirituale. Non esistono esami del sangue per la depressione, a esempio. Tuttavia, certe costellazioni di sintomi mostrano invariabilmente la presenza di una situazione curabile che difficilmente si risolverà grazie alla sola pratica spirituale.

Peggy arrivò alla pratica del dharma poco dopo aver compiuto venti anni, mentre attraversava un periodo di profonda depressione. Sperduta nella controcultura, disaffezionata alla madre divorziata, alcolizzata e prepotente, esilmente legata al padre introverso e indulgente, stava prendendo in considerazione il suicidio quando si imbatté nel suo primo insegnante del dharma, a San Francisco. Sentendosi “scoperta” da quell’insegnante, abbandonò l’idea del suicidio e si tuffò nella pratica del dharma per i successivi diciassette anni.

Ma quando cominciò a conoscere da vicino un insegnante dopo l’altro, perse la capacità di idealizzarli come aveva fatto in principio, e gradualmente si disilluse. Successivamente, la madre si ammalò di cancro, una relazione che durava da cinque anni finì e, allo scoccare dei quaranta anni, la sua migliore amica ebbe un figlio. Allora Peggy diventò sempre più chiusa e ansiosa. Si sentiva stanca e nervosa, debole e letargica (ma incapace di dormire), piena di pensieri ossessivi e carichi d’odio, incapace di concentrarsi sul lavoro o sulla pratica del dharma.

Si mise a letto, perse interesse negli amici e cominciò a pensare di essere già morta. I suoi amici la portarono in una comunità spirituale, da molti guaritori e da diversi autorevoli insegnanti buddisti che alla fine l’indirizzarono verso le cure psichiatriche. Come si scoprì, dalla parte materna della sua famiglia esistevano casi precedenti di depressione. Peggy era convinta di essere condannata a ripetere il declino di sua madre; si sentiva un fallimento come buddista, e tuttavia era restia a considerare la sua depressione una condizione che giustificava la cura medica.

Dopo quattro mesi di assunzione di antidepressivi, cominciò a sentirsi meglio; continuò tale cura per un anno, e da allora non ne ha più avuto bisogno. Durante la depressione, era semplicemente incapace di trovare la concentrazione necessaria per meditare efficacemente. Il “punto di vista assoluto” che descrive Kalu Rinpoche non era alla portata della sua consapevolezza.

La tradizione psichiatrica con più esperienza nella distinzione tra malattia mentale esistenziale e biologica, è probabilmente quella tibetana, formatasi in una cultura e una società completamente immerse nella teoria e pratica del buddismo. Le autorità mediche tibetane riconoscono diverse “malattie mentali” per le quali consigliano interventi farmaceutici e non meditativi; tra esse, molte corrispondono alle diagnosi occidentali di depressione, malinconia, panico, depressione maniacale e psicosi. Non solo la meditazione non viene sempre consigliata come primo trattamento, ma si riconosce che spesso essa può aggravare tali condizioni.

In realtà, è ben noto che la meditazione, in sé, può provocare una patologia psichiatrica, uno stato di ansia ossessiva che è un risultato diretto del tentativo di concentrare la mente in modo rigido e inflessibile sull’oggetto di consapevolezza. Come scrive la compianta Terry Clifford nel suo libro Tibetan Buddhist Medicine and Psychiatry, secondo la tradizione tibetana questi insegnamenti medici furono esposti dal Buddha nella manifestazione di Vaidurya, all’interno del paradiso mistico della medicina chiamato Tanatuk, il cui significato letterale è: “Ciò che dà piacere quando lo si osserva”.

Qui, si dice che Vaidurya abbia detto che “tutte le persone che desiderano meditare, raggiungere il nirvana e godere di buona salute, lunga vita e felicità, dovrebbero imparare la scienza della medicina”. Le cure per le malattie mentali non sono antitetiche alla pratica del dharma; anzi, sembra che gli insegnamenti tibetani sostengano che esse possono essere venerate come manifestazioni del Buddha della Medicina stesso.

Tuttavia, oggigiorno molti studenti del dharma afflitti da tali malattie mentali hanno difficoltà a identificare le cure efficaci come manifestazioni del Buddha della Medicina. Sembra che preferiscano considerare i loro sintomi come manifestazioni della Buddha-mente. Per esempio, di recente ho avuto un paziente di nome Gideon, brillante matematico teorico, professore universitario e persona orgogliosa, caparbia e creativa, che durante gli studi universitari si è avvicinato alla pratica buddista. In quegli anni, egli ebbe un “esaurimento nervoso”: per sei mesi fu inquieto e agitato, sperimentava fiammate di energia creativa, nella mente frenetica i pensieri si accavallavano uno sull’altro, i suoi stati d’animo erano labili e lacrime e risate si succedevano in breve tempo; inoltre, aveva molta difficoltà a dormire.

Alla fine crollò e passò una settimana all’ospedale, ma nei successivi cinque anni non ebbe più problemi. Dai trenta ai quaranta anni ebbe molte crisi depressive; la sua produttività al lavoro diminuì, si sentiva triste e chiuso, e si ritirò in una sorta di penosa solitudine. Essendo fortemente contrario alle cure mediche, superava quelle depressioni chiudendosi nel suo appartamento e restando sdraiato nel buio della sua stanza. Poi le crisi finirono e Gideon riuscì a tornare al lavoro.

Dopo i quaranta anni ebbe una serie di crisi, molto simili all’esaurimento nervoso della gioventù, ma questa volta divenne anche paranoico: udiva messaggi speciali che gli venivano inviati attraverso la televisione e la radio, e che lo mettevano in guardia contro una cospirazione. Il ricovero psichiatrico fu richiesto dopo che venne indotto a cercare riparo in Central Park.

La malattia di Gideon era maniaco-depressiva: un disturbo episodico del carattere che di solito comincia a manifestarsi nella prima età adulta e che può provocare depressioni ricorrenti, euforia o una combinazioni di tutte e due. Caratteristica di questa malattia è che le crisi vanno e vengono, e tra l’una e l’altra il soggetto ritorna allo stato normale. Molte persone affette da tale malattia ritengono che le crisi siano prevenibili o almeno fortemente ridotte dall’assunzione quotidiana di sali di litio. Gideon opponeva una grande resistenza all’idea di avere questa malattia e all’assunzione di litio.

Citava il dharma della “mente che prende rifugio nel suo stato naturale” per giustificare il rifiuto di prendere medicine. Dopo i quaranta anni, le crisi maniacali colpirono ripetutamente Gideon, con frequenza di quasi una all’anno, compromettendo seriamente la sua carriera accademica. Per un certo periodo di tempo, la famiglia cercò di mettergli a sua insaputa le medicine nel cibo, ma ciò servì solo ad accrescere la sua paranoia.

A tutt’oggi, egli si rifiuta di assumere volontariamente medicine. Gideon resta un uomo orgoglioso e dall’intelligenza vivace, capace di lavorare produttivamente tra una crisi e l’altra, ma la malattia lo sta destabilizzando inesorabilmente.

Attraverso questi episodi, intendo chiarire che né la meditazione né la medicazione sono uniformemente benefiche in tutti i casi di sofferenza mentale. La pratica della meditazione può essere di grandissimo aiuto o può contribuire a rafforzare il rifiuto. Negli ambienti del dharma esiste ancora molta ignoranza sui benefici del trattamento psichiatrico, così come nell’ambiente psichiatrico esiste un’ignoranza corrispondente sui benefici della pratica meditativa.

In aggiunta, nella storia della psicoanalisi c’è uno spiacevole parallelo all’attuale pregiudizio degli ambienti del dharma contro le cure farmaceutiche. Il primo gruppo di seguaci di Freud era costituito dagli intellettuali radicali dell’epoca. La fiducia e l’entusiasmo verso questo nuovo e profondo metodo di cura li portò a considerarlo una panacea, in modo molto simile a ciò che l’avanguardia di oggi sta facendo con la pratica buddista

La figlia di Luis Comfort Tiffany, Dorothy Burlingham, figura di spicco nella New York del primo novecento, lasciò il marito maniaco-depresso a causa delle sue continue e incessanti crisi, e nel 1925 portò a Vienna i suoi quattro figli per cominciare un’analisi con Freud. Dopo essersi trasferita nell’appartamento sottostante a quello di Freud, Dorothy Burlingham cominciò una relazione con la famiglia Freud, che la portò a vivere con Anna Freud per il resto della sua vita (morì nel 1979).

Anna Freud divenne l’analista dei suoi figli, ma almeno uno di essi, Bob, sembra aver ereditato la depressione maniacale del padre. La tragica storia è stata raccontata dal nipote di Dorothy, Michael John Burlingham, nel libro The Last Tiffany: Bob soffrì di inconfondibili crisi maniaco-depressive e morì alla giovane età di cinquantaquattro anni. Ma così grande era la fede di Anna Freud nella psicoanalisi, che anche quando fu scoperta l’efficacia del litio nel trattamento profilattico, non ne prese mai in considerazione l’uso. Bob poteva essere curato solo con ciò che ricadeva nei parametri dell’ideologia freudiana, notoriamente inefficace per la sua malattia.

Senza dubbio, esistono dei praticanti del dharma che si stanno danneggiando allo stesso modo, per una fede simile nell’universalità della loro ideologia. Queste persone farebbero bene a ricordare gli insegnamenti del Buddha sulla via di mezzo, e soprattutto il suo consiglio contro la ricerca della felicità attraverso l’automortificazione delle diverse forme di ascetismo, da lui definite “dolorose, senza valore e prive di beneficio”.

Ostinarsi a soffrire per una malattia psichiatrica, quando la cura è misericordiosamente disponibile, non è altro che una pratica ascetica contemporanea. Il Buddha stesso tentò queste pratiche ascetiche, ma le abbandonò. Il suo consiglio è degno di essere tenuto in considerazione.

Nota: Tutti i nomi, i dettagli e le caratteristiche che possono permettere un’identificazione dei casi trattati in questo articolo, sono stati cambiati.

Mark Epstein è praticante buddista e psichiatra con studio privato a New York.

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Mark Epstein. La continuità d’essere. Una psicologia positiva per l’Occidente. Astrolabio. 2002. ISBN: 8834013905

Mark Epstein. Lasciarsi andare per non cadere in pezzi. Neri Pozza. 1999. ISBN: 8873056911

Erich Fromm, Suzuki, De Martino. Psicoanalisi e buddhismo zen. Astrolabio. 1968. ISBN: 883400051X

Terry Clifford. Medicina tibetana del corpo e della mente. Mediterranee. 1991. ISBN: 8827206078