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Capitali evasivi: le nostre economie non sanno redistribuire la ricchezza, che ora fugge a oriente

di Loretta Napoleoni - 08/03/2008

Fonte: internazionale

 
L'indagine sugli evasori fiscali in Liechtenstein spiega le ragioni della crisi di questi mesi: le nostre economie non sanno redistribuire la ricchezza. Che ora sta fuggendo verso oriente


L'evasione fiscale è nel mirino dell'Unione europea. La cancelliera tedesca Angela Merkel, dopo la scoperta di una lista di grandi evasori europei, ha accusato il Liechtenstein, uno dei paradisi fiscali del vecchio continente, di essere stato loro complice. Finlandia, Svezia, Norvegia e Paesi Bassi hanno fatto quadrato intorno al governo tedesco e Londra, anche se con riluttanza, si è unita al gruppo.

Ma i 1.400 nomi in mano alle autorità tedesche sono solo la punta dell'iceberg di un fenomeno che da anni impoverisce l'Europa. Dagli anni novanta il fallimento delle politiche occidentali per redistribuire equamente la ricchezza creata dalla globalizzazione ha prodotto due fenomeni sconcertanti. Il primo è la nascita di una casta di grandi ricchi al di sopra di tutto – anche della legge – che regolarmente evade o aggira le tasse. Il secondo è la caduta dei tassi di crescita del pil mondiale.

Il risultato è che viviamo in un mondo popolato da molti più ricchi ma anche e soprattutto da molti più poveri. Secondo Milton Friedman, teorico dell'economia dell'offerta, il miglior modo per redistribuire la ricchezza è affidarsi al libero mercato: ecco perché dall'inizio degli anni ottanta non si parla d'altro che di sgravi fiscali per le classi più ricche. Eppure in occidente il reddito pro capite al netto dell'inflazione è più basso oggi che negli anni settanta. Che Friedman si sia sbagliato? È probabile: l'economia non è certamente una scienza esatta.

Il New labour di Tony Blair ha costruito sui princìpi del neoliberismo americano un'alleanza pericolosa con i nuovi ricchi della globalizzazione. Sfruttando una legge vittoriana che non tassava i redditi dei latifondisti inglesi prodotti all'estero, ha trasformato Londra nel più ambito paradiso fiscale europeo per i ricchi stranieri, i cosiddetti non domiciliati. Tra i residenti con domicilio fiscale all'estero ci sono oligarchi russi, miliardari francesi e anche uomini d'affari italiani.

Secondo l'Istituto per il commercio internazionale (Ici) di Londra, 367 aziende italiane con un numero complessivo di 46.345 impiegati approfittano di questa legge. E così un fatturato di 14 miliardi di sterline l'anno, cioè circa 18 miliardi di euro, rimane esentasse. Fino a oggi il fisco italiano non ha potuto avanzare pretese su quei soldi, ma da aprile li potrà finalmente tassare.

Il premier britannico Gordon Brown ha infatti ceduto alle richieste dell'Unione europea e a quelle del leader dell'opposizione conservatrice, David Cameron, e dal 2008 tasserà gli "intassabili". Un coro di proteste si è subito levato nella capitale britannica: la Cbi, l'equivalente della nostra confindustria, l'Ici e tutte le camere di commercio straniere, tra cui perfino il Baltic exchange, che regola il traffico delle merci via mare, hanno contestato la decisione del governo britannico.

Tassare i non domiciliati vuol dire ridurre il giro d'affari che fino a oggi ha fatto di Londra la capitale finanziaria del mondo. "Perché?", chiedono i difensori del neoliberismo di Friedman. In un mondo globalizzato i super ricchi si trasferiranno da qualche altra parte, lo stato non intascherà le loro tasse e l'economia perderà il loro contributo. Giusto. Il centro di Londra è infatti invaso dai camion dei traslochi: gli "intassabili" stanno facendo le valigie per trasferirsi in Svizzera.

La riduzione dei privilegi fiscali dei grandi ricchi e la linea dura con i grandi evasori arriva in un momento drammatico dell'economia occidentale, quando i governi finalmente stanno facendo i conti con le conseguenze disastrose dell'economia e della finanza neoliberista, cioè con i princìpi di Milton Friedman. Un'economia che è stata mal gestita proprio da quelli che hanno ottenuto più vantaggi dalla globalizzazione, quelli che Tom Wolfe definiva nel Falò delle vanità "i padroni dell'universo".

Sicuramente si tratta di una manovra politica per riguadagnare il consenso degli elettori preoccupati per la gravità delle crisi economiche e per la frequenza con cui si ripetono. Il crollo del mercato dei mutui a rischio statunitensi fa stragi settimanali in Europa: l'ultima vittima è la tedesca Dz Bank, che alla fine di febbraio ha subìto una perdita di 1,3 miliardi di euro su un portafoglio di 26 miliardi investiti nei mutui a rischio americani.

A monte naturalmente c'è più di un decennio di politica deflazionista (neoliberista anche questa) da parte della Federal reserve statunitense, che ha sistematicamente tagliato il costo del credito in America ogni volta che c'era maretta sui mercati. Ma anche la trasformazione del debito americano in un bene da scambiare ha avuto il suo peso. Tutte le banche internazionali che hanno acquistato titoli statunitensi sono adesso travolte dall'uragano dei mutui subprime.

Speculatori e fondi

Inoltre la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi eletti ha creato grandi riserve di liquidità che sono confluite negli hedge funds, fondi d'investimento esentasse perché situati in giurisdizioni fiscali vantaggiose, come quella della city di Londra.

Dal 2000 questi fondi cavalcano la tigre della speculazione che sta erodendo la domanda reale di molti prodotti, da quelli energetici a quelli alimentari fino ai metalli preziosi. Da gennaio, da quando cioè l'oro ha superato i 900 dollari l'oncia, la domanda dei gioiellieri è evaporata e il mercato è nelle mani degli speculatori.

Ma è nel settore energetico che le conseguenze del neoliberismo finanziario alla Friedman cominciano a essere disastrose per l'occidente. L'impennata dei prezzi sta provocando una redistribuzione del reddito mondiale a favore dei paesi produttori di petrolio e delle economie asiatiche emergenti, come Cina e Taiwan.

Le bilance dei pagamenti di questi paesi sono andate in attivo da quando il prezzo del petrolio si è quintuplicato, le esportazioni dei prodotti a basso prezzo, primi tra tutti i falsi, hanno invaso i mercati occidentali ed è aumentato l'uso della manodopera asiatica da parte dell'industria occidentale.

Questo equivale a un enorme trasferimento di ricchezza monetaria da occidente verso oriente. E una parte di questa ricchezza confluisce nei fondi sovrani, cioè nei fondi statali indipendenti dalle banche centrali, alle quali spetta la gestione delle riserve monetarie. I fondi sovrani sono il braccio armato dei paesi emergenti nell'economia globalizzata. Il loro volume totale stimato è di 2.800 miliardi di dollari, equivalente all'8 per cento dell'economia mondiale, e si prevede che nei prossimi dieci anni continueranno a crescere a un ritmo sostenuto, fino a raggiungere i 13.400 miliardi di dollari.

I fondi sovrani sono quindi immense riserve di liquidità in crescita, mentre la crisi dei mutui americani sta prosciugando le riserve di liquidità delle banche e delle società finanziarie occidentali. E da qualche mese i fondi sovrani stanno acquistando azioni dei colossi finanziari ed economici occidentali che hanno perso valore con i ripetuti crolli delle borse mondiali: la Qatar investment authority si è assicurata una partecipazione in Credit Suisse, Abu Dhabi ha investito 7,5 miliardi di dollari in Citigroup e il Kuwait 6,6 miliardi di dollari in Merrill Linch. Nel 2007 la Cina aveva acquistato una fetta importante di Blackstone, il più grande fondo privato statunitense.

L'alleanza dei fondi sovrani con quelli privati, i cosiddetti private equity, che acquistano società quotate in borsa per riportarle nelle mani dei privati, è l'ultimo colpo di scena nella saga del neoliberismo. La raccolta del denaro non avviene più a Wall street o nella city di Londra: i private equity attingono direttamente ai ricchissimi fondi sovrani. "In realtà le borse mondiali stanno uscendo dalla ribalta.

L'Abu Dhabi investment authority (Aaia), il fondo sovrano più ricco del mondo, rimpiazzerà presto Wall street", ha dichiarato David Rubenstein, capo del gruppo Carlyle, che a settembre ha ceduto il 7,5 per cento del suo gruppo proprio all'Aaia.

I ricchi emigrano a oriente

I grandi cambiamenti provocati da questi spostamenti di ricchezza danno l'impressione che l'economia mondiale stia crescendo a un ritmo frenetico. Invece è il contrario.

Il tasso di crescita del pil mondiale reale, cioè al netto dell'inflazione, è oggi più basso che all'inizio degli anni cinquanta, quando l'Europa si stava riprendendo dalla seconda guerra mondiale. Allora il pil mondiale reale cresceva tra il 5 e il 6 per cento, oggi le previsioni per il 2008 oscillano tra il 3 e il 3,6 per cento.

La causa è paradossalmente l'inflazione, il nemico che Friedman pensava di sconfiggere con i soli strumenti del mercato. È infatti dalla prima crisi petrolifera del biennio 1973-1974 che la crescita reale è sotto i livelli degli anni del dopoguerra.

La redistribuzione neoliberista del reddito ha quindi reso il mondo più povero anche se ha creato una nuova classe di grandi ricchi. La linea dura con chi, tra questi grandi ricchi, evade e aggira le tasse in Europa arriva pericolosamente tardi. L'asse finanziario del mondo si sta spostando a oriente, ed è probabilmente in questa direzione che i grandi ricchi del neoliberismo globalizzato presto emigreranno.