Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Disinformazione in trincea, dal Piave all'Iraq

Disinformazione in trincea, dal Piave all'Iraq

di Elvira Corona - 04/03/2008

Fonte: altravoce

 

Disinformazione in trincea, dal Piave all'Iraq



In quasi un secolo non è cambiato nulla, se non nell’efficacia degli strumenti di disinformazione: dalla Grande Guerra all’Iraq, il potere sa bene che il primo fronte è quello interno e per vincere una guerra è essenziale manipolare l’informazione per arruolare l’opinione pubblica. In quale modo, lo spiega Francesco Congiu, nel libro “Informazione e disinformazione di guerra - Il caso Al Jazeera”, presentato l’altra sera a Cagliari. Un lavoro diviso in tre parti: si comincia con un excursus storico sul ruolo che ha avuto l’informazione dalla prima Guerra mondiale passando per il Vietnam per arrivare fino alla prima Guerra del Golfo, si prosegue con un’analisi concentrata sugli eventi bellici fra il 1991 e il 2004, e l’ultima parte è dedicata alla guerra vista da un punto di vista non occidentale, con particolare riferimento al caso Al Jazeera.
Dal 1914 a oggi poco sembra essere cambiato, sostiene Congiu, almeno per quanto riguarda il lavoro svolto dagli organi di informazione per costruire il consenso del popolo attorno alla guerra. La creazione di un nemico comune, lo stato di paura, e infine l’inevitabilità del conflitto sono sempre stati gli ingredienti per convincere i cittadini che la guerra è la soluzione a tanti problemi. Stesso copione da sempre, cambiano solo i mezzi utilizzati, le cosiddette armi di distrazione di massa sono sempre più raffinate.
L’autore parla di disinformazione di guerra più che informazione, visto che spesso ci si è avvalsi anche di bugie pur di far credere all’opinione pubblica che un intervento armato sia indispensabile: il libro seleziona tante false notizie create ad arte da chi preparava le guerre. Ultimo esempio proprio il caso delle armi di distruzione di massa in possesso dell’Iraq - almeno secondo il governo degli Stati Uniti -, armi che non sono mai state trovate ma che hanno permesso di l’invasione e di dipingere l’ex fedele alleato Saddam Hussein come il più minaccioso dei dittatori (immagine che gli è costata l’impiccagione senza neppure un regolare processo da parte di un tribunale internazionale).
Fatti costruiti ad hoc dalle più grandi agenzie di pubbliche relazioni americane, per scatenare determinate impressioni nella gente comune. Quella che per informarsi si accontenta della tv. Proprio tra queste persone - ricorda il libro - c’è stato infatti il numero di consensi maggiore all’invasione dell’Iraq nel 2003, mentre tra le persone che utilizzano più mezzi (giornali e soprattutto internet) le percentuali di consenso sono state molto più basse.
È innegabile che i grandi network dell’informazione abbiano avuto e continuino ad avere un ruolo fondamentale nel guidare l’opinione pubblica, in particolare quella meno attenta. Ma mentre in tutti gli altri conflitti il punto di vista di chi riportava le notizie era sempre un punto di vista occidentale - con la leadership indiscussa degli Stati Uniti e della Gran Bretagna - negli ultimi due conflitti, quello iracheno e quello afgano, si è affacciata sulla scena una novità, il canale satellitare del Qatar Al Jazeera. Finisce dunque l’era del monopolio mediatico di Cnn e Bbc ed entra in scena un nuovo protagonista, che sebbene sia costituito da giornalisti formatisi tra le redazioni della tv pubblica britannica, ha l’ambizione di dare un punto di vista arabo alle vicende di guerra. Come scrive Francesco Congiu, «per la prima volta un media arabo descrive le guerre alle quali prendono parte arabi in terre arabe».
Un nuovo elemento di informazione nel panorama internazionale - visto che ora Al Jazeera trasmette anche in inglese - che rompe gli schemi nello stesso mondo arabo: le altre televisioni nazionali sono state costrette a dare le notizie di guerra in tempo reale. Fino ad allora i media, rigidamente controllati, erano utilizzati solo come strumenti di potere e canali diplomatici tra le elite che dominano nel Medio Oriente. Dalla nascita della nuova emittente satellitare, nel 1996, si è incominciato a parlare di più di fatti internazionali e di geopolitica. Non è da sottovalutare che il proprietario dell’emittente sia proprio l’emiro del Qatar, che anche attraverso la televisione mira a guadagnarsi un ruolo di primo piano nel panorama mediorientale (e che non permette alla tv di occuparsi dei fatti interni, ma solo di questioni internazionali).
Le prime a dover fare i conti con Al Jazeera sono state senz’altro le amministrazioni Bush & Blair. Infatti mentre fino al 1996 il monopolio dell’informazione era americano, o al massimo angloamericano, da una decina d’anni a questa parte c’è un ulteriore voce, che ha iniziato ad esempio a denunciare le stragi di civili, e a rendere noto in maniera critica tutto quello che alcuni giornalisti hanno sempre tenuto nascosto, tentando di far credere che le guerre e le armi usate per farle possano davvero essere intelligenti. Proprio in questo momento critico il potere “vincente” ha puntato sul giornalismo embedded, sugli inviati di guerra al seguito delle truppe, militarizzati: un’idea del Pentagono, voluta - sostiene il libro di Congiu - «per contrastare la potenziale disinformazione proveniente dai media arabi».
La comunicazione ha assunto un ruolo sempre più cruciale non solo durante la guerra, quando cioè c’è da raccontare (o nascondere, o distorcere) gli eventi, ma anche nel momento in cui la guerra viene preparata. Nel libro si sottolinea come a questa accresciuta influenza, strettamente legata al progresso tecnologico, non ha però corrisposto una rappresentazione più fedele e veritiera di quello che succede nei conflitti. Niente approfondimenti sulle vere cause che portano alle guerre, e quando non è più importante “far ignorare” rispetto al “far sapere” si scivola spesso in drammatizzazioni che sconfinano nella retorica.
Per Francesco Congiu il caso Al Jazeera è un esempio di punto di vista capovolto rispetto a quello al quale eravamo abituati: «Seppure con dei limiti, è importante per avere una visuale differente, non occidentale, un tassello in più per la copertura globale».