La Russia ha continuato a erogare il combustibile all'Ucraina a prezzi da “paese fratello”. Anche quando Jushenko ha proclamato la nazione “un'economia di mercato”. Finché Putin ha deciso di prenderlo in parola e applicare tariffe concorrenziali. Storia di una crisi annunciata.
Che la Russia faccia quello che può per tenere un posto di riguardo in quello che considera il suo cortile di casa è evidente. E l'idea stessa di cortile di casa è inaccettabile, anche secondo la carta dell'Onu. Ma, prima questione, solo gli Stati Uniti hanno diritto di avere un cortile di casa che si espande fino ai confini della Russia?
Secondo punto. La Russia scopre le carte oggi, chiudendo i rubinetti del suo gas all'Ucraina, dopo un lungo limbo di quasi quindici anni in cui ha subìto, più che una trasformazione sociale catastrofica, una disgregazione nazionale e una colonizzazione umiliante. Ma è da quindici anni che - rifiutando di fatto la scomparsa dell'Unione Sovietica - la Russia ha continuato a erogare il suo gas, ai prezzi da “paese fratello”, e chiudendo un occhio sui colossali furti che gli ucraini hanno perpetrato quotidianamente dirottando il gas senza pagarlo. Di fatto la Russia ha finanziato l'Ucraina al ritmo di circa quattro miliardi di dollari l'anno. Fanno 60 miliardi di dollari.
Perché lo ha fatto? Evidentemente perché una parte importante delle leadership russe, sicuramente del popolo russo (a parte Boris Eltsin che fu semplicemente un Quisling), hanno sempre pensato che, prima o dopo, l'Ucraina sarebbe ritornata “naturalmente” insieme alla Russia. La stessa cosa la pensa un buon 40 per cento degli ucraini. Si sbagliavano, probabilmente. Probabilmente si sbaglia anche Putin. Ma è un dato di fatto di cui tenere conto.
Terza questione. Perché mai la Russia dovrebbe continuare a regalare il suo gas al governo ucraino? Se qualcuno ha una risposta positiva a questa domanda si faccia avanti. In realtà nessuno osa nemmeno formularla. Per la banale ragione che sono stati i nuovi dirigenti ucraini, il presidente Jushenko in persona, a chiedere alla Russia - l'ultima volta nel marzo 2005 - di uscire dal “vecchio modello socialista” e di passare a “rapporti di mercato”. Jushenko è stato incoraggiato in questo passo dall'Unione europea, che ha proclamato l'Ucraina “economia di mercato”. La Russia di Putin ha preso entrambi in parola. Il fatto è che Jushenko non ha i denari per pagarsi l'approvvigionamento energetico e prezzi di mercato. Si sapeva, lo sapevano tutti, a Bruxelles e a Varsavia come a Washington. E allora segue la domanda: chi ha spinto l'Ucraina alla crisi con la Russia? E perché?
Io credo che sia il momento del realismo e dell'autocritica dell'Occidente. Naturalmente lo dico con scarsa speranza, avendo letto le imbecillaggini faziose e pregiudizialmente antirusse di quasi tutti i commentatori italiani. E bisogna tornare indietro un attimo, di circa un anno, quando tutta l'Europa - e sullo sfondo gli Stati Uniti - applaudì alla “rivoluzione arancione” di Kiev, e proclamò democratici doc i nuovi dirigenti ucraini, come appunto Jushenko e la miliardaria Timoshenko. Tutta gente della stessa pasta di Kuchma, di Janukovic, dei filo russi usciti sconfitti, ma utili per il piano di portare velocemente l'Ucraina dentro la Nato. Era il terzo successo di un ormai collaudato sistema europeo di “esportazione della democrazia occidentale”. Il primo fu a Belgrado, e portò alla caduta di Milosevic (dopo una sonora dose di bombardamenti non metaforici). Il secondo fu a Tbilisi, Georgia, dove agli Usa non bastava più il vecchio Shevardnadze, per cui vollero al potere un laureato americano. Kiev venne per terza, dopo qualche centinaio di milioni di dollari stanziati per finanziare, sostenere, ispirare i gruppi di giovani e le centinaia di intellettuali che avevano preventivamente stazionato nelle università e nei centri di ricerca americani. Quelli che la vedova di Siniavskij, Rozanova, definì ironicamente «figli del capitano Grant» (grant, in inglese, significa borsa di studio).
Il popolo ucraino ha pieno diritto alla sua sovranità, ed è bene che se la conquisti. Non si può pretendere dalla gente in piazza che faccia i conti e si chieda se può pagarsela. Ma chi conosce le cifre non è scusabile. E non è buona cosa che costoro dettino ai popoli, con i grandi mezzi che hanno, il percorso verso la democrazia. Questa, nel vocabolario politico, si chiama ingerenza negli affari interni di un paese sovrano. Vladimir Putin si è ingerito. George Bush non gli è stato da meno. L'unica differenza è che, in Ucraina, Bush ha vinto, e Putin ha perso. Adesso Putin vuole la rivincita.
Non solo. La Russia di Putin ha mangiato la foglia e non è più disposta a consentire ingerenze nel proprio cortile di casa. Scrivemmo allora, su questo giornale, che era un'illusione l'idea che Putin avrebbe ingoiato anche quest'ultimo spostamento dei confini geopolitici a suo svantaggio. L'Asia centrale era già stato un boccone troppo indigesto. L'Ucraina è parte vitale della storia russa. Tagliarla via con un gesto brusco non è possibile. Solo il tempo e un lungo processo storico possono produrre effetti del genere, e pacifici. Ma a Washington (e a Varsavia) hanno fretta. Una Russia che risale la china e si rimette in piedi non è nei piani dei neocon.
Ma Putin, una volta sistemati i conti interni, dopo aver espropriato il miliardario Khodorkovskij, suo ex alleato, dopo aver eliminato ogni possibilità di opposizione, dopo aver tacitato la Duma e trasformato in camera di consiglieri personali il Consiglio della Federazione, la camera alta, dopo avere piazzato alla testa del Gasprom e di tutti gli altri giganti energetici russi uomini a lui fedelissimi, le sue controfigure, ha sistemato i conti all'interno. E ora può sviluppare una sua controffensiva, usando le leve dell'energia di cui la Russia è più dotata di ogni altro paese al mondo.
Ecco perché Washington ha cercato di forzare la situazione, per mettere in angolo Putin facendo entrare l'Ucraina nella Nato. La prossima mossa sarà quella di innescare un'ennesima “rivoluzione democratica” in Bielorussia. Putin, a sua volta, ha giocato d'anticipo. La crisi dei rapporti tra Russia e Stati Uniti si sta svolgendo a ritmi sempre più veloci.
Ora un accordo quinquennale tra Russia e Ucraina è stato trovato, ma la faccenda non finirà qui. Il percorso verso occidente dell'Ucraina non avverrà senza altre acute frizioni. E l'Europa? L'Europa rischia di essere risucchiata in un disegno che non dovrebbe essere il suo. Ostaggio del revanchismo polacco antirusso, cui fanno corona quelli dei paesi baltici, gli uni e gli altri opportunamente rinfocolati da Washington. La questione della Russia non può essere affrontata in questo modo, cercando di esportare democrazia all'americana. Né si può continuare a usare due pesi e due misure, insegnando la democrazia a Putin mentre truppe europee continuano a stazionare in Iraq, e mentre la Cia organizza prigioni segrete in Europa, con prevalenza nell'Est, dove gli amici degli Stati Uniti sono più numerosi che gli amici dell'Europa.
Ironia della storia, Vladimir Putin ha messo le sue carte sul tavolo proprio il 1 gennaio dell'anno in cui, per la prima volta, la Russia diventa presidente di turno del G8. Inutile storcere il naso, adesso. Chi è stato a volere Boris Eltsin nel G8? Chi ha patrocinato, in Occidente, questa Russia niente affatto democratica, come campione del mercato e della democrazia? Chi ha benedetto il capitalismo di rapina che è stato creato in Russia? Chi ha trafficato con gli oligarchi riciclatori di denaro sporco e esportatori di valuta? La risposta è semplice: noi, l'Occidente, in primo luogo gli Stati Uniti. Putin è la logica conseguenza di tutto questo. Con chi vogliamo prendercela?
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