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Georges Simenon

di Stenio Solinas - 11/03/2008

Eccola qui, la Francia di Maigret:
banconi di zinco, banchine
di fiumi e di porti,
sciabolate di luce e selciati
lucidi di pioggia, interni di
cortili, angoli di strade strette
in salita e in discesa,
spiagge assolate del Midi, calanchi rocciosi
dell’Atlantico, volti ossuti di operai, corpi
obesi di commercianti, occhi dilatati dal
pastis e dal calvados, scolari con la cartella e
la baguette, prostitute bistrate davanti alla
porta di un albergo... Negli anni in cui Simenon
si imbeve del Paese e poi lo racconta
con la medesima, golosa curiosità con cui
fruga nell’animo umano e sotto le gonne delle
donne, un pugno di fotografi più o meno
suoi coetanei percorre a grandi passi gli stessi
luoghi e concorre a disegnare una geografia
fisica che è anche e soprattutto l’autobiografia
di una nazione.
Nato nel 1903, lo scrittore è poco più che
ventenne quando comincia la sua esplorazione
letteraria. Henry Cartier-Bresson è di cinque
anni più giovane, Brassaï di quattro anni
più vecchio, Willy Ronis è del 1910, Robert
Doisneau del 1912 e per tutti la Francia fra
le due guerre è, appunto, questa cosa qui, un
mondo che il Novecento non ha ancora rovesciato
come un guanto, rurale e preindustriale,
in bilico fra un passato che non passa e un
futuro di cui nessuno conosce la forza devastatrice.
Riletto e/o rivisto oggi è nostalgia,
tanto più commovente perché, all’improvviso,
può capitare di respirarne ancora l’odore,
può capitare di coglierne, ancora per un
istante, un bagliore....
Così, La France de Maigret vue par le maîtres
de la photographie du XX siècle (Omnibus,
215 pagine, 38,50 euri) è qualcosa di
più di un semplice, per quanto splendido,
libro illustrato dove i testi del suo più prolifico
e più tradotto scrittore fanno da perfette
didascalie alle immagini di alcuni mostri
sacri dello scatto. È una sorta di «come eravamo
» struggente e malinconico perché
rimanda a un’età sentimentale più che a
un’epoca, a una sorta di adolescenza della
modernità, quando tutto è ancora in fieri, esiste,
ma è come cristallizzato, l’alba che si
pensa eterna di un’umanità che si crede unica.
Georges Simenon scrive il suo primo Maigret
nel 1929 e lungo l’arco di settanta
romanzi gli costruisce intorno un’identità
che sta a quella della Francia come l’abito
fatto da un bravo quanto umilmente orgoglioso
sarto di provincia. Lo battezza Jules,
anno di nascita il 1887, luogo, un paesino
vicino a Moulins, figlio di un amministratore
e quindi qualcosa di più di un contadino,
qualcosa di meno di un borghese. Viene da
qui la sua allergia per i notabili e per i grandi
commercianti delle piccole città, il loro
decoro cementato fra le quattro mura di
costruzioni solide e un po’ soffocanti, il
moralismo spesso sordido dietro al quale la
violenza può esplodere da un momento
all’altro. Avrebbe voluto fare medicina,
Jules, ha fatto il liceo a Nantes, presso una
zia, si è ritrovato poliziotto un po’ per caso e
un po’ per mancanza di mezzi, in uniforme
prima, poi funzionario, infine capo della Criminelle...
La sua Parigi è la stessa del suo
creatore, la gare du Nord dove quest’ultimo
è arrivato a 19 anni, la collina di Montmartre,
i dintorni di place des Vosges e del boulevard
Richard-Lenoir, fra Bastille e République,
dove il primo avrà il suo domicilio,
al numero 132. E poi, gli argini della Senna,
dal ponte Saint-Michel sino a Bercy, il pavé
delle sue strade, le sedie in moleskine rosso
delle sue brasseries, i tavoli di marmo...
Molti piccoli bar, molti menu scritti sulla
lavagna con il gesso, molti hôtel equivoci e
meschini dove la miseria ha un odore tutto
suo, molto alcol... Bambino, il futuro commissario
ha visto morire la madre per colpa
di un medico ubriacone e così il bere è un
po’ una nemesi e a suo modo un antidoto:
fine à l’eau, vin de pays, calvados, certo, e la
birra fresca e spumosa che una ragazzo della
brasserie Dauphine porta al suo ufficio del
quai des Orfèvres.
A Maigret piacciono i luoghi pieni di gente e
di cose, gli artigiani del Marais, i negozi di
rue des Dames o della rue Lepic, i mercati
con il loro trionfo di ortaggi, di pesce e di
carne. È a disagio nei bei quartieri della Rive
droite, li trova freddi, pieni di nevrosi, lo
mettono di malumore, lo rendono impaccmuoversi...
È il retaggio, rovesciato,
dei gusti del suo creatore,
di quando, come ogni
provinciale baciato dal successo
e dal denaro, ha voluto il suo
tavolo prenotato al Fouquet’s e da Maxime’s,
sugli Champs Elisées, ha preso casa a
Neuilly, ha esibito le grosse cilindrate, ha
brindato con Josephine Baker e poi ci è
andato a letto, ha incrociato il bel mondo, si
è sentito come loro, ma oscuramente ha sempre
avvertito che non ne faceva parte, ne
rimaneva comunque all’esterno, un parvenu,
uno scrittore popolare, sì, ma da edicola ferroviaria
e non da Académie française...
Con i primi soldi Simenon si fa la barca, ma
non è uno yacht. Si chiama Ginette, poi,
un’altra, Ostrogoth. Ci va lungo i canali e
risalendo o discendendo i fiumi con la
moglie, Régine, la donna di servizio-amante,
Boule, il cane, Olaf. Ci va anche con
Maigret a cui quel mondo fatto di balere ai
bordi della Senna, della Loira e della Marna,
dove si danza in canottiera al suono della
fisarmonica, piace. E gli piacciono le bettole
affollate di un’umanità fatta di poco, di
un’umanità fatta di niente, marinai, guardiani
di chiuse, operai, artigiani, artisti di cabaret,
sartine, impiegati, sguatteri... Accarezzano
la vita, hanno appetiti, capricci, si
attardano davanti l’aperitivo, fanno l’amore
con voracità...
Di provincia in provincia, la Francia si svela
davanti a Maigret e al suo creatore. Le
spiagge fra Dieppe e La Rochelle, le paludi
della Vandea, i porti della Normandia...
Dappertutto è la medesima atmosfera,
voluttuosa e insieme intossicante. Dappertutto
le finestre si chiudono davanti all’opacità
del mistero. Spesso piove, piogge leggere,
piogge tristi, piogge insidiose che provocano
reumatismi e torcicolli... Ecco una
luce tremolante, la porta di un bar che si
apre, un bancone, poche parole scambiate, il
sapore di un’aringa, il grido dei gabbiani...
Dappertutto è la medesima drammaturgia
che si ripete, perché l’uomo reagisce alle
fatalità allo stesso modo, incassa e
poi, d’improvviso, uno scatto, una lama, un
colpo, un corpo che cade....
Solo sulla Costa azzurra Maigret va in bambola
e Simenon con lui... Se quest’ultimo è
un uomo del Nord, di notti e di nebbie, l’altro
è di campagna, conosce le semine e i raccolti.
Di fronte al sole, ai colori, l’azzurro del
cielo, il rosso delle rocce, i giallo delle
mimose, il nero dei cipressi, il verde-acqua
del mare, di fronte al vin rosé, le bocce, le
cicale, la bouillabaisse è come ritrovarsi in
un paradiso che ti prende e ti porta con sé...
Non vorresti più pensare, vorresti solo
lasciarti andare, sai che è rischioso, ma tmanca quasi la forza di reagire a petto di
quella «curva armoniosa della spiaggia che
aveva qualcosa di femminile, quasi di voluttuoso
» (Le vacanze di Maigret)... Ci vuole
una grande senso del dovere: Maigret ce
l’ha, non per niente è un grande poliziotto.
Simenon ce l’ha: non per niente è un grande
scrittore. Ma la tentazione è forte, molto forte...
In Maigret esita, ecco gli uomini soli a un
tavolino di bistrò, «lo sguardo perduto nel
vuoto o fisso su una pagina di giornale, tutti
con in comune quella patina particolare che è
frutto di una vita umile e monotona». In Maigret
e il cliente del sabato, ecco la folla di
Montmartre che si muove come se fosse
giorno di mercato in provincia, «e si sarebbe
detto che come in un paese esistesse fra loro
un’aria di famiglia». In La chiusa numero
uno, ecco questa Parigi «fatta di felicità
infantile. Certi oggetti, certe persone, le bottiglie
di latte davanti alle porte, la lattaia in
grembiule bianco, il camion di ritorno dalle
Halles con il suo strascico di ultime foglie di
cavolo, altrettanti simboli di quiete e di gioia
di vivere». In Maigret in affitto, il rumore di
un taxi «ha l’aria di insultare il silenzio»...
Come una spugna, Simenon si imbeve di tutto:
«Ogni strada era differente, aveva la sua
personalità, e più si riempiva, più mi sentivo
super-eccitato. Avevo bisogno delle strade
con le sue vecchiette, i suoi vecchi
solitari, le comari dalla voce forte,
le portinerie dove regnava un
odore di cucina a fuoco
lento. Nel mio linguaggio
personale,
“andavo a
caccia“. A caccia
di umano. A
caccia di vita».
E ancora: «Il tempo
di una passeggiata
di un quarto d’ora,
era passato davanti a
un ospedale, una prigione,
un asilo, una scuola
di infermieri, una chiesa
e una caserma dei
pompieri. Non era come
il riassunto dell’esistenza?
Non mancava che il
cimitero, del resto non lontano
».
Ottanta pagine al giorno,
settanta parole al minuto, 103
inchieste del Commissario,
431 romanzi, una dozzina di
pseudonimi... Simenon attraversa
il Novecento senza accorgersi
del surrealismo, del marxismo,
dell’esistenzialismo, ignora
Kafka, non legge Joyce, gli è
estraneo Céline. All’impegno di
Malraux o di Drieu contrappone un
anarchismo antistorico. Il suo è un
universo senza morale, dove il vizio e il
delitto sono considerati senza stupore, frutti
della natura umana. Siamo tutti criminali in
potenza, in fondo, che cerchiamo di uscire
dalla mediocrità attraverso un atto di violenza
o di amore, una forma di crimine anche
questo, e che ha bisogno di un complice,
comincia con un’idea fissa, crea disordine,
provoca delle crisi e dei gemiti, termina con
la irrimediabile separazione dei corpi... Resta
nei suoi libri questo specchio della Francia,
l’armonia del paesaggio, la sua diversità, il
sontuoso decoro dei suo abitanti. Non ride
mai Maigret, e forse è felice così. Quanto a
Simenon, ci vorrebbe un’inchiesta, con tanto
di interrogatorio, lì, al primo piano del quai
des Orfèvres.