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Dizionario del western all'italiana

di Claudio Asciuti - 06/03/2008

 

 
Dizionario del western all'italiana



Il cinema italiano, lo sappiamo tutti, gode di pessima salute. Dopo l’esaltante stagione del neorealismo, e la successiva “onda lunga”, gli autori italiani, ad onta della sopravvalutazione della critica italiana e straniera, seppero cimentarsi in un cinema “alto” nelle intenzioni, ma mediocre nella pratica. In quello di genere, invece, un cinema “popolare” nell’accezione migliore del termine, gli autori usavano carattere e creatività tutti italiani per supplire agli scarsi mezzi e ai minori finanziamenti, realizzando dal nulla oggetti d’arte. Dalla commedia italiana, il cui massimo artefice, Mario Monicelli, fu anche colui che ne curò le esequie; all’ horror e alla fantascienza, che da Riccardo Freda a Mario Bava fecero scuola ovunque, al “poliziottesco” di Ferdinando Di Leo, modello insuperato ancor ora, fino allo “spaghetti western”, che ebbe l’onore di salire agli altari della critica grazie all’ opera di Sergio Leone, fu un susseguirsi di successi; generi che andarono poi spegnendosi per esaurimento o omicidio culturale, ma che riempirono le sale, e che snobbati dalla critica italiana impegnata a seguire invece i capolavori mainstream che non decollavano mai, se ne andarono in giro per il mondo, analizzati, coccolati, studiati e imitati ovunque, fino a quando un certo Quentin Tarantino non divenne una star e spiegò all’attonita nazione che i suoi (e di tanti altri) maestri erano stati proprio gli italiani. Fatto che costituì un certo corto circuito nella critica, con gran giubilo di tutti quelli che avevano continuato a valutare la grandezza del genere con lo sguardo libero da preconcetti. Fra di loro c’è Marco Giusti, uno dei critici italiani più attenti, autore di monografie quanto di analisi sul cinema italiano come Stracult o il leggendario Il grande libro di Carosello (che i tanti “creativi d’agenzia” farebbero bene a studiare, prima d’impestare le reti televisive di spot), a cui si deve il recente Dizionario dello spaghetti western (Mondadori, pag. 695, euro 18,00, 2007), poderosa opera che scheda tutte le pellicole che appartengono a questo genere. Il termine, usato un po’ per scherzo un po’ spregiativamente da critici e operatori, fu non solo l’indicatore di un prodotto nazionale come verrebbe immediatamente da pensare, ma una definizione applicata a pellicole di qualunque nazionalità che corrispondano ai requisiti tipici del genere. Per questo esistono, anche se sembra paradossale, “spaghetti western” tedeschi e turchi, spagnoli e francesi, che l’autore, infatti documenta: un genere dove la sceneggiatura è incentrata sulla trama, con poche divagazioni e scarso studio psicologico dei personaggi; dove l’uso della violenza è portato all’eccesso e alle volte diventa caricaturale; dove il climax dell’azione viene risolto attraverso duelli e sparatorie continue, ma soprattutto dove l’epica del western si dissolve e il film non è più un western, ma un esercizio, una visione abbastanza personale, un modo per far rivivere il genere e rivitalizzarlo attraverso una matrice diversa.
Una lunga e corposa introduzione ci fa la storia del genere, da quello che era il proto-western europeo, alla crisi del western americano, al sorgere del fenomeno nazionale, inizialmente attraverso le grandi parodie con Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello e Walter Chiari, poi con le coproduzioni italo-spagnole, e infine, nel 1964, con Per un pugno di dollari di Sergio Leone, che apre il via ai film di Sergio Corbucci e Duccio Tessari, e in seguito alla grande ondata degli anni Sessanta. Ma quel che sorprende, e Giusti disvela, è il meccanismo alla base del fenomeno; da un lato il totale disinteresse della critica italiana (bisognerà attendere il 1968, quando dai leggendari Cahiers du Cinéma Sylvie Pierre metterà in luce Leone, sdoganando di seguito il genere in tutta Europa e quindi anche in Italia…), dall’altro gli incassi record; il profluvio di pellicole, che da circa quaranta girate nel 1966, salirono a ottanta nel ‘67 e nel ’68, scesero a trenta nel ’69 e nel ’70, per attestarsi poi su una media di una cinquantina l’anno, un numero assolutamente inimmaginabile, soprattutto se rapportato all’asfittico panorama odierno; la perfetta interazione fra studios, società produttrici, società di distribuzione, la collaborazione fra sceneggiatori, registi e attori, e l’intervento dello stato, che con opportune agevolazioni dava una mano alle produzioni.
La scoperta della Spagna, poi, favorì ancora di più il processo. Il boom del genere aveva creato, in Italia, lo sviluppo di ambientazioni, villaggi e fortini, che ben presto divennero costantemente presi d’assalto da troupe, rendendo complesse le prenotazioni e creando liste di attesa; Sette Camini, i monti della Tolfa, Tarquinia, la cava della Magliana, nei dintorni di Roma e Civitavecchia; il Parco dell’Abruzzo, furono i luoghi più gettonati, ma la Spagna, che aveva una lunga tradizione in proposito, costruì interi villaggi western vicino a Madrid, sulle montagne di Guadarrama, a Tabernas vicino alla Sierra Nevada, mentre l’Almeria, che ha il privilegio di possedere l’unico deserto europeo, divenne naturalmente luogo privilegiato per tutte le produzioni. In Spagna la manodopera costava poco, gli alberghi erano di bassa qualità ma economici, abbondavano cavalli e ottimi cavalieri, speso gitani, maestri d’armi, e risolti i problemi con la censura franchista, si potevano realizzare in (relativa) pace i propri film, grazie anche alle leggi spagnoli che permettevano co-produzioni d’ogni genere. La storia di Giusti prosegue, di successo in successo, fino al 1970-71, periodo che segna l’esaurimento del genere, che giungerà alla fine verso il 1977, lasciando spazio al cinema dei “nuovi autori” (dai cui nipoti ancora oggi, dopo tanti anni, non riusciamo a liberarci).
Dopo quest’introduzione si entra nella parte più corposa del testo, il dizionario vero e proprio. Rovistando nella sua enciclopedica memoria, nel suo vasto schedario, muovendosi per tutta Italia a intervistare i protagonisti di quegli anni e compulsando i film (che, a dire il vero, latitano in forma di VHS e DVD ma almeno in parte sono visibili nelle emittenti privati, sebbene sconciati dalle pubblicità), Giusti costruisce una grande ed esaustiva opera che ci porta direttamente al cuore del problema. E cosa ancora più importante, non lo fa con la distanza del critico cinematografico, ma con l’affettività dell’appassionato che (allora) guardava i film con gli occhi dell’infanzia, nel magico mondo degli Anni Sessanta. Ci racconta tutto, ma proprio tutto, su cast, trame e aneddoti di una massa sterminata di pellicole, dimostrando come fosse vitale il genere, e quanta la creatività di sceneggiatori e registi ad inventarsi nuove soluzioni ogni volta.
Così si scoprono man mano i retroscena: i nomi italiani che per esigenze pubblicitarie si trasformano in nomi stranieri; i luoghi, le manovre di produttori onesti che s’indebitano per aiutare i registi e di produttori disonesti che tagliano i fondi ad altri, l’arte di arrangiarsi, tutta italiana, per cui accade che un film venga iniziato da un regista e proseguito da un altro, che un secondo venga composta con i “girati” del primo…
Si scoprono anche variabili molto strane.
Ad esempio che dietro la Meridionale Cinemato-grafica di Paolo Borrato c’era addirittura Romano Mussolini. Grazie a Giorgio Almirante assunse Gianni Crea per dirigere La legge della violenza (1969), con l’appoggio finanziario di Carlo Ponti, marito di Sophia Loren e cognato di Romano, e la presenza di Igli Villani, nipote della Loren. Ma come dice Gianni Crea, Romano era un signore, pagava regolarmente ogni settimana le spese; non era, insomma, adatto a fare il cinema. Ma lo fece, comunque.
Strano? Nossignore, a ben pensarci. Perché il fascismo, che per un mal indirizzato senso autarchico della cultura snobbava il jazz (di cui Romano fu, oltreché ottimo interprete, anche divulgatore ante-litteram), non era tenero neppure con il cinema americano (basti pensare alle tirate di Vittorio Mussolini contro Chaplin e i fratelli Marx), men che mai con il western… salvo premiare alla Biennale di Venezia, con la Coppa Mussolini L’imperatore della California (1936) dell’italo-tedesco Luis Trenker, o permettere a Carlo Koch di girare La signora dell’Ovest (1942), o a Giorgio Ferrosi Il fanciullo del West (1942), anticipazione delle grandi parodie western che vennero con i Sessanta. Perché, aggiunge l’autore, bene o male, allora e dopo, ogni regista o attore europeo era cresciuto con il mito del Far-West e sognava di fare il cow-boy. E solo con gli anni Sessanta fu possibile trasformare un genere cinematografico in un gioco.