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Il Sessantotto come l'interventismo e il fascismo: la lettura di Nicola Matteucci

di Giovanni Belardelli - 10/03/2008




I saggi di Nicola Matteucci sulla rivolta studentesca di fine anni Sessanta (ora ripubblicati da Rubbettino con il titolo Sul Sessantotto, a cura di Roberto Pertici, presentazione di Gaetano Quagliariello, pagine 108, e
14) valgono, da soli, più di gran parte di ciò che si è finora scritto su quegli eventi. È vero che Matteucci scriveva a caldo, a ridosso dei fatti, ciò che spesso costituisce un ostacolo per la loro comprensione; ma è vero anche che riusciva ad andare oltre i punti di vista — l'uno simpatetico- nostalgico, l'altro banalmente critico — che da quarant'anni risultano prevalenti ogni volta che, almeno in Italia, si parla e si scrive di Sessantotto.
Per Matteucci la rivolta studentesca non fu, o meglio non fu soprattutto, un semplice episodio di una grande rivoluzione esplosa in tutto il mondo, da Berkeley a Parigi, da Berlino a Praga. Il Sessantotto italiano, che molti cercavano erroneamente di spiegare appiattendosi su ciò che proclamavano i protagonisti nei loro slogan, giornali, opuscoli, andava considerato una forma di «insorgenza populista» da ricollegare a dinamiche profonde del Paese. Con questa espressione — contenuta in un saggio pubblicato nel 1970 sulla rivista «Il Mulino » — Matteucci cercava di definire un insieme di manifestazioni politiche nutrite di idee semplici, di passioni elementari, che superavano la tradizionale distinzione tra conservatori e progressisti e si accompagnavano a una forte propensione attivistica (e potenzialmente violenta). Si trattava di un fenomeno non inedito nella storia del Paese: nel 1914-15 l'interventismo era stato appunto una forma di «insorgenza populista», che aveva coagulato forze di diversa provenienza, di destra e di sinistra, in una comune condanna dell'Italia liberale; qualche anno dopo lo era stato anche il fascismo di sinistra, con la sua esaltazione di una «nazione proletaria» in guerra contro le «demoplutocrazie». Rispetto a quegli antecedenti, il Sessantotto interpretato come «insorgenza populista» si caratterizzava anche per un elemento nuovo: un «cattolicesimo progressista» fortemente orientato a sinistra sulla base dell'incontro tra la «mistica dell'operaio» di matrice marxista-comunista e la «mistica del povero». Non a caso il movimento degli studenti teneva in grande considerazione la Lettera a una professoressa
di don Milani, che contrapponeva alla cultura dei «signori» la verità e la cultura dei «poveri».
Ma gli articoli e saggi di Matteucci ripubblicati in questo volume presentano un grande interesse anche per un altro motivo, meno direttamente collegato all'analisi del Sessantotto italiano: quei testi, grazie anche all'ottima introduzione di Pertici, danno conto della qualità intrinseca di posizioni liberali tra le più meditate e originali nell'intera storia repubblicana.
Proprio con riferimento all'esaltazione sessantottina della libertà come spontaneità, Matteucci notava che la libertà liberale si collocava in realtà agli antipodi della libertà come liberazione degli istinti, in particolare sessuali, teorizzata da Herbert Marcuse. Mentre nella civiltà liberale la libertà consiste nella «riscoperta della coscienza morale dell'uomo come sola forza creatrice», nella civiltà del benessere (e nei suoi critici sessantottini, che da questo punto di vista ne erano a tutti gli effetti i figli) la libertà è concepita «come soddisfazione individuale dei bisogni», in senso meramente edonistico.
Coerentemente con queste idee, Matteucci richiamava la necessità — già individuata da Tocqueville — che una democrazia possa giovarsi di «potenti fedi religiose o etiche», di «robuste passioni morali capaci di trascendere l'animalità dell'uomo». Da ciò, nota Pertici, quell'insistere sulla necessità del dialogo tra liberali e cattolici che rendeva la sua posizione abbastanza diversa da quella di altri esponenti della cultura liberaldemocratica italiana. Matteucci, ad esempio, scriveva di ritenere «assai pericoloso confondere il pensiero liberaldemocratico con il laicismo» poiché in tal modo si rendeva il primo «una concezione del mondo totalizzante, una religione».
Ma, nel libro, la peculiarità delle sue posizioni nel quadro della cultura liberale italiana emerge anche dal necrologio del «Mondo», pubblicato nel 1966 sul «Mulino» a commento della chiusura della rivista di Mario Pannunzio. Matteucci vi denunciava il progressivo slittamento verso sinistra di una parte della cultura liberale, quella di matrice gobettiana e azionista, portata a guardare al Partito comunista come proprio interlocutore privilegiato. Basta richiamare il credito che il «liberalismo azionista» ha avuto negli anni successivi, per rendersi conto di quanto le posizioni di Nicola Matteucci fossero destinate a rimanere isolate.