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Mario Sironi: la tenuta dello stile

di Marco Meneguzzo - 11/03/2008


Una nuova antologica dedicata alle opere degli ultimi vent’anni di vita mostra la grandezza e la tenuta del suo stile


 

 D
avvero non pensavamo di aver bisogno di un’altra mostra su Mario Sironi, dopo le numerosissime viste a scadenza regolare negli ultimi anni (nella mia biblioteca i suoi cataloghi occupano interi scaffali…), perché va bene recuperare una grandissima figura di artista respinta nell’ombra per le sue idee politiche – era fascista fino al midollo! –, più che per la sua arte, ma vederlo continuamente in tutte le salse significa recuperarlo un po’ troppo, magari a scapito di altri… Invece, di fronte a questa (ennesima) mostra – curata come quasi tutte le altre da Claudia Gian Ferrari ed Elena Pontiggia, autentiche vestali della sua opera (catalogo Electa) –, mi sono dovuto ricredere: entrato svogliatamente, aspettandomi di rivedere le solite tele – stavolta la mostra è dedicata agli ultimi diciotto vent’anni della sua vita, dagli anni cupi della guerra alla morte, nel 1961 –, lavoro dopo lavoro lo sguardo (e la mente, spero…) si è acceso come di fronte a un pittore nuovo, a una scoperta inattesa. Merito di una giornata particolarmente piacevole? Di una benevolenza temporanea? Dopotutto, le opere erano, sono quelle, e non si scappa, l’allestimento è buono ma non particolarmente spettacolare, e la documentazione, accuratissima e quasi maniacale, sorprendente al giorno d’oggi, è tutta nel catalogo e non nella mostra, per cui non resta che dar merito alle opere e al loro artefice di essere ancora in grado di mostrare qualcosa di nuovo, come accade soltanto in presenza di artisti veramente grandi.
  Cos’è dunque quel nuovo? Credo che sia l’improvviso lampo che illumina la qualità della retorica visiva, tanto amata da Sironi.
  In altre parole, la retorica che Sironi immette nelle sue opere, e che sembra essere sempre la stessa, possiede qualità espressive insospettate proprio quando viene meno la sua ragion d’essere, la sua sintonia con l’immagine che la società vuole dare di se stessa. Se infatti durante il ventennio fascista la 'forma del mondo' che Sironi immetteva nei suoi quadri aderiva facilmente all’immagine che il regime voleva dare di sé, negli anni della disillusione, del ripudio e del declino anche fisico dell’artista questa stessa forma invece di svuotarsi – come accadrebbe in presenza di una pura pittura di propaganda –, si arricchisce di inquietudini prima invisibili, ma non per questo inesistenti. Qualche esempio. Le
famose 'periferie': quelle dei primi anni venti (tra l’altro, antecedenti il regime…) non sono lontanissime da quelle degli anni della guerra e subito successive, ma suscitano emozioni diversissime: là la costruzione, qui l’incombere di una vita desolata, là la grandezza di un’era 'metallica', qui un futuro incerto segnato da masse grigie insuperabili, e il tutto distinto semplicemente da una diversa matericità della stesura pittorica, da variazioni minime nella scelta dei colori (là le terre senesi, qui la gamma dei grigi); ancora: in mostra c’è una Nausicaa e la nave di Ulisse del 1940 circa (ma potremmo citare anche la barca in primo piano ne la Scogliera del 1947), e basta che la giovane donna volga le spalle alle nave, e che i suoi occhi siano appena un po’ più spalancati e attoniti degli occhi delle più ottimiste e convinte 'contadine' o 'madri', o 'personificazioni' di qualche anno prima, per cambiare totalmente sentimento e significato, dalla certezza del futuro al dubbio sul proprio destino.
  Vediamo, leggiamo tutto questo solo alla luce della sua vicenda personale, inserita nella tragedia della storia? Forse sì, ma poco importa: ciò che davvero interessa è che il linguaggio fatto proprio da Sironi regge a tutte le stagioni. E questa ultima non è certamente la minore.

 Milano, Fondazione Stelline

 SIRONI. GLI ANNI ’40 E ’50

 Fino al 25 maggio