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Una "rivoluzione arancione" anche per la Bielorussia?

di Mauro Gemma* - 13/01/2006

Fonte: Lista_di_Geopolitica





Con l'avvicinarsi delle elezioni presidenziali in Bielorussia (1),
previste per la primavera del 2006, stiamo assistendo ad un
impressionante crescendo delle pressioni esercitate da parte di
numerosi paesi e istituzioni internazionali nei confronti dell'unico
paese europeo che continua ad essere incluso nella "lista nera" di
quelli che l'amministrazione USA ha qualificato come "paesi canaglia".

L'ultima iniziativa in questo senso risale alla fine di settembre
2005. Ed ha il sapore di un vero e proprio ultimatum che dimostra fino
a che punto si sono spinte le ingerenze esterne, provocate dalla ferma
determinazione dell'imperialismo (manifestata da Bush in persona) a
creare a Minsk una situazione simile a quella che ha portato tra il
2004 e il 2005 alla vittoria della "rivoluzione arancione" nella
confinante Ucraina.

Tutto, nella più recente occasione, è sembrato essere coordinato dalla
medesima "cabina di regia". A Vilnius, in Lituania - considerata
ormai, anche in virtù della scarsa considerazione delle regole
democratiche da parte della sua leadership, concretizzatasi in
violente persecuzioni anticomuniste, uno dei più zelanti attori
dell'Alleanza Atlantica -, alla presenza di importanti personalità
della Nato, si riunivano i raggruppamenti della cosiddetta
"opposizione democratica" bielorussa per discutere molto concretamente
e, peraltro, senza mascheramenti, dell'individuazione delle forme di
lotta ("sia legali che illegali", è stato ineffabilmente riconosciuto
da coloro che ritengono ormai unica norma di diritto internazionale la
"legge della jungla", imposta al pianeta dall'Amministrazione USA) in
grado di portare al rovesciamento del quadro istituzionale nel loro
paese. Esattamente nello stesso momento, il Parlamento europeo si
scagliava - come sempre in nome della difesa dei "diritti umani" e in
sintonia con analoga presa di posizione della Commissione Europea,
assunta il mese precedente - contro le autorità di Minsk, con toni
talmente duri da provocare una secca accusa di ingerenza da parte non
solo del presidente bielorusso in persona, ma anche dello stesso
ministero degli esteri della Russia (2).

E questo non rappresenta altro che l'ultimo episodio di una campagna
che, a più riprese, da quando, appena eletto nel 1994, il nuovo
presidente della "Repubblica di Belarus" Aleksandr Lukashenko diede
l'avvio ad una politica che sarebbe presto entrata in rotta di
collisione con gli interessi della NATO nella regione, è stata
sviluppata attraverso minacce e sanzioni decretate all'unisono da USA
e alleati europei, e con almeno due tentativi di rovesciamento delle
attuali autorità del paese (3). Tutto ciò è avvenuto con il sostegno
esplicito (con lo stanziamento di centinaia di milioni di dollari da
parte di autorità e istituzioni nordamericane, in particolare la
Fondazione Soros) ad un'opposizione sparuta e inetta, priva di
qualsiasi sostegno di massa, infiltrata da elementi fascisti (gli
eredi di quel collaborazionismo filo-nazista, assolutamente privi di
qualsiasi base di massa in una repubblica ex sovietica, che ha pagato
con la vita di un quarto della sua popolazione l'eroica resistenza
all'aggressione di Hitler), chiassosa e violenta, e addirittura
sospettata dell'attuazione di  attentati terroristici avvenuti negli
ultimi mesi in alcune località del paese.

Non si può certo negare che le autorità bielorusse abbiano utilizzato
a volte metodi poco "ortodossi" e deprecabili nei confronti di alcuni
esponenti dell'opposizione e che le strutture dell'apparato statale
siano attualmente tenute sotto un rigido controllo. O che siano state
messe in atto misure pesanti di ritorsione (anch'esse deprecabili) nei
confronti di giornalisti e osservatori stranieri (in particolare
polacchi e statunitensi, ma anche esponenti della destra liberale
russa, scoperti a trasferire finanziamenti ai loro amici bielorussi),
accusati di interferire nelle questioni interne del paese. Quanto al
sistema informativo, va rilevato tuttavia che, accanto a media statali
largamente controllati, è consentita la libera circolazione degli
organi di opposizione e la larga diffusione di giornali ed emittenti
russi, nella gran parte ostili al regime bielorusso.

Per quanto riguarda poi le denunce di persecuzioni e persino di
sparizioni di oppositori, le autorità di Minsk hanno sempre seccamente
smentito, confortate in questo dalla testimonianza di quelle
organizzazioni umanitarie occidentali che non hanno l'abitudine di
ricorrere al finanziamento delle amministrazioni imperialiste (4).

Lo studioso francese Bruno Drweski, uno dei più autorevoli osservatori
europei della Bielorussia (5), che non può essere certo accusato di
aver risparmiato le sue critiche ai metodi utilizzati dalle autorità
bielorusse, ha osservato a riguardo che "tali metodi "duri" non
differiscono molto  da quelli applicati nella maggioranza degli Stati
post-sovietici o in altre parti del mondo e che le "rivoluzioni
teledirette attraverso Interflora" non hanno cambiato molto in questo
senso, come dimostra la Georgia" e che "il potere personale del
presidente Lukashenko si appoggia anch'esso su una costituzione
comparabile a quella in vigore a Mosca ed in molti altri Stati
considerati pienamente democratici secondo i criteri che predominano
oggi nel mondo"(6).

Le ragioni di tanto accanimento occidentale nei confronti delle
attuali autorità bielorusse e, in particolare, di Aleksandr Lukashenko
sembrano in verità essere ben altre ed avere ben poco a che vedere con
la "preoccupazione per i diritti umani".

E per comprenderlo occorre sicuramente sgombrare il campo da tutte le
letture propagandistiche, sia da quelle "demonizzanti", assolutamente
prevalenti in Occidente (anche nella sinistra, sia moderata che
"alternativa"), che da quelle, a nostro avviso francamente "mitiche",
che caratterizzano alcuni settori del movimento comunista russo, per i
quali la Bielorussia si presenta come una sorta di ultimo "avamposto"
del socialismo.

Forse la definizione più appropriata dell'attuale esperimento
bielorusso è stata fornita proprio da  Drweski, quando sostiene che la
longevità del governo di Lukashenko, al potere da oltre 11 anni, può
essere sostanzialmente spiegata in quanto "frutto di un compromesso di
fatto tra una società poco nazionalista e generalmente diffidente nei
confronti del modello liberale e una nomenklatura legata a settori
industriali che necessitano generalmente della partecipazione dello
Stato (industria spaziale, militare, di trasformazione)"(7).

Sono le specifiche modalità, attraverso cui è avvenuta la "costruzione
socialista" nella Bielorussia sovietica che permetterebbero di capire
almeno in parte le ragioni dell'attuale consenso attorno al "fenomeno
Lukashenko".

E' ancora Drweski a descrivere efficacemente il quadro storico che ha
accompagnato la nascita e lo sviluppo dell'esperienza sovietica nella
piccola repubblica, essenziale per comprendere almeno in parte
l'attuale situazione:

"Storicamente, la Bielorussia ha subito le conseguenze della sua
situazione di passaggio aperto a Ovest verso la Polonia e l'Europa
occidentale, e ad Est in direzione della Russia e della massa
continentale eurasiatica. Le elites locali erano tradizionalmente
polacche o russe. La società bielorussa, quasi totalmente contadina
fino al 1920, era stata attirata dalla cultura russa in virtù
dell'emergere  al suo interno delle componenti populiste più
rivoluzionarie. Le rivoluzioni russe del 1905, del febbraio 1917 e
dell'ottobre 1917 non avevano incontrato un'eco particolare, sebbene
contemporaneamente emergesse  una corrente nazionalista. 

Dopo un breve periodo di autonomia politica, negli anni '20, il potere
staliniano eliminò la maggioranza delle elites letterarie della
repubblica, industrializzò in maniera forzosa il paese, favorendo
l'ascesa sociale di massa di quadri di origine contadina.

I massacri nazisti provocarono immediatamente un possente movimento di
resistenza che ha contribuito a radicare in questa "repubblica di
partigiani" un patriottismo con basi territoriali e "multinazionali".

I veterani, ricollocati nell'industria militare e nell'esercito alla
fine della guerra, hanno costituito fino ai giorni nostri, un ambiente
sociale dotato di grande influenza poiché hanno contribuito a
legittimare il poderoso settore militare-industriale"(8).

E' proprio a partire dal secondo dopoguerra che la Bielorussia ha
conosciuto uno sviluppo impetuoso che le ha addirittura permesso di
sopravanzare gli standard della stessa Russia, e di trasformarsi in
uno dei poli industriali di avanguardia di tutta l'Unione Sovietica.

Il dispiegarsi, a partire dal 1985, della "perestrojka" (che è stata
segnata in Bielorussia dai tragici effetti della catastrofe nucleare
di Chernobil, in Ucraina a pochi chilometri dal confine), e, dopo il
fallimento dell'esperimento gorbacioviano, nell'agosto 1991,
l'affermazione di forze nazionaliste tanto aggressive, quanto prive di
un reale consenso di massa, hanno diffuso nel paese la paura della
perdita definitiva di quei vincoli economici tradizionali con lo
spazio sovietico - che in quel momento veniva scientemente spinto al
dissolvimento dalla dissennata politica delle elites "compradore"
giunte al potere in Russia, sotto la guida di Boris Eltsin -
considerati vitali dalla maggioranza della società locale.

L'adesione acritica delle elites nazionaliste, impadronitesi del
potere, all'ideologia neoliberale, e, allo stesso tempo, l'avvio di
una politica estera improntata alla totale subalternità alle strategie
di aggressiva penetrazione imperialista nel nuovo immenso mercato
emerso dalle macerie dell'URSS, hanno provocato, fin dall'inizio, una
resistenza sociale al "processo di riforme", sconosciuta allora nelle
altre repubbliche ex sovietiche, a cominciare dalla Russia, dove
neppure il Partito Comunista, messo fuorilegge senza alcuna resistenza
e apparentemente in preda alla paralisi e allo sbando, sembrava in
grado di prospettare alcuna alternativa alle ricette dei locali
"Chicago boys".

A limitare il consenso attorno alle forze di governo, raccolte attorno
al movimento separatista "Adradzennie" (Rinascita) e capeggiate dallo
speaker del locale Soviet Supremo Stanislau Suskievic, contribuiva
anche il loro nazionalismo esasperato, caratterizzato da un richiamo
astratto ad un'identità della "Belarus", assolutamente estraneo alla
stragrande maggioranza dei cittadini bielorussi, agitato
fondamentalmente da movimenti dell'emigrazione antisovietica e da
gruppi eredi del collaborazionismo filo-nazista, e accompagnato da un
programma di violenta "derussificazione" di una società, in cui ciò
avrebbe significato danneggiare quasi la metà dei nuclei famigliari.
Questa nuova artificiosa "ideologia di Stato" è apparsa così
improponibile per la stragrande maggioranza dei bielorussi e continua
ad esserlo tuttora, nonostante tutti gli sforzi profusi
dall'opposizione per tentare di convincere del contrario i propri
protettori occidentali.

E' in questo contesto che ha potuto affermarsi una figura come quella
di Aleksandr Lukashenko.

Lukashenko, tra i pochi coraggiosi parlamentari che, nel dicembre
1991, si erano pronunciati contro la dissoluzione dell'URSS, e noto
per il suo rigore nella lotta contro la corruzione dilagante con
l'avvento del nuovo regime, nelle elezioni presidenziali del 1994,
sbaragliava, ottenendo l'81,7% dei voti, il suo avversario, il primo
ministro Viaceslau Kiebic.

Il nuovo presidente indicava da subito quello che sarebbe stato
l'obiettivo strategico di tutta la sua azione, da lui perseguito con
ostinata coerenza: l'avvio del processo di ricomposizione dell'unità
politica ed economica almeno delle repubbliche europee dell'ex URSS, a
cominciare dalla Russia (9).

Nello stesso tempo, Lukashenko non si limitava a pronunciarsi
apertamente contro il processo di allargamento della NATO ad Est,
allora in pieno dispiegamento, ma denunciava il carattere aggressivo
di tale alleanza, tutti i suoi tentativi di prevaricare la volontà dei
popoli e degli stati che non intendono assoggettarsi al "nuovo ordine
mondiale" e la sua intenzione di attentare all'integrità territoriale
non solo del suo paese, ma della stessa Federazione Russa.

Nel 1995 e 1996, un vero e proprio plebiscito ha ratificato alcuni
quesiti referendari da lui proposti, nei quali venivano fissati i
capisaldi programmatici della nuova amministrazione.

L'80% dei bielorussi si pronunciava allora positivamente sulle
richieste di unione economica con la Russia, di ripristino della
simbologia sovietica, di adozione del russo quale seconda lingua
ufficiale.

Lukashenko è stato rieletto alla presidenza nel 2001 e, probabilmente
(ovviamente, se non saranno esercitate, come è invece prevedibile,
massicce pressioni dall'esterno), verrà agevolmente riconfermato per
quel terzo mandato, a cui oggi può aspirare dopo l'approvazione
popolare della sua ricandidatura, ottenuta in un apposito referendum
svoltosi nel 2004.

Fin dall'inizio del suo mandato, pur non interrompendo i processi di
privatizzazione, Lukashenko, che può fare affidamento su un capillare
apparato amministrativo di decine di migliaia di funzionari (40.000 a
livello statale e 80.000 nelle amministrazioni locali), si è sforzato
di mantenere sotto il controllo dello Stato le risorse strategiche
ereditate dall'URSS, cercando allo stesso tempo, in un primo momento,
di ripristinare e, in seguito, di rafforzare gli storici legami con il
mercato dei paesi eredi dell'Unione Sovietica, tradizionale sbocco
delle produzioni bielorusse.

Tale politica (che ha, ovviamente, sempre visto il presidente
bielorusso attivissimo nella promozione di progetti di collaborazione
economica nell'ambito della Comunità degli Stati Indipendenti) ha
permesso, nell'ultimo scorcio dello scorso secolo, di contenere i
costi sociali derivanti dal crollo economico seguito all'applicazione
delle ricette di "liberalizzazione" e "privatizzazione" applicate nel
resto dello spazio post-sovietico, e in particolare nelle vicine
Russia e Ucraina.

Aleksey Prigarin, noto intellettuale marxista "critico" russo (10),
nell'invitare le sinistre russe a difendere l'esperimento bielorusso
"dagli attacchi dei sostenitori dell'oligarchia",  ha così provato a
formulare una definizione di questo esperimento: "Con Aleksandr
Lukashenko in Bielorussia si è affermato il capitalismo di stato che,
indubbiamente, è meglio del capitalismo oligarchico che ha prevalso
nella maggioranza delle ex repubbliche sovietiche (.) Nonostante tutte
le insufficienze del capitalismo di stato come sistema sociale, è
comunque indispensabile considerare che esso permette di assicurare ai
cittadini solide garanzie sociali e livelli di occupazione stabile. La
Bielorussia, unica tra le ex repubbliche sovietiche, si inserisce tra
gli stati altamente sviluppati secondo le valutazioni delle
commissioni dell'ONU che si occupano degli indici dello sviluppo umano.

 (...) Tale qualità della vita rappresenta un'indubbia conquista della
dirigenza bielorussa che, come è noto, non può contare su
significative riserve di minerali utili, ma solo sullo sviluppo
dell'agricoltura e della produzione industriale.

(.) Naturalmente, la politica condotta da Lukashenko talvolta provoca
critiche non prive di fondamento anche da parte delle sinistre.In
Bielorussia effettivamente si è formata una società, in cui i
principali strumenti di informazione e le istituzioni politiche sono
controllati dalla burocrazia dominante. Tale sistema è tipico del
capitalismo di stato. Ma, allo stesso tempo, non bisogna mai
dimenticare che un indebolimento del controllo burocratico, nelle
attuali condizioni, può solo provocare la trasformazione del
capitalismo di stato in capitalismo oligarchico.

In ultima analisi, nello spazio post-sovietico, il capitalismo di
stato rappresenta oggi l'unica alternativa concretamente esistente al
capitalismo oligarchico. Per questo è interesse delle sinistre
difendere il capitalismo di stato dagli attacchi dei sostenitori
dell'oligarchia, nello stesso tempo in cui operano per preparare la
coscienza sociale all'accettazione di un'alternativa socialista" (11).

Anche gli osservatori più ostili all'esperienza bielorussa (e basta
scorrere la stessa stampa "liberale" di Mosca) sono costretti a
riconoscere che la Bielorussia non ha mai conosciuto gli stessi
livelli di degradazione dei servizi sociali, sanitari, educativi, di
previdenza raggiunti nei paesi emersi dallo sfascio del "sistema
socialista" in URSS e nell'est europeo.

Del resto, della devastazione prodotta dal modello adottato dai paesi
ex sovietici vicini ed anche dei drammatici costi sociali
dell'esperimento attuato nella confinante Polonia, è cosciente la
grande maggioranza della popolazione bielorussa, in misura ben più
rilevante di quanto siamo indotti a credere in Europa occidentale. E'
fuori di dubbio che anche questo fattore può spiegare la relativa
facilità con cui il regime di Minsk riesce a far fronte alla massiccia
pressione propagandistica che viene esercitata dall'Occidente.

Ancora oggi, pur in un quadro di ripresa dell'economia del grande
vicino russo, parzialmente risollevatosi dall' "abisso" eltsiniano e
che può contare sulla felice congiuntura di un mercato energetico
tornato in larga parte sotto controllo statale, la Bielorussia mostra
risultati economici di tutto rispetto e una sostanziale tenuta dello
"stato sociale".

Il già citato Prigarin, nell'analizzare le statistiche fornite dagli
stessi organismi dell'ONU, afferma che la stessa Russia "stando ai
risultati del 2004, segue la Bielorussia di otto posizioni, pur
trovandosi in testa al gruppo dei paesi mediamente sviluppati" (12).

Tali dati sono ben conosciuti nei paesi dell'ex URSS e non mancano di
suscitare le simpatie di parte considerevole della loro opinione
pubblica. Ad esempio, un sondaggio, effettuato ai primi di novembre
2005 da un autorevole istituto demoscopico russo (l' "Istituto
nazionale di inchieste regionali e tecnologie politiche") rilevava
che, tra i cittadini della Federazione Russa, Lukashenko è attualmente
di gran lunga il più popolare tra i leader dei paesi della
Confederazione degli Stati Indipendenti (quasi il 60% delle preferenze
contro il 20% di Juschenko). Del presidente bielorusso verrebbero
apprezzati proprio lo spirito di indipendenza nei confronti delle
pressioni esterne, la coerenza con cui si batte per i processi di
integrazione nello spazio post-sovietico e la cura con cui ha inteso
preservare il sistema di garanzie sociali, ereditato dal passato
sovietico.

Naturalmente le linee di politica estera della Bielorussia e le sue
relazioni commerciali con il resto del mondo sono apparse pienamente
coerenti con le scelte sociali ed economiche della politica interna.
Anche questo contribuisce a spiegare le ragioni della dura ostilità
occidentale. In un continente europeo, ormai integrato nella NATO e
soggetto agli obblighi derivanti dall'adesione al sistema di alleanze
dell'imperialismo, è difficile rassegnarsi alla presenza di un governo
che "rifiuta di applicare una politica di privatizzazioni senza limiti
e che coopera con la Russia, la Cina, l'Iran, il Vietnam, il
Venezuela, che continua a produrre e ad esportare armi, pezzi per
l'industria aeronautica e prodotti relativamente poco costosi per i
mercati del terzo mondo"(13).   

Ma, come abbiamo già detto, gli sforzi più intensi della Bielorussia
sono stati comunque indirizzati alla realizzazione dell'obiettivo
strategico rappresentato dal compimento del processo di unificazione
con il grande vicino russo.

Gli sforzi bielorussi ottenevano un primo successo il 2 aprile 1996,
con la stipula del "Trattato di Unione Russo-Bielorussa", passo
fondamentale verso la realizzazione dell'unificazione politica,
economica e militare tra i due paesi nell'ambito di uno stato unitario.

Al trattato sono seguiti ulteriori passi, attraverso il
perfezionamento di molteplici accordi, soprattutto in materia
economica e doganale, mentre è andata rafforzandosi la collaborazione
anche sul piano militare, fino alla programmazione per la primavera
del 2006 di imponenti manovre  congiunte in territorio bielorusso.      

Con tenacia, in questi anni, Lukashenko ha dovuto far fronte alle
reticenze e, a volte, anche all' ostilità delle elites che si sono
succedute al governo della Russia, soprattutto nella fase di avvio del
processo di integrazione, quando ad opporsi duramente erano i clan
oligarchici legati alla "famiglia Eltsin". Anche nel periodo
dell'amministrazione Putin, soprattutto nella prima fase, la Russia
non ha nascosto di preferire a Lukashenko "un dirigente più
"presentabile" nell'arena internazionale, e soprattutto meno
indipendente nelle sue iniziative" (14).

Ma l'evidente fallimento della politica di apertura verso gli Stati
Uniti (che era sembrata affermarsi dopo il settembre 2001),
specialmente dopo lo scatenamento delle "rivoluzioni colorate" nello
spazio post-sovietico e l'uso strumentale della "questione cecena", ha
tolto qualsiasi dubbio sulle intenzioni dell'amministrazione USA di
voler puntare direttamente al rovesciamento dell'attuale leadership di
Mosca, favorendo l'ascesa al potere di un regime meno indipendente, e
ha  contribuito a determinare un evidente riavvicinamento tra Putin e
il presidente bielorusso.  

Negli ultimi mesi abbiamo così assistito ad un'accelerazione del
processo di unificazione. Nel settembre scorso, il progetto di
costituzione dell' "Unione tra Russia e Bielorussia" è stato definito
nelle sue linee essenziali e il referendum previsto per la sua
approvazione potrebbe già svolgersi nell'ottobre-novembre 2006. Subito
dopo, avverrebbe l'elezione del parlamento e verrebbero creati gli
organi esecutivi dello stato unitario.

Sarà sufficiente tutto ciò per prevenire la realizzazione dei
programmi previsti dagli USA e dalla NATO per la piccola Bielorussia?
E' difficile al momento fare previsioni. Ma una cosa è certa. La
Russia ha tratto lezioni esemplari dall'estendersi delle "rivoluzioni
colorate", individuando le lacune e le sottovalutazioni che hanno
caratterizzato la sua politica estera nei confronti degli inaffidabili
interlocutori occidentali.

Ha ragione un altro studioso, Paul Labarique, quando afferma in un suo
articolo apparso nel sito di "Reseau Voltaire", che per la leadership
russa "la Bielorussia si presenta oggi come l'ultimo avamposto. Un
avamposto solido perché ha già resistito due volte ai tentativi di
rovesciamento. Ed è anche certo che Vladimir Putin è oggi alla ricerca
degli strumenti che possano rafforzare ulteriormente la capacità di
resistenza dei suoi alleati.E' probabile che la recente evoluzione
nella regione costringa presto Mosca a sviluppare i propri mezzi di
ingerenza allo scopo di conservare la propria sfera di influenza e
soprattutto la propria integrità territoriale"(15).

 
NOTE

1) La Bielorussia (Russia Bianca), stato "cuscinetto" tra la Russia e
i paesi dell'Europa orientale e baltica, si estende per 207.600 Kmq. I
bielorussi, che parlano una lingua slava orientale come il russo e che
praticano per l'80% la religione cristiana ortodossa, costituiscono il
78% della popolazione di circa 10 milioni di abitanti. La parte
restante è rappresentata da 1.400.000 russi, da 400.000 ucraini e da
alcune centinaia di migliaia di polacchi. In virtù di un plebiscitario
voto referendario, il bielorusso e il russo sono considerati lingue
ufficiali dello stato. Dall'agosto 1991, il paese, divenuto
indipendente, ha assunto il nome di "Repubblica di Belarus". Tale
denominazione, tuttora in uso, ha provocato numerose riserve, in
quanto riprende la trascrizione tedesca di "Bielorussia", adottata
durante l'occupazione nazista.

2) Una cronaca dettagliata di questi ultimi avvenimenti è stata
fornita dalle agenzie ufficiali russe: in particolare  in
http://www.rian.ru e http://www.strana.ru.

3) Paul Labarique. « La Biélorussie sous pression ». 15 février 2005.
http://www.voltairenet.org/article16220.html#article16220

4) Ad esempio, John Laughland, fiduciario del "British Helsinki Human
Rights Group", ha dimostrato l'infondatezza delle accuse rivolte a
Lukashenko di aver commissionato l'assassinio di alcuni oppositori
politici, scoprendo che essi risiedevano tranquillamente a Londra.
www.guardian.co.uk , 22 novembre 2002. La traduzione dell'articolo,
con il titolo "Il racket di Praga" in
http://www.resistenze.org/ -
popoli resistenti - bielorussia - 16-12-02.

5) Bruno Drweski è Maitre de conférences all'Institut national des
langues et civilisations orientales (INALCO). Direttore della rivista
Le Pensée Libree amministratore di Réseau Voltaire. Tra i suoi lavori,
La Biélorussie, PUF, Paris, 1993.

6) Bruno Drweski. « Les Biélorusses redoutent la « démocratie de
marché ».28 avril 2005.
http://www.voltairenet.org/article16928.html#article16928

7) Ivi

8) Ivi

9) Lukashenko, ancora recentemente nella sede autorevole del Vertice
ONU dei Capi di Stato, ha voluto esprimere un giudizio positivo in
merito all'esperienza storica sovietica: "L'Unione Sovietica,
nonostante tutti gli errori dei suoi dirigenti, rappresentava allora
fonte di speranza e di sostegno per molti stati e popoli. L'Unione
Sovietica assicurava l'equilibrio del sistema globale". Intervento di
Aleksandr Lukashenko al vertice ONU, 15 settembre 2005.

http://www.un.org/webcast/summit2005/statements15/belarus0509115eng.pdf,
tradotto per
http://www.resistenze.org dal Centro di Cultura e
Documentazione Popolare.

Affermazioni di aperto apprezzamento del passato sovietico furono
fatte, alla presenza di Eltsin, dal leader bielorusso nel 1999 in un
intervento davanti ai deputati della Duma di Stato della Federazione
Russa, noto per la sua vis polemica nei confronti dei deputati della
destra liberista: "La gente si pone un interrogativo più che logico:
perché voi, politici, avete dissolto l'Unione in una sola notte, senza
consultare i vostri popoli?Convenite che è un legittimo interrogativo?
(.) Che cosa è stato fatto di degno per l'uomo comune nello spazio
post-sovietico nei dieci anni trascorsi dalla dissoluzione dell'URSS?
Ma guardiamo la verità negli occhi: non è stato fatto assolutamente
nulla. Certo oggi possiamo dire che nell'URSS non tutto rappresentava
l'ideale (.) Ma solo uno spudorato mentitore può affermare che oggi il
popolo vive meglio che in quel paese. E' di moda sbeffeggiare i
bielorussi, che avrebbero il torto di mantenere una robusta nostalgia
per i tempi sovietici. Ma di ciò occorrerebbe solo essere orgogliosi".

Intervento di Aleksandr Lukashenko alla Duma della Federazione Russa.
L'Ernesto. N. 1/2000. Il testo è stato ripreso in
http://www.resistenze.org/ - popoli resistenti -bielorussia - 21-10-04.

10) Aleksey Prigarin, organizzatore della cosiddetta "Piattaforma
marxista" nel PCUS, ai tempi del suo ultimo congresso, è un
economista, esponente di una tendenza marxista russa che formula un
giudizio articolato e critico della complessa esperienza sovietica,
mettendone in rilievo la grandezza, ma non nascondendo i limiti e gli
errori che ne hanno determinato la fine.

11)
http://www.atvr.ru/experts/2005/10/1/6204.html. La traduzione in
Il dibattito tra i marxisti russi sull'esperienza della Bielorussia.
http://www.resistenze.org/ - popoli resistenti - russia 07 -10-05.

12) Ivi

13) Bruno Drweski. « Les Bielorusses redoutent la « democratie  de
marché ». 28 avril 2005.
http://www.voltairenet.org/article16928.html#article16928

14) Ivi

15) Paul Labarique. « Les Biélorusses défendent leurs intérets ».18
février 2005.

http://www.voltairenet.org/article16277.html#article16277

*L'articolo è stato pubblicato nella rivista comunista L'Ernesto (N. 6
Novembre/Dicembre 2005)