Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Pierluigi Felli: "Lo stato italiano, storicamente, sta con i forti"

Pierluigi Felli: "Lo stato italiano, storicamente, sta con i forti"

di Fabrizio Di Ernesto - 11/03/2008

 

Pierluigi Felli:

Rinascita ha incontrato il politicamente scorretto autore di "Hotel Guantanamo" e "Camerata addio"

Abbiamo incontrato il giovane romanziere laziale che, come nei suoi libri, non si nasconde dietro facili verità di facciata ma boccia senza appello la società dell’apparire e difende, ancora una volta, gli ultimi e gli sconfitti rilanciando la sua masochistica passione per i sogni infranti.


Lei ha fatto una scelta molto particolare, scrivere libri politicamente scorretti, rifiutando una certa omologazione culturale che in Italia la fa da padrone. Questa scelta l’ha in qualche modo penalizzata a livello mediatico?

Penso proprio di sì, ma, come diceva il mio quasi omonimo Bobby Fellon prima di salire sul ring: “L’ho voluta io”. Intendo dire che se un esordiente accetta di lanciarsi nella narrativa pubblicando un romanzo dal titolo ‘Camerata addio’ e, soprattutto, con una copertina raffigurante una croce celtica non può certo aspettarsi il benvenuto dal Corsera o da ‘la Repubblica’. Scrivere un romanzo dalla parte sbagliata di un neofascista che finisce i suoi giorni in Rhodesia combattendo fianco a fianco con i bianchi segregazionisti contro Robert Mugabe non è, in sintesi, politicamente corretto. E tutti ormai sanno che la grande editoria è retta da una struttura interna formata esclusivamente da gente di sinistra. Veltroniani che, ad esempio, lavorano nella Mondatori ma vengono stipendiati dalla famiglia Berlusconi. Per sfondare nel mondo della letteratura occorre rispettare delle precise regole: sostenere il Pd, esordire con una saga di una famiglia ebrea durante l’olocausto, dichiararsi omosessuale o, in alternativa vantare origini rom. Non mi pare il mio profilo.

In Italia sono molte le persone che sognano di diventare scrittori. Lei quando ha capito che poteva essere un autore da pubblicare?

Il 29 luglio 2003 esce una mia storia breve poliziesca dentro una raccolta selezionata dalla Baldini & Castoldi Dalai. Il 6 di agosto vengo contattato dall’editore della Novecento, Massimiliano Vittori che, dopo aver evidentemente apprezzato il mio racconto, mi commissiona un romanzo da terminare entro 90 giorni. Mi mette 250 euro in mano e mi dice: “Tutte le entrate le divideremo a metà”. Il successo di vendite è anche inaspettato e quindi da lì ho preso coscienza circa le mie possibilità. Sino ad allora avevo scritto solo una quarantina di racconti in sei anni. Tutti rifiutati, impubblicabili, sinceramente orrendi, ma che, insieme al leggere molto, hanno costituito una sorta di palestra, l’allenamento in vista delle partite.

Nelle sue opere usa spesso riferimenti dotti non sempre facili da comprendere. A cosa è dovuta questa scelta stilistica?

Io scrivo per entrare nelle case di chi non è abituato a leggere. Il mio pubblico è composto in gran parte da chi non ce la fa a sopportare i mattoni, persone che desiderano storie snelle, scorrevoli senza troppi arzigogoli intellettualistici. La mia è, come si diceva una volta, letteratura d’evasione. Non a caso vengo letto molto nelle carceri. I miei riferimenti sono Scerbanenco, Spillane, Malet, Manchette, Pinketts, Dard, Woolrich, Villaggio. Autori che scrivono semplicemente anche se, sotto sotto, intendono anche comunicare qualcosa. I miei libri, insomma, hanno due livelli di scrittura: quello superficiale, per tutti, e quello più profondo, criptico, quello pieno di rimandi e citazioni che, per forza di cose, non possono essere comprese da tutti.

Nei suoi romanzi ha spesso parlato di ultrà e forze dell’ordine. Dall’alto della sua esperienza che idea si è fatto dell’uccisione di Gabriele Sandri? Non crede che l’11 novembre a Badia al Pino si sia oltrepassato il punto di non ritorno e che alla fine mediaticamente sia passata l’equazione tifoso uguale teppista?

Io sono stato ultras e quindi sto dalla loro parte, soprattutto di quelli ingiustamente incarcerati o che stanno comunque sopportando pene detentive spropositate rispetto al reato commesso. Su Italia1, ad esempio, un giorno sì e l’altro pure, ci si meraviglia sul come mai un extracomunitario ubriaco che uccide alla guida di un’auto sta, in attesa del processo per omicidio ‘colposo’, ai domiciliari, ma non ci si stupisce affatto sul perché un poliziotto lucido che uccide un ragazzo inerme sta, in attesa del processo per omicidio ‘volontario’, fuori libero senza alcuna restrizione personale. Come dire: in un caso il codice andrebbe riformato e nell’altro no. La realtà è che poliziotti e carabinieri, in quanto servitori dello Stato, vengono sempre difesi da tutti, destra e sinistra, Rai e Mediaset. Sempre più spesso però si sente parlare di tutori dell’ordine prepotenti, arroganti, vigliacchi che ti pestano in questura, che ti costringono a confessare senza la presenza dell’avvocato, facendo per altro invalidare i processi, che ti torturano nelle scuole, che ti sparano senza motivo.
E se l’equazione tifoso uguale teppista è dunque passata lo dobbiamo proprio ai mass media, che per la domenica dell’assassinio Sandri e per il lunedì sono stati abilissimi a spostare l’obiettivo, a deviare l’attenzione verso ‘quello che è successo dopo’, gli incidenti provocati dagli ultras a Roma, Bergamo, Milano e Taranto, gravissimo rispetto a ‘quello che è successo prima’, l’uccisione, tutto sommato meno grave, riuscendo in tal modo ad influenzare subdolamente lo spettatore che, di conseguenza, quando la sera è andato a letto lo ha fatto nella certezza che il male in Italia ‘sono quei teppisti di cui non se ne può più’ e non quei pazzi armati di cui non se ne può più. Emblematico Giletti che dà del bastardo al teppista devastatore ma non al poliziotto omicida.

In ‘Hotel Guantanamo’ affronta temi molto duri come ad esempio la detenzione nel campo di prigionia Usa. La politica in Italia però appare sorda a queste problematiche. A suo parere ciò a cosa è dovuto?

È dovuto secondo me al fatto che il futile attrae più del serio. In televisione soprattutto i programmi, più sono di livello basso e più fanno audience. Senza tralasciare che lo Stato italiano è storicamente poco propenso a prendere posizioni scomode. Sta con i più forti perché gli conviene, e quindi consegna Ocalan, partecipa a guerre non sue e così via.

Quasi sempre i protagonisti delle sue opere sono gli ultimi, gli sconfitti. Provocazione o preciso intento di portare alla ribalta una realtà diversa da quella di letterine, tronisti e grandi fratelli in cui quella italiana si sta via via trasformando?

È un preciso intento. I tronisti e i grandi fratelli trasmettono un messaggio deleterio: per assurgere alla ribalta si può anche non saper far niente. La sola loro esistenza dimostra come un contenitore televisivo possa essere capace di creare dal nulla un fenomeno, costruire a tavolino un prodotto di successo, confezionare l’aria fritta.
È chiaro che non mi interessano. Io, nei miei romanzi, rappresento personaggi che, al contrario, hanno un’anima. Nera, magari, ma ce l’hanno. I perdenti, gli sconfitti, i disillusi, i decadenti, gli ultimi mi piacciono di più del vincente perché mi affascinano le loro parabole discendenti, la loro tristezza, l’amarezza di chi non ce l’ha fatta rispetto alla solarità di chi, felice, ha realizzato i propri desideri. Mi piacciono di più i sogni infranti di un barbone che gli obiettivi raggiunti dal Briatore di turno. Amo di più la C2 di Di Canio che la Champions league.

Lei è uno scrittore molto prolifico, negli ultimi tre anni ha pubblicato ben otto romanzi. Da dove trova tutta questa ispirazione?
Tra le varie classificazioni dei romanzieri ce n’è una fondamentale: c’è chi scrive per raccontare una storia e basta, e chi scrive supponendo di aver compreso il senso della vita e te lo vuole rivelare attraverso le sue alte opere. Questi secondi, la stragrande maggioranza, producono un libro ogni cinque anni, loro dicono perché frutto di grandi macerazioni interne, ma la realtà è che sono individui senza fantasia che principalmente svolgono altri lavori. Io faccio parte della prima categoria: quella che scrive per mestiere e non dietro l’ispirazione dettata dal momento. Insomma, non sono io ad essere prolisso ma sono gli altri ad essere sterili. In fondo sforno di media un romanzo ogni cinque mesi. In linea dunque con tanti illustri del passato: Simenon, solo con il suo nome ci lascia 193 romanzi; Salgari quasi 100; Liala 84; Scerbanenco 82, Burroughs 91; Dard, solo del suo personaggio principe (Sanantonio) ne produce, mi pare, 144; non molto distante Charteris con il suo Simon Templar o meglio ancora Allain e Souvestre, la coppia francese che mandò alle stampe trentadue storie di Fantomas in trentadue mesi. Oggi chi abbiamo? Camilleri, Stephen King. Oggi siamo minoranza perché noi scriviamo per lavoro mentre loro scrivono per hobby.

Sta lavorando a qualcosa attualmente? Quando potremo leggerlo?

I miei prossimi tre romanzi saranno: ANGELS per la Novecento, una storia senza pretese ambientata nel mondo del basket statunitense; DASVIDANIA BAMBOLA per la Pulp, terzo appuntamento con il detective Andrea Doria, che va ad indagare a Mosca e ciò mi dà spunto per dire la mia su Putin, la Politkovskaya, sulle privatizzazioni dell’era Eltsin, sugli oligarchi e sulla lotta Russia-Stati uniti-Israele per accaparrarsi le vie del petrolio; e RAGAZZI DI CURVA ancora per la Novecento, con lo stesso protagonista di ‘L’amor teppista’ e di ‘Vendetta ultras’ dove affronterò anche le problematiche inerenti gli ultimi luttuosi fatti di cronaca nera.