La felicità, l’uomo la cerca da sempre. Fin dai tempi del mitico Re Creso, il re che ha accumulato ogni tesoro, e che, tutto fiero, chiede al saggio Solone chi fosse l’uomo più felice del mondo. Il saggio risponde tranquillo, che il più felice del mondo è Tello, un padre ateniese, caduto in battaglia nella sua piena maturità. Dopo di lui, i più felici sono i fratelli Cleobi e Bitone, entrambi giovani, morti nel sonno dopo aver portato alla festa del paese la loro madre, conducendo essi stessi il carro, al posto dei buoi.
Naturalmente Creso si arrabbia, e scaccia Solone: primo passo falso di tanti altri, che porteranno lui e il suo regno alla rovina. La risposta di Solone però, un po’ strana lo era davvero, perché conteneva in sé diversi aspetti del difficile mistero della felicità.
Che non ha molto a che vedere, come Solone già sapeva, e come oggi si torna a riscoprire, con magazzini pieni, e forzieri ricolmi. Ma piuttosto con una vita vissuta bene, e con pienezza.
Tello aveva avuto figli e nipoti buoni, belli e sani. Dopo una vita felice («quanto possibile per noi uomini», racconta Erodoto), durante una guerra tra Ateniesi ed Eleusini guidò un attacco, mettendo in fuga i nemici, e morì con coraggio e onore, che i concittadini gli riconobbero subito. Insomma (conclude Darrin M. McMahon nel suo recentissimo Storia della felicità. Dall’antichità ad oggi, Garzanti), «era riuscito ad affrontare le sfide dell’esistenza senza cadere, ed a concludere la sua vita con onore e grazia».
Per la stessa ragione al secondo posto nel possesso della felicità c’erano poi, non un padre ma due figli, Cleobi e Bitone. Giovani e molto forti, essi avevano staccato i buoi dal carro per portare più velocemente, senza ritardi, la madre alla festa del paese. Tutti li avevano visti e ammirati, complimentando la madre che, felice, aveva chiesto alla Dea Era, in onore della quale si festeggiava, di concedere ai due uomini ciò che di meglio si poteva ottenere. Dopo questa preghiera i giovani furono ancora omaggiati, banchettarono allegramente, si coricarono, e morirono nel sonno, in piena tranquillità.
Anche qui, gli elementi costitutivi della felicità sembrano essere: una vita buona, con affetti pieni e senza incertezze, il caloroso rispetto dai contemporanei, e la capacità di mantenere tutto questo fino al difficile momento della morte, nel quale molto di quanto si era costruito può essere improvvisamente perso (per paura, o improvvisa indegnità). Prima di esso dunque, non si può dire se una vita sia stata veramente felice. Virtù dunque, ma anche fortuna (che ti fa essere sano, e appartenere ad una città prospera), gli ingredienti fondamentali dell’essere felici, fin dall’antichità.
La nascita, la predicazione e la crocifissione di Gesù Cristo modificano profondamente questa visione della felicità, integrandovi maggiormente l’aspetto piuttosto sorvolato dal pensiero greco (al di fuori degli stoici): quello della sofferenza, che a volte sembra invece confinare con la sfortuna.
Gli stoici dicevano che l’uomo può essere felice anche sulla ruota della tortura. Col cristianesimo invece «la ruota, lo strumento di tortura, la croce, diventa il luogo e il simbolo di un più generale processo di conversione, momento di alchimia spirituale in cui il vile metallo del dolore umano, la croce, si trasforma nell’oro della gioia divina. A ragione – dice McMahon – la sofferenza e la morte di Cristo sono dette “passione”. La sua infinita capacità di sperimentare il dolore è direttamente proporzionale alla sua infinita capacità di trasmettere l’esperienza della gioia».
Con Cristo, la croce, il luogo della morte e resurrezione, quindi della trasformazione del vecchio Io, diventa quello in cui nasce la felicità. Alla quale l’essere umano accede quando diventa capace di attraversare il dolore, per amore dell’altro.
Il gioco si fa dunque, con Cristo, molto più difficile; comunque profondo. Per incontrare la felicità non basta più l’abile mixing tra fortuna (agiatezza, salute, forza) e virtù (coraggio e affetti), del mondo classico. Anzi il vero banco di prova è ciò che si presenta come avversità, disgrazia, ferita, morte. E’ attraversando quel territorio, spinoso e insanguinato, che si guadagna (si diventa capaci di) felicità.
Qui non solo la felicità non è più identificata con la ricchezza, ma obbliga all’accettazione del dolore, ed al riconoscimento del suo senso, che è l’amore: per Cristo, ma anche per l’altro, e per se stessi. Un bel salto, che secondo lo psicologo Carl Gustav Jung, trasforma completamente l’affettività umana, spinta a sviluppare un’apertura all’altro prima pressoché sconosciuta.
La visione della felicità cristiana rimane fondamentalmente intatta per tutto il Rinascimento, e non viene sostanzialmente modificata neppure con l’Umanesimo. Ma l’applicazione degli sviluppi scientifici alle tecniche produttive tornano a spostare l’attenzione degli uomini dalla trasformazione personale, all’utilità e all’arricchimento. «Il dolore e il piacere ci governano in tutto ciò che facciamo. […] L’obiettivo è elevare l’edificio della felicità con l’opera della ragione e della legge», osserva Jeremy Bentham, fondatore dell’utilitarismo e inventore del Panopticon, il carcere perfetto (modello delle grandi prigioni moderne), nel quale un sorvegliante poteva dalla sua postazione controllare tutto.
Felicità diventa dunque, rapidamente, il massimo del piacere e il minimo del dolore. Non solo la trasformazione cristiana attraverso il dolore, e la forza d’animo dello stoico, ma anche la virtù e l’equilibrio classico perdono di nuovo interesse in una visione della felicità dove il far di conto, e la capacità di accumulare, ridiventano affascinanti. Si scopre nel frattempo l’osservazione della sensazione e della sua potenza. «La felicità è individuale e particolare, e si può trovare in assenza di virtù, e perfino nel delitto», sostiene il sensista Julien de la Mettrie. L’illuminismo è alle porte, ed anche il marchese de Sade. «Se la dissoluzione è di tuo gusto… crogiolati nel fango come un maiale, e sarai felice come loro».
Un secolo dopo, in piena rivoluzione industriale, a cui l’illuminismo apre le porte, saranno i beni materiali ad aver «acquisito un inesorabile potere sulla vita degli uomini, come in nessun altro periodo della storia», come osserva Max Weber, trasformandosi in «una gabbia pesante e forse inamovibile che ci inchioda alla terra».
Gli orrori e le crisi del Novecento, la sazietà del mondo ricco, e la fame di quello povero, stanno però nuovamente cambiando l’idea di felicità che ha preso forma dall’Illuminismo in poi. L’uomo sa ormai che la felicità non può venire né dal rotolarsi nelle sensazioni, né dall’accumulare beni.
Nel frattempo, il Governatore della Federal Reserve, la Banca Centrale americana, fa sapere al mondo che l’attuale modello di sviluppo, fondato sulla continua espansione dei consumi, attraverso i debiti, non può più continuare. Si fa così avanti una nuova idea di felicità, che non coincide con la ricchezza economica, ma con quella affettiva, relazionale. Con la capacità di fare comunità, virtuale o reale non importa, di mettersi in gioco, di raccontarsi, di proporre idee, emozioni, visioni.
Di questo parla Luca De Biase in Economia della felicità, Feltrinelli, analizzando le spinte verso un’idea diversa di felicità che vengono dai blog, dalla riscoperta della pratica del dono, compreso il dono del proprio tempo e delle proprie idee che si realizza su Internet. In questa revisione contemporanea della felicità, e dei suoi condizionamenti economici, l’economista Pierangelo Dacrema (ribellandosi a: La dittatura del PIL, Marsilio), nota che «la felicità pubblica non esiste, e quella privata si mostra giustamente riluttante a farsi chiudere nel recinto del fatto economico».
2500 anni dopo la disputa fra Creso e Solone, si riscopre dunque che la felicità non coincide con la ricchezza. E che, come aveva già mostrato Cristo, non può ignorare il dolore dell’altro.

 

da “Il Giornale”