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Infinito e possibilità nell'ontologia di René Guénon

di Francesco Lamendola - 08/03/2008

 

 

 

Nel precedente saggio intitolato Esiste nel mondo qualcosa di infinito? Tra filosofia e paradossi matematici (sempre sul sito di Arianna Editrice) ci eravamo posti il problema dell'infinito da un punto di vista matematico, a partire dalle riflessioni di Bertrand Russell.

Il filosofo inglese, nella sua opera Introduzione alla filosofia matematica (traduzione italiana Roma, Newton & Compton Editori, 1997, p.131), aveva affermato che:

 

"L'assioma dell'infinito è un postulato che si può enunciare in questo modo:

"Se n è un numero cardinale qualsiasi, esiste almeno una classe di individui che hanno n termini. Se è vero, ne consegue, naturalmente, che esistono molte classi di individui che hanno n termini, e che il numero totale di individui al mondo non è un numero induttivo."

 

Ora, dato che, per Russell, l'espressione "numero induttivo" è più o meno un sinonimo di "numero naturale", avevamo riformulato l'enunciato, dicendo che il numero totale di individui al mondo non è un numero naturale. Inoltre, avevamo esteso tal definizione all'ambito degli insiemi, definendo un insieme infinito quello che contiene infiniti elementi; ovvero quando sia composto da un numero di elementi al quale noi possiamo sempre aggiungere una unità.

E, dal momento che, per quanto grande sia il numero di elementi che noi possiamo pensare, a quel numero possiamo sempre aggiungere una unità, eravamo giunti intuitivamente all'idea dell'infinito matematico.

A quel punto, però, avevamo ricordato che il concetto di infinito matematico era stato messo a dura prova, forse verso il 500 a. C., dalla scoperta delle cosiddette linee incommensurabili; e, inoltre, ci eravamo resi conto del fatto che il concetto "quantitativo" di infinito matematico, inteso come somma d'infiniti punti, era stata scardinata dall'introduzione, nella geometria greca, del punto inesteso, il quale occupa bensì una posizione nello spazio, ma non possiede alcuna dimensione; concetto che può essere espresso in questo semplice enunciato: fra due punti qualsiasi di una linea si può sempre inserire (almeno) un altro punto.

Avevamo poi rilevato che, da quanto detto, scaturivano due paradossi. Il primo consiste nel fatto che, su ciascuna di due linee di diversa lunghezza, troviamo una quantità infinita di punti; mentre il pensiero intuitivo parrebbe suggerirci che nella linea più lunga dovrebbe  essere contenuta una quantità maggiore di punti. Il secondo paradosso è che noi non siamo in grado di affermare con sicurezza se esista un qualsiasi insieme infinito nel mondo, nonostante gli sforzi compiuti in tal senso da  filosofi e matematici del valore di Bolzano, Cantor e   Frege, i quali si sono prodigati per tentare di verificarlo. Bertrand Russell aveva espresso tale paradosso dicendo che (op. cit., pp. 86-88):

 

"Non si può dire che sia sicuro che esista in realtà un qualsiasi insieme infinito nel mondo. L'ipotesi che esista è quello che noi chiamiamo l'assioma dell'infinito."

 

Pertanto, alla domanda se esista, al mondo, qualche cosa di infinito, avevamo dovuto rispondere che   certamente esiste in senso logico-matematico; ma che, in senso fisico e materiale, non siamo in grado né di affermarlo, né di negarlo.

Al tempo stesso, avevamo osservato che entrare, o tentare di entrare, nella logica dell'infinito,  significa in buona sostanza scardinare, i nostri abituali paesaggi concettuali, per avventurarsi in un mondo dove la parte non è minore del tutto, dove la somma non è maggiore degli addendi; dove, inoltre, i giorni non sono minori dei mesi né gli anni sono maggiori delle ore. Ciò significa imparare a guardare alla realtà in modo radicalmente diverso.

I saggi indù e buddhisti e alcuni santi e mistici cristiani lo hanno già fatto, da centinaia o migliaia di anni; i fisici incominciano a farlo solo ora.

 

Tra coloro che si sono accostati al problema dell'infinito in tale prospettiva radicale, rifiutando di identificarlo con l'infinito matematico, il quale, essendo una determinazione, non può coincidere con l'Infinito in quanto tale, spicca la potente personalità di René Guénon (Blois, 15 novembre 1886-Il Cairo, 7 gennaio 1951), filosofo di grande statura e uno dei maggiori esponenti del pensiero tradizionale.

Nella sua ciclopica produzione filosofica che abbraccia un trentennio, dal 1921 al 1951, Guénon ha inteso definire le linee fondanti della Tradizione, ossia trasmettere un patrimonio di simboli e di metodologie ritenuto indispensabile per accedere al sapere metafisico, ossia a un sapere intellettuale intuitivo e sovra-razionale. Solo in quest'ultimo, per Guénon, si realizza la piena identificazione del conoscente e del conosciuto; non già mediante un atto della ragione, come voleva l'idealismo di Giovanni Gentile - criticato, per questo (oltre che per la sua astrattezza), anche da Julius Evola -, bensì per mezzo dell'intelletto superiore, ossia di una facoltà trascendente, che partecipa sia dell'elemento umano sia di quello divino.

Nella tradizione Yoga, ciò rinvia al settimo chakra, denominato Sahasrara, che non si trova al centro della fronte - tale è la posizione del sesto chakra, ossia Ajna -, ma più in alto, alla sommità della testa; e che non coincide, in sostanza, con una parte del corpo ben definita, ma rinvia a una sfera trascendente, cosmica, e al tempo stesso, tuttavia, ingloba e riassume in sé tutte le funzioni dei chakras sottostanti.

Scrive Anodea Judith in Chakras, ruote di vita (edizione originale Wheels of Life, 1987; traduzione italiana di Enrica Viziale, Miulano, Armenia Editore, 1989, p. 314):

 

"Siamo finalmente arrivati al termine del viaggio - al loto ai mille petali che sta, come un alone, sulla sommità della testa. Qua troviamo il settimo chakra, noto anche come «il chakra della corona, perchè 'corona' l'intero sistema». E infatti, corona è il termine adatto perché simboleggia un essere nel suo stato più elevato, regale e glorificato. È il centro della «coscienza cosmica»- uno stato di ordine superiore, che regola tutto ciò che ha dentro di sé.

"Il chakra della corona rappresenta le strutture del pensiero conscio e inconscio - le credenze che governano le nostre azioni. Non si tratta però di dominazione, ma di armonia; infatti la chiave di saggezza di questo chakra sta nel conoscere l'armonia interpenetrante di ciascuna delle dimensioni fino a questo momento esplorate.

"In sanscrito, questo chakra è detto Sahasrara, che significa millefoglie, con riferimento ai petali del loto. Quando si raggiunge questo livello, il piccolo e timido seme della Terra è risalito attraverso acqua fuoco, aria, suono e luce fino a fondersi con le energie celestiali. Ora fiorisce come un veicolo di coscienza pienamente realizzato con i suoi mille petali che si irradiano dalla sommità della testa  come un'antenna privata, raggiungendo le più alte dimensioni. I mille petali rappresentano anche la natura infinita del chakra - l'espansione della coscienza che tutto racchiude in sé."

 

Eccoci di nuovo alle prese, dunque, con il concetto di infinito: il settimo chakra rappresenta lo stato di illuminazione in cui cade ogni barriera tra interno ed esterno, tra soggetto e oggetto, tra finito e Infinito.

E l'analogia con il concetto guénoniano di intuizione intellettuale non razionale, raggiungibile solo mediante lo strumento dell'intelletto superiore, diviene ancora più chiara quando passiamo a considerare la natura e la funzione conoscitiva del settimo chakra. Diamo ancora la parola all'Autrice di cui sopra (Ibidem):

 

"È questo chakra che gli Indù hanno sempre considerato come la sede dell'illuminazione, il centro e la sorgente della coscienza stessa. Questo stato di coscienza era visto come qualcosa al di là della ragione, al di là dei sensi, e al di là dei limiti del mondo circostante. Il modo degli Indù di raggiungere questo stato consisteva nel ritrarsi dai sensi. Tramite la separazione dal mondo, si conquista l'accesso all'illuminazione della mente. È il settimo chakra, perciò, ad essere sempre stato lo scopo, mentre gli altri chakra sono soltanto i gradini da salire per ottenere la realizzazione."

 

Tornando a Guénon - che, comunque, pur facendo riferimento a un orizzonte spirituale vastissimo, compreso quello indù, finì per volgersi risolutamente verso quello musulmano, tanto da abbracciare l'islamismo e da riconoscersi pienamente nella tradizione sufi - ci sembra di particolare interesse riflettere sulle sue considerazioni sui concetti di Infinito e di Possibilità.

Per comprenderle a pieno, è necessario tener presente, da un lato, il suo rigoroso non-dualismo e la sua concezione radicalmente altra dell'Assoluto, tanto da fargli sostenere che l'Essere non coincide con l'Infinito, perché, in quanto Essere, «non racchiude l'intera Possibilità»; dall'altro, la dottrina dei cicli cosmici (cfr. le "quattro età" della mitologia greca), per cui noi stiamo ora vivendo alla "fine dei tempi", quando la spiritualità primordiale verrà interamente rovesciata.

Proprio per quest'ultima ragione, Guénon non si stancò mai di mettere in guardia contro le illusioni e gli inganni dei certe forme di neo-spiritualismo, le quali, mediante una confusione tra ciò che pertiene all'ordine psichico e ciò che pertiene, invece, all'ordine spirituale, vorrebbero far credere che sia possibile conseguire un progresso spirituale, semplicemente esasperando forme di psichismo inferiore. Ma proprio nel trionfo dello psichismo inferiore, per la dottrina tradizionale, culmina la dissoluzione propria della "fine dei tempi", ossia quel rovesciamento della vera spiritualità, di cui abbiamo già detto.

D'altra parte, per Guénon, la "fine dei tempi" non potrà che dissolversi immediatamente, avendo, per sua stessa natura, un carattere illusorio, consistendo essa nel portare a compimento l'estrema possibilità dell'attuale ciclo del genere umano; dopo di che avrà inizio  un nuovo ciclo, che vedrà la piena restaurazione della Tradizione primordiale.

E quest'ultimo concetto ci riporta a quello di Possibilità, il quale, al contrario di quello di Essere, egli considera come sinonimo di Infinito.

 

Riportiamo qui alcune pagine significative del saggio di René Guénon Gli stati molteplici dell'essere, pubblicato per la prima volta nel 1932 (titolo originale: Les états multiples de l'être), dopo opere fondamentali come Errore dello spiritismo(1923), L'esoterismo di Dante (1925), Il re del mondo e La crisi del mondo moderno (1927), Il simbolismo della Croce (1931) e prima de Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi (1945), La Grande Triade e I principi del calcolo infinitesimale (1946).

Il testo cui facciamo riferimento, nella traduzione italiana di Lorenzo Pellizzi per le Edizioni Adelphi di Milano (1996, pp. 19-27), è basato sulla edizione francese delle Éditions de la Maisnie, Paris, 1984.

 

"Per comprendere appieno la dottrina della molteplicità degli stati dell'essere, occorre risalire, prima di qualsiasi altra considerazione, alla più primordiale delle nozioni, quella dell'Infinito metafisico, considerato nei suoi rapporti con la Possibilità universale. L'Infinito, secondo il significato etimologico del termine che lo designa, è ciò che non ha limiti; e, per mantenere a questo termine il senso che gli è proprio, è necessario riservarne rigorosamente l'impiego  alla designazione di ciò che non ha assolutamente alcun limite,  a esclusone di tutto ciò che è soltanto sottratto ad alcune limitazioni particolari pur rimanendo soggetto ad altre limitazioni in virtù della sua stessa natura, cui queste ultime sono essenzialmente inerenti, come lo sono - dal punto di vista logico - che in definitiva rispecchia a suo modo il punto di vista  che potremmo chiamare 'ontologico' -, gli elementi che intervengono nella definizione stessa di ciò di cui si tratta. Tale è in particolare il caso (…) del numero, dello spazio, del tempo, anche nei concetti più generali e ampi che sia possibile formarsene, e che oltrepassano di molto le nozioni correnti di numero, spazio e tempo; tutto ciò in realtà può soltanto appartenere all'ambito dell'indefinito. A questo indefinito, quando è di ordine quantitativo, come negli esempi sopra ricordati, alcuni danno impropriamente il nome di «infinito matematico», come se l'aggiunta di un epiteto o di una qualificazione determinativa alla parola 'infinito' non implicasse già di per sé una pura e semplice contraddizione.  Di fatto l'indefinito, procedendo dal finito di cui è soltanto un'estensione o uno sviluppo, ed essendo di conseguenza sempre riducibile al finito, non è in alcun modo paragonabile al vero Infinito, non più di quanto l'individualità, umana o di alcun altro genere, pur con tutti i prolungamenti indefiniti  di cui è suscettibile, possa essere paragonabile all'essere totale. La formazione dell'indefinito a partire dal finito, di cui si ha un esempio chiarissimo nella generazione della serie dei numeri, è infatti possibile solo a condizione che il finito contenga già in potenza l'indefinito e, se anche i limiti venissero spostati fino a essere i un certo senso persi di vista, cioè fino a sfuggire ai nostri consueti strumenti di misura, essi non sono per questo in alcun modo soppressi; è del tutto evidente, per la natura stessa del rapporto causale, che il 'più' non può scaturire dal 'meno', né l'Infinito dal finito.

"E non può essere altrimenti quando si tratta, come nel caso da noi preso in esame, di particolari ordini di possibilità, evidentemente limitati dalla coesistenza con altri ordini di possibilità e quindi dalla loro stessa natura, la quale prevede determinate possibilità e non tutte le possibilità senza restrizione. Se così non fosse, la coesistenza di una indefinità di possibilità diverse non comprese nelle prime, ciascuna delle quali è d'altra parte ugualmente suscettibile di uno sviluppo indefinito, sarebbe una impossibilità, ossia un'assurdità nel senso logico del termine. Al contrario, l'Infinito, per essere veramente tale, non può ammettere alcuna restrizione, il che lo presuppone assolutamente incondizionato e indeterminato,  poiché ogni determinazione, qualunque sia, è necessariamente una limitazione, proprio in quanto lascia qualcosa all'esterno di sé, vale a dire tutte le altre determinazioni ugualmente possibili. D'altra parte, la limitazione presenta il carattere di una vera e propria negazione: porre un limite significa negare, in ciò che da esso è racchiuso, tutto ciò che tale limite esclude; di conseguenza la negazione di un limite è propriamente la negazione di una negazione, vale a dire, in termini logici ma anche matematici, un'affermazione, sicché la negazione di ogni limite equivale in realtà all'affermazione totale e assoluta. Ciò che non ha limiti è ciò di cui nulla si può negare, dunque ciò che tutto contiene, ciò al di fuori del quale non vi è nulla; e questa Idea dell'Infinito, che è la più affermativa di tutte, poiché comprende o racchiude tutte le altre affermazioni particolari, quali che siano, è espressa con un termine di forma negativa proprio per la sua assoluta indeterminatezza. Nel linguaggio, infatti, ogni affermazione diretta è necessariamente particolare e determinata, è l'affermazione di qualcosa, mentre l'affermazione totale e assoluta non corrisponde ad alcuna affermazione particolare ad esclusione di altre, poiché le implica tutte in ugual modo; ed è facile intuire fin d'ora il rapporto strettissimo fra tutto ciò e la Possibilità universale, la quale comprende parimenti tutte le possibilità particolari.

"L'idea dell'Infinito, quale è stata da noi qui enunciata dal punto di vista metafisico, non è in alcun modo discutibile o contestabile, poiché non può racchiudere alcuna contraddizione, proprio in quanto non contiene alcunché di negativo; essa è inoltre necessariamente, nel senso logico del termine, perché la sua negazione  sarebbe contraddittoria. Infatti, se si considera il 'Tutto' in senso universale e assoluto,  è evidente che non può essere limitato in alcun modo, poiché potrebbe esserlo soltanto da qualcosa i esterno, e se esistesse qualcosa di esterno a esso, il 'Tutto' non sarebbe tale. È inoltre importante notare che il 'Tutto', inteso in questo senso, non deve assolutamente essere assimilato a un tutto particolare e determinato, cioè a un insieme composto di parti che stanno con quel tutto in un rapporto definito; esso, a rigor di termini, è «privo di parti», poiché, dovendo tali parti essere necessariamente relative e finite, non avrebbero con il 'Tutto' alcuna misura comune, né quindi alcun rapporto, il che equivale a dire che per l'Infinito le parti non esistono; e questo è sufficiente a dimostrare che non si deve tentare di formarsene alcun concetto particolare.

"Quanto si  è detto sul Tutto universale, nella sua assoluta indeterminazione, vale anche se lo si considera dal punto di vista della Possibilità; e, a dire il vero, non si tratta di una determinazione, o per lo meno si tratta del minimo di determinazione necessario perché divenga per noi effettivamente concepibile, e soprattutto in certa misura esprimibile. Come già abbiamo avuto occasione di esprimere, un limite alla Possibilità totale è, nel denso proprio della parola, una impossibilità, poiché, dovendo includere la Possibilità stessa, per poterla limitare, non potrebbe esservi incluso, e ciò che è fuori del possibile non può essere altro che impossibile; ma una impossibilità, non essendo altro che una negazione pura e semplice, un vero e proprio nulla, non può ovviamente limitare alcunché, e da ciò consegue immediatamente che la Possibilità universale è necessariamente illimitata. Occorre però fare attenzione, poiché questo vale naturalmente solo per la Possibilità universale e totale, che è ciò che potremmo chiamare un aspetto dell'Infinito, da cui non è distinta in alcun modo né in alcuna misura; nulla può esservi all'infuori dell'Infinito, poiché ciò sarebbe una limitazione, e l'Infinito non sarebbe più tale. Concepire una «pluralità di infiniti» è una assurdità, perché essi si limiterebbero l'un l'altro, sicché, in realtà, nessuno di essi sarebbe infinito; quando dunque diciamo che la Possibilità universale è infinita o illimitata, ciò va inteso nel senso che non è cosa diversa dall'Infinito stesso considerato sotto un determinato aspetto, nella misura in cui è consentito dire che esistono aspetti dell'Infinito. Dato che l'Infinito è veramente «senza parti», a rigore non si può nemmeno parlare di una molteplicità di aspetti in esso realmente e 'distintivamente' esistente; siamo noi, in realtà a concepire l'Infinito sotto diversi aspetti, perché non ci è dato fare altrimenti e, anche se la nostra concezione non fosse essenzialmente limitata, come di fatto è fintanto che rimaniamo in uno stato individuale, essa dovrebbe comunque limitarsi, per divenire esprimibile, poiché per questo deve rivestirsi di una forma determinata. Quel che conta, però, è comprendere appieno ciò da cui nasce e dipende la limitazione, in modo da attribuirla soltanto alla nostra stessa imperfezione - o piuttosto a quella degli strumenti interiori ed esteriori di cui attualmente disponiamo in quanto esseri individuali che, come tali, possiedono soltanto un'esistenza definita e condizionata - e senza trasferire tale imperfezione, puramente contingente e transitoria come le condizioni cui si riallaccia e da cui discende, nell'ambito illimitato della stessa Possibilità universale.

"Aggiungiamo ancora un'ultima osservazione: se parliamo dell'Infinito e della Possibilità come correlati, non è per stabilire fra questi due termini una distinzione che in realtà non può esistere; vogliamo dire che l'Infinito è considerato allora più particolarmente nel suo aspetto attivo, mentre la Possibilità ne è l'aspetto passivo; però, sia esso considerato da noi come attivo o come passivo, sai tratta sempre dell'Infinito, che non può essere toccato da tali punti di vista contingenti, e le determinazioni, qualunque sia il principio in base a cui le si voglia effettuare, esistono qui soltanto in rapporto al nostro pensiero. Si tratta in definitiva di ciò che altrove abbiamo chiamato, seguendo la terminologia della dottrina estremo-orientale, «perfezione attiva» (khien) e «perfezione passiva» (khouen), in quanto la Perfezione, in senso assoluto, è identica all'Infinito inteso nella sua totale indeterminatezza; e, come abbiamo detto allora, esse sono analoghe - ma a un grado differente e da un punto di vista assai più universale - a quelle che nell'Essere sono l'«essenza» e la «sostanza». Occorre avere ben chiaro fin d'ora che l'Essere non racchiude l'intera Possibilità e, di conseguenza, non può in alcuna maniera venire identificato con l'Infinito; per questo sosteniamo che il punto di vista da noi qui adottato è assai più universale di quello che prende in considerazione soltanto l'Essere; vi abbiamo accennato solo per evitare ogni confusone…".

 

Per capire a fondo questo brano e per meditarlo adeguatamente, consigliamo il lettore di leggere integralmente l'opera di Guénon Gli stati molteplici dell'essere, e specialmente il secondo capitolo, dedicato al concetto di Possibili e compossibili, e il capitolo terzo, dedicato all'Essere e al Non-Essere.

Riteniamo, infine, di fare cosa utile al lettore, ricordandogli che alcuni aspetti del problema dell'infinito sono già stati da noi trattati in una serie di precedenti saggi (consultabili sempre sul sito di Arianna Editrice), tra i quali, oltre al già citato Esiste nel mondo qualcosa di infinito? Tra filosofia e paradossi matematici, ricordiamo:

-         Il punto è, per Euclide, qualcosa di esteso o di inesteso?;

-         Bernhard Bolzano e la rinascita della logica formale come dottrina della scienza;

-         Conoscere è ricordare. Struttura e temi del Menone platonico.