Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Una pagina al giorno: la cavalla morta di Curzio Malaparte

Una pagina al giorno: la cavalla morta di Curzio Malaparte

di Francesco Lamendola - 10/03/2008

 

 

"Già scendeva la sera, le fucilate dei partigiani bucavano l'immensa bandiera rossa del tramonto, che sventolava in fondo all'orizzonte, nel vento polveroso. Ero giunto ormai a poche miglia da Nemirowskoie, presso balta, in Ucraina. Era l'estate del 1941. Volevo spingermi fino a Nemirowskoie, per passarvi al sicuro la notte. Ma era già buio, e scelsi di fermarmi in un villaggio abbandonato, in fondo a una di quelle vallate che tagliano l'immensa pianura fra il Dniester e il Dnieper.

"Il villaggio si chiamava Alexandrowka. In Russia, i villaggi si assomigliano tutti, anche nel nome. Ci sono molti villaggi che si hanno il nome di Alexandrowka, nella regione di Balta.  Ce n'è uno a ovest di Gederimova, sulla strada di Odessa, dove passa la ferrovia elettrica; un altro a circa nove miglia a nord di Gederimowa. Quello dove m'ero fermato per trascorrere la notte era presso Nemirowskoie, sulle rive del fiume Kodima.

"Avevo lasciato la macchina, una vecchia Ford, sul lato della strada, contro lo steccato che circondava l'orto di una casa di aspetto civile. Presso il cancelletto di legno che si apriva nello steccato era distesa una carogna di cavallo. Mi fermai un momento a osservarla: era una magnifica giumenta, dal mantello rosso scuro, dalla lunga criniera bionda. Giaceva riversa sul  fianco, le zampe posteriori immerse in una pozzanghera. Spinsi il cancello, attraversai l'orto, appoggia la mano contro la porta, che si aprì cigolando. La casa era abbandonata: i pavimenti delle stanze apparivano sparsi di carte, di paglia, di giornali, di indumenti. I cassetti dei mobili erao aperti, gli armadi spalancati, i letti disfatti. Non era certo la casa di un contadino; forse quella di un ebreo. Il materasso del letto, nella stanza dove scelsi di coricarmi, era sventrato. I vetri della finestra apparivano intatti. Faceva caldo. «Il temporale»,pensai chiudendo la finestra.

"Nell'incerta luce della sopravvenuta notte splendevano nell'orto i grandi occhi neri dei girasoli, dalle lunghe ciglia dorate. Mi guardavano stupiti, dondolando la testa nel vento già umido di pioggia lontana.  Sulla strada passavano soldati romeni di cavalleria, tornavano dall'abbeverata conducendo per la cavezza i bei cavalli dai fianchi pieni, dalle criniere bionde. Le uniformi color sabbia  facevano nell'ombra macchie giallastre, parevano grossi insetti invischiati  nell'aria densa e viscida del temporale imminente. I gialli cavalli li seguivano, sollevando un nembo di polvere.

"Avevo ancora un po' di pane d i formaggio nel mio saco da montagna, e mi misi a mangiare, camminando in su e in giù per la stanza.  M'ero tolto gli stivali, e camminavo a piedi nudi sul pavimento di terra battuta, percorso da colonne d grosse formiche nere. Sentivo le formiche arrampicarsi su per i miei piedi, penetrar fra un dito e l'altro,  salire ad esplorar la caviglia. Ero stanco morto, non riuscivo neppure a masticare, tanto avevo le mascelle pesanti, i denti indolenziti dalla fatica. Mi buttai finalmente sul letto, chiusi gli occhi, e non potevo pigliar sonno. Ogni tanto qualche fucilata vicina, lontana, bucava la notte; erano gli spari dei partigiani partigiani, nascosti nei campi di grano e nelle selve di girasoli che coprono tutta l'immensa pianura ucraina, verso Kiew, verso Odessa. E a mano a mano che la notte si faceva più densa, un odore di carogna di cavallo si scioglieva nell'odore dell'erba e dei girasoli. Non potevo dormire. Ero disteso sul letto a occhi chiusi, e non potevo pigliar sonno, tanto la fatica mi doleva nelle ossa.

"All'improvviso, l'odore della cavalla morta entrò nella stanza, si fermò sulla soglia. Sentivo che l'odore mi guardava. «È la cavalla morta» pensai nel dormiveglia. L'aria era pesante come una coperta di lana, il temporale schiacciava i coperti di paglia del villaggio, premeva con tutto il suo peso sugli alberi, sul grano, sulla polvere della strada. Il rumore del fiume giungeva a tratti, come un fruscio di piedi scalzi nell'erba, La notte era nera, , densa e viscida come miele nero. «È la cavalla morta», pensai.

"Attraverso i campi veniva un cigolio di carri, di quelle caruzze romene e ucraine a quattro ruote, trainate da cavallucci magri e pelosi,  che seguono gli eserciti carichi di munizioni, di indumenti, di armi, sulle interminabili piste dell'Ucraina., Veniva attraverso i campi il cigolio dei carri. Pensai che la giumenta morta si fosse trascinata sulla soglia della stanza e ora dalla soglia mi guardasse. Non so, non saprei dire come mi venne da pensare che la cavalla morta si fosse trascinata fin sulla soglia della stanza. Ero stanco morto, ero tutto invischiato nel sonno, non riuscivo a dipanar e idee, era come se il buio, il caldo, e l'odore della carogna riempissero la stanza di un fango nero e viscido, dove, affondando a poco a poco, mi dibattevo sempre più debolmente. E non so come,  pensai che forse la cavalla non era del tutto morta, era soltanto ferita, e già fosse marcia nella parte ferita, già si disfacesse, e tuttavia fosse viva: come quei prigionieri che i tartari legano vivi ai cadaveri, il ventre contro il ventre, il viso contro il viso, la bocca sulla bocca, finché il morto mangia il vivo. Eppure quell'odore di carogna era sulla porta, e mi guardava.

"A un tratto sentii che si avvicinava, che si accostava lentamente al mio letto. «Via, via!», gridai in romeno, «merge! merge!». Poi pensai che forse la cavalla morta non era romena, ma russa, e gridai: «Pasciol, pasciol!». L'odore si fermò. E dopo un istante riprese ad avvicinarsi lentamente al mio letto. Allora ebbi paura, afferrai la pistola che avevo ficcata sotto il materasso, e balzato a sedere sul letto premei lo scatto della mia lampada elettrica.

"La stanza era vuota, la soglia era deserta. Scesi dal letto, e a piedi nudi mi avvicinai alla porta, mi avvicinai alla soglia. La notte era vuota. Uscii nell'orto. I girasoli scricchiolavano dolcemente nel vento, il temporale incombeva all'orizzonte, pareva un enorme polmone nero, che respirava a fatica. Gonfio, vuoto, come un enorme polmone. Vedevo il cielo dilatarsi, restringersi, vedevo il cielo respirare, bagliori sulfurei tagliavano di sbieco quell'enorme polmone, illuminando per un istante l'albero delle vene e dei bronchi. Spinsi il cancelletto di legno, uscii sulla strada. La carogna giaceva riversa nella pozzanghera, la testa posata sul ciglio polveroso della strada. Aveva la pancia gonfia, tutta screpolata. L'occhio splendeva sbarrato, umido e tondo. La bionda criniera polverosa, imbrattata di croste di sangue e di fango, si drizzava rigida sul collo, come le criniere equine degli elmi degli antichi guerrieri. Mi sedei sul ciglio della strada, le spalle appoggiate allo steccato. Un uccello nero fuggì via con un volo nero e silenzioso. Fra poco pioverà. Il cielo era percorso da invisibili raffiche , nubi di polvere passavano lungo la strada, con lieve e lungo sibilo, i granelli di polvere mi bucavano il viso, le palpebre, mi camminavano nei capelli come formiche. Fra poco pioverà. Rientrai in casa, mi buttai sul letto. Mi dolevano le braccia e le gambe, ero tutto madido di sudore.  E all'improvviso mi addormentai.

"Ed ecco che l'odore della carogna si avvicinò nuovamente, si fermò sulla soglia.  Non ero sveglio del tutto, avevo ancora gli occhi aperti e sentivo che l'odore mi guardava. Era un fetore molle e grasso, un odore molle e viscido, profondo,  un odore giallo, tutto macchiato di verde Aprii gli occhi, era l'alba. La stanza era attraversata  da una ragnatela di luce incerta, bianchiccia, gli oggetti uscivano a poco a poco dall'ombra con una lentezza che pareva deformarli., allungandoli, come oggetti estratti dal collo di una bottiglia. Fra la porta e la finestra era appoggiato al muro un armadio; le grucce pendevano nude, dondolando; il vento muoveva le tendine della finestra; sul pavimento di terra battuta erano sparsi mucchi di carta, indumenti, mozziconi di sigaretta, e le cate frusciavano nel vento.

"A un tratto l'odore entrò, e sulla soglia apparve un puledrino. Era magro e peloso. Mandava un fetore di marcio, di carogna di cavallo. Mi guardava fisso, sbuffando. Si accostò al letto, allungando il collo, mi fiutò. Puzzava orribilmente. Al gesto che feci per buttare le gambe giù dal letto, si voltò di scatto, sbatté il fianco dell'armadio, fuggì con un nitrito di spavento. M'infilai gli stivali, uscii fin sulla strada. Il puledrino era disteso acanto alla giumenta morta. Mi guardava fisso. «Asculta!» gridai a un soldato romeno che passava portando un secchio d'acqua. Gli dissi che si prendesse cura del puledro.

"«È il figlio della cavalla morta,» disse il soldato.

"«Sì, - dissi - è il figlio della cavalla morta.»

"Il puledrino mi guardava fisso, strofinando il dorso contro il fianco della carogna. Il soldato si avvicinò al puledro e si mise a lisciargli il collo.

"«Bisogna portarlo via dalla madre, finirà per marcire anche lui, se rimane qui. Sarà il portafortuna del tuo squadrone,» dissi.

"«Sì, - disse il soldato - sì, povera bestia. Porterà fortuna allo squadrone.» Così dicendo si era sciolta la cinghia dei calzoni e passatala attorno al collo del puledrino, che sulle prime non voleva alzarsi, poi s'era alzato di scatto, e recalcitrava,  torcendo il collo verso la madre morta e nitrendo si avviò verso l'accampamento, nel bosco, tirandosi dietro il puledro. Rimasi un istante a seguirlo con gli occhi, poi aprii lo sportello della macchina, accesi il motore. Avevo dimenticato il sacco da montagna. Rientrai nella casa, presi il mio sacco e, dato un calcio alla porta, mi avviai sulla strada per Nemirowskoie.

 

"Il fiume luccicava stranamente nella luce bianchiccia dell'alba. Il cielo era cupo, sembrava un cielo invernale, il vento soffiava sul fiume, nubi di polvere passavano basse all'orizzonte, dense e rossastre, come nubi fuggite da un incendio. Uccelli acquatici , nei canneti lungo le rive, facevano il loro rauco verso, stormi di anatre selvatiche si levavano a volo remigando lente a fior d'acqua tra le selve di giunchi tremanti nel brivido acerbo del mattino. E dappertutto pesava quell'odore di cose marce, di materia in decomposizione."

 

Abbiamo riportato una pagina del libro Kaputt di Curzio Malaparte, perché ci è sembrata bella e degna di un grande scrittore.

Figura scomoda, c'è poco da fare, quella di Curzio Malaparte; scomoda e controversa, tanto è vero che fa ancora discutere, e arrabbiare, i critici letterari.

Nato a Prato nel 1898 da padre di origine tedesca e da madre lombarda, il suo vero nome era Kurt Erich Suckert. Interventista, dopo lo scoppio della prima guerra mondiale si arruola volontario, giovanissimo, e va al fronte; dopo l'armistizio del novembre 1918, si reca prima a Bruxelles e poi a Varsavia, come addetto culturale del ministro Tommasini, presso la Legazione italiana. Rientrato in Italia, nel 1921 pubblica il suo primo libro di successo (e di scandalo): La rivolta dei santi maledetti, dedicato alla ritirata di Caporetto.

Si mette in luce come giornalista molto dotato e diviene condirettore de La fiera letteraria, nonché  collaboratore del Corriere della Sera. Come saggista scrive, con stile graffiante e volontà di denuncia, L'Europa vivente: teoria storica del sindacalismo nazionale (1923), dedicato al fascismo, e Italia barbara (1925), un elogio "ruralista" e strapaesano dell'italiano rozzo  e, perciò, "sano". A  quest'ultimo si ricollegherà, molti anni dopo, il suo ultimo libro di successo, Maledetti toscani, pubblicato poco prima della morte.

Aderisce al fascismo e partecipa alla marcia su Roma, ma i suoi rapporti con il Fascio sono sempre sul filo del rasoio: anarcoide, irrequieto, avventuroso e sempre indisciplinato, mal sopporta ogni genere di mordacchia, sia politica che culturale. Una tipica manifestazione della sua bruciante inquietudine, che taluno giudicherà incoerenza o, peggio, opportunismo, è il suo vorticoso oscillare fra Strapaese e Stracittà. Tuttavia, anche se, nel 1926, fonda con Massimo Bontempelli la rivista 900, resta intimamente legato a L'Italiano di Leo Longanesi e soprattutto a Il Selvaggio di Mino Maccari, sul quale aveva pubblicato le ballate dell'Arcitaliano (edite in volume nel 1928), nelle quali aveva dato sfogo al suo gusto satirico e burlesco, venato di forti umori popolareschi e il cui seguito ideale sarà, nel 1949, Il battibecco.

Scrittore prolifico, fluviale, sempre teso a cimentarsi in nuovi generi, Malaparte si impegna anche nel racconto, con Avventure di un capitano di sventura (1927), in cui parla per bocca di uno straccivendolo, e con Don Camaleo (1928), in cui se la prende con il trasformismo di Mussolini, senza mai levarsi dalle labbra quel suo ghigno beffardo e irritante, quel tono risentito che nasce da una sensibilità offesa.

Dal 1929 al 1931 è direttore de La Stampa di Torino; conosce molte lingue e viaggia in Unione Sovietica, Germania, Francia, Gran Bretagna. Il suo libro Tecnica del colpo di Stato viene pubblicato in Francia, direttamente in lingua francese, nel 1931. Il regime non gradisce: al suo rientro in Italia, viene arrestato, espulso dal partito e condannato a cinque anni di confino; che sconta, però, solo in piccola parte, forse anche grazie alle numerose e potenti amicizie che si è fatto nell'alta società e nella stessa famiglia dei Savoia.

Attratto dalle esperienze più diverse e perfino opposte, vulcanico, provocatorio, sarcastico, si è fatto  un nome con i suoi libri di notevole impatto sul pubblico e, più ancora, con i suoi servizi giornalistici anticonformisti, sanguigni, arrabbiati. Ma non riesce a trovar pace. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, viene richiamato alle armi come capitano degli alpini e destinato dapprima al fronte occidentale, contro la Francia; poi inviato sul fronte russo, che percorre in lungo e in largo, dalla Finlandia all'Ucraina.

La sua fama di scrittore è legata soprattutto ai libri che raccolgono le sue corrispondenze di guerra dal fronte occidentale, Il Sole è  cieco (nel 1941 sul settimanale Tempo; poi, in volume, nel 1947); quelle dal fronte orientale, Il Volga nasce in Europa (1943); e il dittico sull'Europa e sull'Italia distrutte dalla guerra, materialmente e moralmente: Kaputt 1944) e La pelle (1949), senza dubbio le sue pagine letterariamente migliori.

Finita la guerra, rimane per qualche tempo in Francia, poi torna in Italia e riprende la sua carriera giornalistica, viaggiando fra il Sud America e l'Estremo Oriente, sempre curioso di tutto, sempre irrequieto e ribelle; questa volta avvicinandosi al marxismo ma anche, suprema contraddizione (oppure no?), risentendo le suggestioni della spititualità cristiana. Fino all'ultimo vuol provare tutto, sperimentare tutto: si cimenta nel genere teatrale e scrive Du côte de chez Proust e Das Kapital, entrambe nel 1951, e Anche le donne hanno perso la guerra, nel 1954.

Non basta: Malaparte vuol provare anche il cinema e, per il grande schermo, scrive e dirige il film Il Cristo proibito, nel 1950, tratto dal suo romanzo omonimo. Interpretato da Raf Vallone, Elena Varzi, Gino Cervi, Alain Cuny, Rina Morelli e Anna Maria Ferrero, è la storia di un reduce di guerra che torna al villaggio natio per scoprire chi ha tradito suo fratello, fucilato dai tedeschi in seguito a una delazione, e che egli vuole ora vendicare Si scontra, però,  con il muro di omertà eretto dai suoi compaesani, stanchi della guerra e decisi a dimenticarne gli orrori. Alla fine, sarà proprio la madre del protagonista (Vallone) a lasciarsi sfuggire il nome del colpevole; il quale, tuttavia, otterrà il  perdono, dopo che un a specie di santone si è sacrificato, facendosi uccidere al posto del vero colpevole.

La critica cinematografica ha accolto questo film con lo stesso imbarazzo e le stesse reticenze con i quali la critica letteraria ha accolto i  saggi e le opere narrative di Malaparte.  A denti stretti, ha dovuto riconoscergli doti indiscutibili di regista, in quest'unico film da lui girato nella sua vita; ma, al tempo stesso, non si è lasciata sfuggire l'occasione per mettere il dito sulle piaghe, vere o supposte, sia dell'impianto registico che del linguaggio espressivo. Il Morandini, ad esempio, scrive che Il Cristo proibito, «unico film dello scrittore toscano (1898-1957), ne esibisce i vizi più che le qualità: effettistico, compiaciuto, provocatorio anche se qua e là lampeggiante di talento». Già, il compiacimento: è una delle cose che più danno fastidio, in Malaparte - almeno ai suoi detrattori -: quel bisogno narcisistico di mettersi sempre al centro della scena, di riflettere sempre il mondo nella propria persona.

Mentre viaggia come giornalista in Russia e in Asia, raccogliendo i materiali che, poi, formeranno l'opera postuma Io, in Russia e in Cina (1958), i medici gli diagnosticano un tumore maligno: così. crediamo, lui avrebbe preferito che si dicesse, e non quel pudibondo e ipocrita "male incurabile" che è d'obbligo fra le persone socialmente corrette. Trasportato in Italia, si spegne, dopo una lunga agonia, nel 1957.

La scomodità e l'ingombranza del personaggio è testimoniata dal silenzio assordante, o quasi, che gli hanno dedicato i curatori delle antologie e delle storie letterarie per le scuole medie superiori.  In molte di esse il suo nome compare solo di sfuggita, mentre, come è noto, una ventina di ani fa c'è stato un tentativo, per fortuna abortito, di contrabbandare fra i grandi nomi della nostra letteratura perfino Alberto Moravia, che non è mai stato capace di scrivere una pagina come quella della cavalla morta, da noi sopra riportata.

Gli ha nuociuto, senza dubbio, non tanto il suo passaggio dal fascismo al comunismo, avvenuto nel secondo dopoguerra - quello, semmai, agli occhi della cultura dominante, era un titolo di merito, o almeno una attenuante -, ma il peso non eliminabile che la sua opera ha avuto nel contesto della cultura fascista.

Ha scritto di lui Nino Tripodi, che pure è stato un severo censore degli intellettuali voltagabbana dell'Italia repubblicana e democratica, nel suo libro Intellettuali sotto due bandiere (Roma, Ciarrapico Editore, 1981, pp. 394-395):

 

"Un grande figliol prodigo alla ricerca del perdono fu, tra i letterati italiani, Curzio Malaparte. Merita un discorso a sé, sia per l'obiettivo valore artistico, sia perché non catalogabile nel magma degli intellettuali trasmigrati da una bandiera all'altra appena la prima fu ammainata per il disfavore delle armi. Le sue contraddizioni, la sua ambiguità. Furono il frutto di inquietudini che lo accompagnarono tutta la vita, ovunque abbia militato, con chiunque si sia accompagnato.

"È vero che Malaparte diede al fascismo contributi essenziali e penetrativi oltre la contingenza episodica, come per esempio molte pagine dell'Europa vivente.  Ma è altrettanto vero che, se dal fascismo ebbe fama ed onori, ebbe anche carcere e confino di polizia. È vero che al cattolicesimo offrì sentimenti di fede, facendosi addobbare, pochi giorni prima di morire, in clinica, con commovente umiltà, una mensola con un altarino, con immaginette di santi, cuori di stagnola e statuine di gesso pitturato, chiedendo e ricevendo il battesimo e la prima comunione. Ma è altrettanto vero che, morendo, regalò una villa ai comunisti cinesi e che il suo ultimo pensiero - secondo alcuni, l'ultimo suo testamento di fede politica - possa essere connesso agli scritti inviati dalla Russia e dalla Cina a un quotidiano milanese, cronache che è difficile non considerare apologetiche del materialismo marxista.

"Fosse intima e perpetua delusone la sua di fronte a un mondo sempre incompiuto, fosse distaccato abuso letterario di una penna cui le possibilità dello scrittore consentivano di chiedere tutto e il contrario di tutto, certo è che la sua personalità politica, lancinata dalle antitesi, non può essere interpretata con la chiave semplicistica di un versipellismo improvviso, a guerra perduta. Ma neppure può essere del tutto estirpata dal terreno mussoliniano, prendendo per buona la tesi di un suo fascismo da scialo o per copertura. (…)

"L'antifascismo ha così respinto Malaparte, come più di una volta lo aveva respinto la mano secolare del fascismo. Ed è strano che lo abbia respinto persino il comunismo, nonostante la congenita inclinazione a coprire chiunque si sia rifugiato nel suo grembo. Quando nel 1966 uscì postumo il suo libro Diario d'uno straniero a Parigi, scritto da Malaparte nel 1947, i comunisti italiani gli contestarono su Paese Sera il diritto di chiamarsi resistente e gli negarono l'indulgenza che quelle pagine in fondo imploravano."

 

Quanto a noi, non abbiamo alcuna intenzione di ergerci a giudici di Malaparte, sia pure per "assolverlo"; non pensiamo ci spetti questo diritto.

Delle sue idee politiche, o delle sue contorsioni politiche, giudichino altri.

Solo, ci infastidisce il fatto che, dopo il 1945, la cultura dominante abbia usato due pesi e due misure, "assolvendo" ex fascisti passati al comunismo come Cesare Pavese, e respingendone altri, come Malaparte; questo sì. E ci dà tanto più fastidio, in quanto i meriti - o i demeriti - dello scrittore, in entrambi i casi (e in molti, molti altri) sono stati subordinati al criterio del "politicamente corretto", secondo i canoni della Vulgata resistenzialista.

Ci è piaciuto riportare il brano della cavalla morta, tratto dal suo libro probabilmente più famoso, Kaputt, perché ci sembra sia un bel brano di prosa e - nonostante qualche eccesso barocco -, degno di stare fra i migliori della letteratura italiana del Novecento.

Non ne faremo un commento né un'analisi dal punti di vista letterario, perché ci sembra vi sia, oggi, un eccesso di critica letteraria, così come Nietzsche trovava che vi fosse un eccesso, nell'Europa di fine Ottocento, di storia e di storiografi. Quante cantonate hanno preso i signori critici, del resto; o, peggio, quante volte si sono piegati ad assecondare e a plaudire la parte politicamente vincente, dando invece l'ostracismo a quella sconfitta. E tale è stato, in larga misura, anche il trattamento riservato a Malaparte, come si è visto.

L'Italia, Paese di santi, di artisti e di navigatori, è anche la Repubblica dei critici letterari; anzi, per meglio dire, la Dittatura dei critici letterari. Malaparte lo sapeva bene, quando (in Italia barbara), parlava «di quella specie propriamente nostrana di rivoluzionari che sono i pedanti», specie che è «in sommo grado politica». E quelli non gliel'hanno mai perdonata.

Pazienza.

Ma il lettore comune, sarebbe ora che prendesse un po' più di coraggio e cominciasse a leggere, e soprattutto a pensare, con la propria testa e con i propri gusti. Staremmo freschi, se dovessimo leggere solo le pagine e gli autori ai quali lorsignori concedono il nihil obstat; e, soprattutto, se dovessimo attenerci ai loro giudizi di valore.

Grazie al Cielo, non è ancora necessario uno speciale permesso, per comperare e leggere qualunque libro, anche se i critici storcono il naso e fanno i difficili.

Che se ne vadano pure al diavolo.

Una bella pagina di letteratura non cessa di essere bella, per il fatto che  a loro non piace.