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Quel libretto rosso

di Federico Rampini - 05/03/2008

    
Le vicende della Rivoluzione culturale cinese e l’importanza del Libretto rosso come strumento di propaganda ideologica in Cina e in Occidente sono i temi indagati dal giornalista Federico Rampini.
Nel 1966 Mao Zedong avviò una nuova fase del comunismo in Cina: con la rivoluzione culturale incitò le masse popolari ad attaccare la
nomenklatura e gli intellettuali. La ragione di fondo nasceva dalla volontà di Mao di eliminare gli oppositori interni al partito e le forze moderate del paese. Negli anni successivi morirono fra i 750 mila e il milione e mezzo di persone a seguito dei processi scatenati dalla rivoluzione culturale.
Il libretto rosso ebbe una diffusione eccezionale in tutto il mondo ed esercitò un’influenza notevole su molti intellettuali occidentali durante gli anni ‘60 e ‘70.


Di pochi libri si può dire davvero, a decenni di distanza, che hanno segnato un’epoca. Questo ha tentato di cambiare il mondo e c’è quasi riuscito. Ha impresso il suo colore rosso sugli anni Sessanta e Settanta: in Cina, nei campus universitari occidentali, nelle rivoluzioni del Terzo mondo. È il secondo best-seller di tutti i tempi dopo la Bibbia. Si dice che in quarant’anni sia stato diffuso in cinque miliardi di esemplari. Nel solo 1967, all’apice della Rivoluzione culturale, ne vengono stampati e diffusi 350 milioni di esemplari. In quell’anno le Citazioni hanno già sprigionato tutta la loro potenza d’indottrinamento delle masse. A partire dal 16 agosto 1966 la cerchia dei fedelissimi di Mao comincia a lanciare appelli pubblici perché gli studenti affluiscano da tutto il paese verso la capitale. Si apre la nuova fase della rivoluzione comunista. Il Grande Timoniere che ha fondato la Repubblica popolare nel 1949 vuole liberarsi degli avversari interni e delle fazioni moderate. Scatena la rivolta dal basso contro gli apparati burocratici del partito, il «bombardamento del quartier generale». Saltando ogni intermediazione, scavalcando la nomenklatura, il popolo deve venire direttamente a contatto con il leader carismatico. Tra l’agosto e il novembre del ‘66, a ondate successive, sulla Piazza Tienanmen di Pechino si rovesciano adunate oceaniche per osannare il leader. [...]
Via via che il culto di Mao assume connotati sempre più prossimi a una religione, i poteri soprannaturali del Grande Timoniere si estendono al piccolo florilegio dei suoi pensieri. Il reporter britannico Philip Short che visse in Cina in quegli anni ricorda che al Libretto rosso vennero attribuiti veri e propri miracoli. «Alcuni giornali riferirono che dei medici armati delle Citazioni avevano guarito i ciechi e i sordomuti; che un paralitico appoggiandosi sul Libretto si era messo a camminare; che in un altro caso l’apparizione di quelle pagine coi pensieri di Mao aveva resuscitato un morto». Il vero miracolo di questo Libretto rosso fu un altro, avvenne nei salotti e nelle assemblee studentesche dei nostri paesi: l’innamoramento di certe élites borghesi dell’Occidente per il maoismo lo trasfigurò in un testo prezioso e arcano, perfino esoterico. Raffinati intellettuali europei si esercitarono in una esegesi colta, per disvelare in ogni aforisma significati sempre più profondi, visioni lungimiranti a cui avrebbero dovuto ispirarsi le nostre società, che a quell’epoca erano ben più sviluppate della Cina. Era il mondo a rovescio. Nell’ebbrezza del maoismo occidentale un potente allucinogeno era rappresentato dalla convinzione che l’esperimento cinese fosse irriducibilmente diverso dagli altri socialismi realizzati, in particolare dal modello sovietico. Una rivoluzione dal basso, più democratica, più genuina, più spontanea. Una società dove comandavano davvero le masse, non gli apparati di partito. Che Mao usasse spesso analisi identiche a Stalin era irrilevante. Le medesime parole pronunciate da lui volevano dire «altro», per gli ammiratori occidentali. È istruttivo rileggere oggi l’Introduzione con cui la casa editrice Einaudi pubblicò in Italia la raccolta Rivoluzione e costruzione, con i testi di Mao dal 1949 al 1957. Pur uscendo nel 1979, quindi tre anni dopo la morte del leader cinese e quando molte verità scomode su di lui stavano affiorando perfino a Pechino, il testo italiano era ancora segnato da una tale venerazione, che arrivava a negare l’evidenza e il significato letterale delle parole: «Il lettore non deve essere tratto in inganno dal fatto che anche Mao usi qui, come farà del resto anche negli anni successivi, una terminologia in parte identica a quella impiegata a quel tempo nel «campo socialista». Espressioni come «centralismo democratico», «direzione del partito», «dittatura del proletariato», «economia pianificata», sono un guscio che racchiude una sostanza diversa e quasi sempre antitetica a quella di altri socialismi». [...] Per illuminare le attrazioni del maoismo nella sua stagione più radicale, Zhu Xueqin evoca un parallelismo con la Rivoluzione francese. Zhu è docente universitario e fa parte della generazione dei «figli di Mao». «Molte Guardie rosse - dice - studiarono la Rivoluzione francese. I giacobini ispirarono il loro idealismo utopico. L’esempio della crudeltà giacobina e della violenza rivoluzionaria in Francia fu importante per tutti coloro che pensavano che il vecchio ordine costituito si potesse schiacciare solo con la forza. Più gli studenti erano idealisti, più erano disposti ad accettare la violenza». Tra le vittime delle prime fiammate di violenza studentesca c’è la professoressa Bian Zhongyun, cinquantenne madre di quattro figli, linciata selvaggiamente dalle sue alunne il 5 agosto 1966 a Pechino. La storia della signora Bian è una delle più note per lo scenario in cui si svolge: un liceo «perbene» frequentato da molti rampolli di alti dirigenti comunisti, tra cui le figlie dello stesso Mao Zedong, dell’allora presidente della Repubblica Liu Shiaoqi, e di Deng Xiaoping. Nei mesi di giugno e luglio di quell’anno le sue studentesse iniziano una virulenta campagna di attacchi contro la professoressa Bian accusandola di essere una controrivoluzionaria e di non rispettare Mao. Quest’ultima accusa si basa su un «incidente» accaduto durante una delle periodiche esercitazioni antisismiche. Mentre la docente fa evacuare la sua classe dalle alunne, una ragazza le chiede se non sia egualmente importante portare in salvo il ritratto di Mao. Bian non risponde con il «livello di entusiasmo adeguato» e questo le sarà rinfacciato come una macchia infamante. Al culmine di una serie di umilianti processi pubblici il 5 agosto viene assalita e pestata a morte dalle sue alunne. Il suo corpo è abbandonato in una carriola nel cortile della scuola, ricoperto di manifesti di insulti. Dopo molte ore qualcuno porta la carriola in ospedale. Quando il marito e la figlia maggiore accorrono, trovano il cadavere tumefatto e sfigurato, reso irriconoscibile dalla violenza delle botte. Nessuno si prenderà mai la responsabilità di quella morte, che sarà archiviata come «decesso per cause ignote».
Il bilancio complessivo delle vittime della Rivoluzione culturale? Solo nelle campagne muoiono per le violenze e le esecuzioni sommarie tra i 750 mila e il milione e mezzo di persone, a seconda delle stime.
Come simbolo di un decennio da dimenticare molto in fretta, senza fare i conti con le cause e le responsabilità di quell’orrore, il Libretto rosso viene scomunicato tre anni dopo la morte di Mao. Nel 1979 sotto la leadership di Deng Xiaoping una direttiva interna del partito informa i quadri che le Citazioni «hanno avuto un’influenza vasta e negativa». [...]