Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Semi, guerre e carestie - Capitolo I

Semi, guerre e carestie - Capitolo I

di Romolo Gobbi - 10/03/2008

Autore: RomoloGobbi | Data: 09/03/2008 12.48.27
Nella ricostruzione dell’evoluzione umana vi è una contraddizione di fondo nel fatto che, pur accettando le tesi di Darwin sulle mutazioni casuali, ogni qual volta si è cercato di spiegare il passaggio a un gradino superiore si è detto che la mutazione serviva a soddisfare qualche bisogno nuovo o vecchio dell’antenato umano. Ciò è in contrasto con il preliminare e categorico rifiuto delle tesi di Lamarck, che considerava ereditabili le capacità acquisite dagli individui nel corso della vita. Si dice ad esempio che l’homo divenne erectus perché nel nuovo ambiente in cui si trovò a sopravvivere, la savana, egli dovette alzarsi in piedi per scorgere oltre la sterpaglia le proprie prede. Queste spiegazioni sono in contrasto con la casualità dell’evoluzione darwiniana, e sono anche contraddette in continuazione da nuove scoperte di fossili umani in questa o quella parte del mondo. Ad esempio, nell’estate del 2002 è stata annunciata la scoperta di parti fossili di ominidi a Toumai nel Chad, e tra queste di un cranio completo nel quale il forame occipitale “ l’apertura alla
base del cranio dove la spina dorsale si collega al cervello, è di forma ovale, non rotondo come negli scimpanzé. La sua forma e la sua posizione lasciano intendere che Toumaï possa aver camminato eretto” (1). L’eccezionalità dell’ominide di Toumaï consiste nella sua antichità, circa sette milioni di anni; ciò fa quindi risalire l’età della separazione tra gli ominidi e gli scimpanzé “molto prima di quanto indicato dalla maggior parte degli studi molecolari”(2), in un’epoca in cui la foresta era ancora l’habitat prevalente, e la stazione eretta non era indispensabile alla sopravvivenza.
Quindi non fu una caratteristica dell’homo erectus, di sei milioni di anni dopo, lo stare diritto in piedi liberando le mani e rendendole disponibili per fare lavori utili. Si ripropone dunque il dubbio che era già sorto all’epoca della scoperta di Lucy, allora ritenuta il più antico antenato dell’uomo, tre milioni di anni fa, anch’essa con stazione eretta, e quindi con gli arti superiori liberi per produrre utensili, che non sono giunti sino ai nostri giorni forse perché costruiti con materiali deperibili. Inoltre l’ominide di Toumaï è stato trovato in Chad, a duemilacinquecento chilometri di distanza dal luogo di ritrovamento degli altri ominidi a lui simili, e cioè dalla Rift Valley nell’Africa dell’est. Questo ritrovamento ha fatto inoltre crollare un’altra credenza consolidata, che collocava nell’Africa dell’est la catena evolutiva di homo: l’Orrorin tugenensis (sei milioni di anni fa), l’Ardipithecus ramidus Kadabba (meno di sei milioni di anni), l’Austrolapithecus Anamensis (quattro milioni di anni), l’Australopithecus afarensis (Lucy, circa tre milioni di anni).
Anche per l’evoluzione successiva di homo habilis ed erectus si poneva l’origine in Africa, dalla quale sarebbe partito l’homo erectus che avrebbe dato inizio all’ominazione di tutto il pianeta, a partire da circa un milione di anni fa. Ma la rivelazione, sempre nell’estate del 2002, della scoperta di un cranio fossile in Georgia, datato circa un milione e settecentocinquantamila anni fa, ha rimesso in discussione anche la teoria dell’ominazione sino ad allora sostenuta. Infatti il cranio di Dmanisi in Georgia è molto più piccolo di quello di un homo erectus: “Il suo volume endocranico, di circa 600 cm3, è sostanzialmente più piccolo di un supposto Homo Erectus, ma vicino alla misura di H. habilis” (3) . Dunque non era necessario il grande cervello dell’erectus per intraprendere il lungo viaggio intorno al mondo: “La presenza a Dmanisi di individui come D 2700 mette in discussione il punto di vista che solo ominidi con cervelli equivalenti nella misura a quelli dell’ H. erectus del medio Pleistocene fossero capaci di migrare dall’Africa verso nord, e, attraverso il corridoio del Medio Oriente, verso l’Asia” (4). Commentando la notizia, sul National Geographic, Philip Rightmire, uno dei membri della spedizione, ha detto: “Non vedo perché questi primi georgiani dovessero essere stupidi […]. Intrapresero un lungo viaggio e riuscirono a portarlo a termine”. Forse, aggiunge, non sono le dimensioni in sé a determinare l’intelligenza, quanto il rapporto tra materia grigia e il resto del corpo(5).
Eppure tutta la scala ascendente di homo è stata costruita basandosi sulla dimensione del cervello, che, crescendo man mano da circa 400 cm3 di Lucy ai 750 di habilis, agli 850 di erectus, arrivava infine ai più di mille di sapiens. Come e perché il cervello umano si sia sviluppato in una misura così vistosa è ancora oggetto di accanite discussioni: “Torniamo ora al cervello umano: probabilmente, attraverso la selezione naturale, esso si è ingrandito per assolvere a un numero limitato di funzioni legate alla sopravvivenza dell’uomo nella savana africana. Ma come conseguenza di questi adattamenti, si sono creati alcuni ‘pennacchi’, cioè spazi cerebrali liberi utilizzati per migliaia di nuove funzioni non previste dal progetto evolutivo di partenza” (6). E’ incredibile che un neo-darwiniano convinto come S.J, Gould possa parlare di un “progetto evolutivo”, senza specificare di chi sarebbe questo progetto; in effetti, l’evoluzione del cervello umano resta inspiegabile, soprattutto se si pensa alla complessità della sua struttura: “un pezzettino di cervello grande come la capocchia di un grosso fiammifero contiene circa un miliardo di connessioni […], se si considerano gli svariati modi in cui esse si potrebbero combinare, il numero diventa astronomico, dell’ordine di 10 seguito da milioni di zeri (in tutto l’universo conosciuto le particelle con carica positiva sono all’incirca dell’ordine di 10 seguito da 80 zeri!) […]. Si tratta dell’oggetto materiale più complicato dell’universo conosciuto” (7).
Dunque non fu questa enorme massa di cervello a suggerire a homo la prima uscita dall’Africa (out of Africa one); bastò con ogni probabilità la curiosité mammifère, oltre al raggiunto: “adattamento alla lunga marcia su terreni aperti e accidentali, in un clima che si faceva sempre più caldo e secco” (8). Stimoli intellettuali maggiori avrebbe avuto invece la seconda uscita dall’Africa (out of Africa two) di homo ormai diventato sapiens, che, a partire da circa 100.000 anni fa, cominciò a sciamare sovrapponendosi man mano alle popolazioni precedenti, una lunga marcia che lo avrebbe portato a raggiungere il Cile 10.000 anni fa. Uno studio genetico su 12.127 maschi asiatici, pubblicato nel maggio 2001, sembrò dare la prova definitiva di questa origine africana dell’uomo anatomicamente moderno, escludendo categoricamente “anche un minimo contributo degli ominidi di quei luoghi all’origine dell’uomo anatomicamente moderno nell’Asia dell’est” (9).
Questa conclusione era diametralmente opposta a quella sostenuta da uno studio analogo su reperti fossili rinvenuti in Australia, e tra essi “il morfologicamente gracile Lake Mungo 3”. Secondo gli studiosi australiani, l’uomo di Mungo, di 60.000 anni fa, era “il più antico (Pleistocene) umano anatomicamente moderno, il cui DNA sia stato scoperto” (10). Paradossalmente dunque si potrebbe dire ‘out of Australia’ invece di ‘out of Africa two’.
Risulta quindi chiaro che le spiegazioni razionali sull’origine e sull’evoluzione dell’uomo anatomicamente moderno sono tutte discutibili, e inoltre che il nostro grande cervello ci può far dire e fare qualsiasi cosa. Non solo la sua evoluzione ci sfugge, ma anche buona parte delle sue potenzialità sfuggono a ogni controllo scientifico. Gli sforzi per giustificare la crescita del cervello sono contraddittori, a partire dalla pretesa che l’esercizio sempre più abile nell’uso degli strumenti possa averla favorita, mentre è vero esattamente il contrario: solo l’evoluzione di aree specializzate del cervello hanno permesso all’uomo il difficile coordinamento dei movimenti necessari a produrre oggetti sempre più raffinati.
Ma se il geni ‘volano’, le pietre restano, e non ci sono tracce di una tecnologia particolare nella produzione di oggetti di pietra da parte dei protagonisti di ‘out of Africa two’, come se i nostri antenati, sostituendosi alle popolazioni destinate a soccombere, avessero fatto proprie le tecnologie dei vinti. Anche un accanito sostenitore di ‘out if Africa two’, Luigi Luca Cavalli Sforza, deve parlare di un “periodo oscuro, approssimativamente tra i 100.000 e i 50.000 anni fa”, e ammettere che “benché non vi siano chiare testimonianze archeologiche di sostanziali progressi di comportamento, gli utensili sviluppati dai neandertaliani, chiamati musteriani, erano leggermente più avanzati di quelli acheuleani (homo erectus e homo sapiens arcaico)” (11).
Gli uomini di Neandertal furono i primi homo sapiens dell’Europa circa 150.000 anni fa, che più o meno nello stesso periodo si stabilirono in Medio Oriente e nell’Asia Centro-Occidentale. I neandertaliani erano molto robusti e con stature tra i 170 e i 180 cm; “con questo tipo di stature e con queste larghezze di busto, il peso dei maschi sarebbe tremendo, almeno di 90 kg. Credo che il valore reale sarebbe addirittura superiore (prossimo ai 100 kg) perché probabilmente gli uomini di Atapuerca, di 300.000 anni fa, come i successivi neandertaliani, avevano una muscolatura molto più sviluppata della nostra. Anche il peso dello scheletro sarebbe superiore a quello attuale, che rappresenta approssimativamente il 15% del peso corporeo. A tutto ciò bisogna aggiungere il grasso” (12). Quanto alla capacità cranica “tutto fa pensare che la media dei neandertaliani fosse superiore a quella umana attuale, e in ogni caso non era certo inferiore. Il più grande di tutti i crani neandertaliani proviene da Amud (un giacimento israeliano): la sua capacità cranica era di 1750 cc, di fatto il maggior volume endocranico della documentazione fossile” (13). A tutte queste caratteristiche, che li rendevano particolarmente adatti all’era glaciale nella quale vivevano, un’altra si aggiungeva, che li rendeva più resistenti al freddo, la cosiddetta “faccia da velocità”, appuntita in avanti: “L’ipotesi climatica ipotizza che la faccia dell’uomo di Neandertal rappresenti un adattamento a un freddo intenso, quasi polare: l’enorme cavità nasale avrebbe funzionato come un radiatore, volto a inumidire e a riscaldare l’aria gelida prima che questa entrasse nei polmoni; seni mascellari e frontali straordinariamente sviluppati ai lati e in cima trasformerebbero la faccia in una grande maschera vuota, e quindi isolante, interposta tra l’atmosfera esterna e il cervello” (14).
A partire da 40.000 anni fa arrivarono dall’Africa in Europa i primi sapiens sapiens, detti uomini di Cro-Magnon, che erano neri, alti, magri e meno robusti dei bianchi neandertaliani, e con una capacità cranica inferiore. Per circa 10.000 anni i due gruppi coesistettero, pare pacificamente, anche perché la loro entità numerica era estremamente ridotta, poche migliaia, distribuite su un vasto territorio. Circa 30.000 anni fa i neandertaliani scomparvero. Quale sia stata la ragione della loro scomparsa è oggetto di accanite discussioni che vertono soprattutto sul livello culturale più o meno evoluto dei neandertaliani. Eppure essi “avevano sviluppato una sofisticata organizzazione sociale, che permetteva loro di praticare la caccia di gruppo, e di prendersi cura dei più deboli e dei malati. […] Inoltre, erano capaci di fabbricare utensili, armi, gioielli davvero elaborati, e forse conoscevano la produzione artistica, come alcuni oggetti farebbero supporre. […] Ma è stata la sepoltura dei morti ad accendere la fantasia di alcuni studiosi, che […] si sono spinti fino a riconoscere loro ‘l’anima’” (15).
L’ipotesi più importante sull’inferiorità culturale dei neandertaliani si basa sulla presunta loro non perfetta capacità di articolare il linguaggio: “benché non sia facile rifiutare o confermare l’ipotesi di una abilità linguistica inferiore dei neandertaliani” (16). Pur essendo i principali organi fonatori costituiti di materiale cartilagineo, e quindi non essendoci pervenuti reperti fossili di questi organi, basandosi su ipotesi e sulle parti ossee dell’apparato di fonazione, gli antropologi sono giunti alla conclusione che dalla “ricostruzione anatomica dell’apparato della fonazione (laringe, posizione della radice della lingua, posizione dei denti e delle labbra, lunghezza del palato), partendo dalla morfologia della base cranica e del palato osseo dei neandertaliani, confrontato con quello di un uomo attuale, avrebbe messo in evidenza che essi erano in grado di articolare il linguaggio, seppure parlando molto lentamente e pronunciando un limitato numero di fonemi” (17). Recentemente invece il ritrovamento a Kebara, in Israele, di un osso joide ben conservato di neandertaliano, di circa 60.000 anni fa, ha fatto ipotizzare che l’uomo di Neandertal avesse sviluppato le strutture anatomiche necessarie per articolare le parole (18). Ancora una volta il nostro grande cervello ci fa dire tutto e il contrario di tutto, ma, usandolo con discrezione, ci si può chiedere come possa l’uso più o meno sviluppato della parola da parte dell’uomo di Cro-Magnon aver costituito un elemento di selezione nei confronti dei neandertaliani, molto più adatti alle terribili condizioni climatiche dell’ultima glaciazione. Poichè ciò significherebbe introdurre l’inusitata ipotesi che il più adatto si estingue, non sarebbe meno sconvolgente ipotizzare che sia avvenuta una fusione dei neandertaliani con i Cro-Magnon?
Nel luglio del 1996 genetisti di Monaco sequenziarono un tratto di DNA mitocondriale tratto da un piccolissimo frammento dell’omero di un neandertaliano. Gli studiosi iniziarono quindi un “lavoro di comparazione con le centinaia di linee mitocondriali relative a individui provenienti da tutte le parti del mondo. […] Il risultato dell’analisi non lasciava veramente dubbi: l’ordine in cui i quattro mattoni del DNA si susseguivano lungo la molecola dell’antico ominino non rientrava nell’intervallo della variabilità genetica dell’uomo moderno” (19). Altri genetisti sostennero in seguito che la dimostrazione era fondata su un solo caso, e che occorreva ripetere l’esperimento su altri fossili di Neandertal per avere la prova definitiva. E “La prova arrivò all’inizio del 1999 con la descrizione dei resti di un bambino di quattro anni, rinvenuti alla fine dell’anno precedente, nella valle di Lapedo, vicino a Lisbona. Lo scheletro era stato datato a 28.500 anni fa, e apparteneva sicuramente a un rappresentante dell’uomo anatomicamente moderno, ma con alcuni tratti tipici dei neandertaliani, quali il torace largo e gli avambracci piuttosto corti. Il ragazzo insomma si sarebbe presentato con un mosaico di caratteri, esattamente quello di cui avevano bisogno i multiregionalisti” (20).
I multiregionalisti sono gli scienziati che sostengono che non tutta l’umanità attuale discende da antenati africani, ovvero da antenati della seconda migrazione dall’Africa, e che l’uomo anatomicamente moderno si sia sviluppato più volte e in luoghi diversi. I multiregionalisti, dopo la scoperta dell’uomo di Mungo, hanno ribadito per i neandertaliani le loro tesi: “L’estraneità rispetto a noi del DNA neandertaliano non documenterebbe affatto l’esistenza di due specie separate (Homo neandertaliensis e Homo sapiens), semplicemente perché alcune linee di Neandertal potrebbero essere andate perdute, e con loro la prova dell’avvenuto rimescolamento, e quindi noi e loro potremmo essere null’altro che due sottospecie: Homo sapiens neandertaliensis e Homo sapiens sapiens” (21).
Ciò che unificava vistosamente le due specie di Homo sapiens era il grande cervello, che li differenziava da tutti gli antenati più o meno remoti: “Un cervello umano medio ha un volume di circa 1400 centimetri cubici, ovvero un peso di 1400 g. Il cervello degli scimpanzé ha in media 400 g, circa un quarto di quello umano” (22). E’ vero che nel regno animale esistono cervelli notevolmente più grandi, come quello dell’elefante, di circa 5 kg, e quello delle balene, che può raggiungere anche i 10 kg, ma: “In un uomo, il cervello rappresenta approssimativamente il 3 per cento del peso corporeo, mentre in un elefante soltanto circa lo 0.2 per cento e in uno scimpanzé è attorno all’1 per cento” (23). Gli otto o più milioni di anni che ci separano dal nostro più antico antenato scimmiesco, lo scimpanzé, hanno più che triplicato il volume del cervello nell’uomo, pur mantenendo una distanza genetica che è all’incirca solo del 2 per cento. Secondo alcuni scienziati la differente massa cerebrale non è sufficiente a distinguere gli uomini dagli scimpanzé: “Altri scienziati si sono spinti addirittura oltre questo dibattito, fino a considerare le scimmie antropomorfe africane parte del nostro stesso genere homo” (24). La differenza sarebbe solo quantitativa, poiché gli etologi hanno dimostrato che gli scimpanzé sanno costruire utensili rudimentali, prepararsi un riparo per la notte, mentire, avere rapporti sociali complessi, al punto che si è parlato e scritto di una ‘politica degli scimpanzè’” (25). Lo stesso Autore ha descritto dettagliatamente la complessa ed evoluta organizzazione sociale degli scimpanzé Bonobo, che “quando avvertono la necessità di allentare la tensione sociale, praticano il sesso in tutte le posizioni e varianti tanto che il loro motto potrebbe essere ‘facciano l’amore, non la guerra’” (26). Gli etologi si sono spinti sino al punto di insegnare agli scimpanzé il linguaggio umano “usando un insieme complesso di simboli; ma essi possono pronunciare soltanto una manciata di parole perché non possono fare i movimenti facciali richiesti” (27). Indubbiamente i movimenti facciali e degli altri organi e muscoli fonatori dipendono dal cervello, ma non dalla sua grandezza.
Nel 2001 è stato pubblicato sulla rivista Nature lo studio di un gruppo di scienziati sulle mutazioni del gene FOX P2, che alterano la capacità di alcuni esseri umani di parlare correttamente e di usare la lingua (28). Può quindi essere stata una variante il gene FOX-P2, sviluppatasi circa 200.000 anni fa, a consentire alla specie Homo la capacità di usare il linguaggio. E non si può più affermare con assoluta certezza l’evoluzione lineare che va dalle Austropitecine, a Homo habilis, erectus, sapiens, e sapiens sapiens, con successivi e graduali ampliamenti cerebrali stimolati o stimolanti facoltà progressive di Homo.
Inoltre storicamente non ci furono con ogni probabilità due sole uscite dall’Africa, ma più uscite e anche ritorni, con rimescolamento genetico dei vari protagonisti, e quindi con più di una nascita dell’uomo anatomicamente moderno in varie regioni del mondo. Non una sola Eva africana, che tra l’altro è stata fatta risalire a varie epoche, in base a varie misurazioni genetiche, né un solo Adamo africano, anch’esso con più di una datazione. Se così fosse, ci sarebbe anche una spiegazione delle differenze genetiche, recentemente riscoperte, tra gli abitanti dei vari continenti, differenze che possono anche raggiungere il 3-5% (29).
Se le cose dette finora non verranno smentite da altre scoperte e da altri studi, la superiorità conclamata di Homo sapiens sapiens, e del suo grande cervello, va notevolmente ridimensionata. E soprattutto diventa intollerabile la sua pretesa di essere destinato, sulla base di una presunta eccezionalità, a esercitare il suo potere sulla natura in maniera assai poco sapiente, al punto da rendere irreversibili i processi di deterioramento ambientale da lui stesso causati, e da porre le condizioni per l’estinzione della sua specie.

1. Time Magazine, 22.7.2002, Father of Us All? , pag 49

2. Nature, 11.7.2002, New Hominid, pag 145

3. Science, 5.7.2002, A New Skull, vol 297, pag 85

4. ivi, pag 88

5. National Geographic, agosto 2002, pag …

6. S. J. Gould, cit, pag 47

7. G.M. Edelman, Sulla materia della mente, Adelphi, Milano, 1993, pag 39-40

8. G. Spedini, Antropologia Evoluzionista, Piccin, Padova, 1997, pag 152

9. Science, vol 292, 11 maggio 2002, pag 1151

10. PNAS, 16.1.2001, Vol 98, n 2, pag 537

11. L.L. Cavalli Sforza, P, Menozzi, A. Piazza, Storia e geografia degli umani, Adelphi, 2002, pag 117

12. .L. Arsuaga, I primi pensatori, Feltrinelli, 2001, pag 85

13. ivi, pag 70

14. ivi, pag 79

15. G. Biondi, O.Rickards, Uomini per caso, Editori Riuniti, 2001, pp 249-50

16. L.L. Cavalli Sforza e al. Op cit, pag 123

17. G. Spiedini, Op cit, pag 170

18. Letter from Dr. Cozzo, luglio 2001, in hppt://www.angelfire.com/mi/dinosaurus/erectus talk.html

19. G. Biondi, O. Rickards, Op cit, pag 256

20. ivi,pp 258-9

21. ivi, pag 265


22. R. Foley, Gli umani prima dell’umanità, Editori Riuniti, 1999, pag 202

23. ivi, pag 203

24. G. Biondi, O. Rickards, op cit, pag 269

25. F. de Waal, La politica degli simpanzè, Laterza, 1984

26. F. de Waal, Far la pace tra le scimmie, Rizzoli, 1990, III di copertina


27. M. Novak, cit in L. Pearson, Gene leaves speachless, Nature-Science, Update on line 15.08.2002

28. C.S.L. Lai et al, Nature 2001; 413 : 519-23

29. C.S.L. Lai et al, Nature 2001; 413 : 519-23