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La scommessa "no global" di Tremonti

di Luca Ricolfi - 12/03/2008

 
 

Da pochi giorni in libreria, il nuovo libro di Tremonti - La paura e la speranza (Mondadori) - fa già discutere di sé. Ed è logico che sia così: non solo perché Tremonti ha spesso idee interessanti, ma perché è l'estensore del programma del Popolo della libertà e sarà il prossimo ministro dell'Economia se, come probabile, le prossime elezioni le vincerà il centro-destra.

 

Alcune idee del libro non sono nuove, perché già esposte in lavori precedenti come Rischi fatali (2005), Il fantasma della povertà (1995), La riforma fiscale (1995). Tremonti, come la sinistra antagonista, ha una visione decisamente pessimistica dei processi di globalizzazione, di cui sottolinea gli effetti negativi sull'ambiente (a livello planetario), sulle condizioni di lavoro (nei paesi emergenti), sull'occupazione e il reddito (in Occidente), sullo stile di vita e la morale (consumismo). Una visione molto vicina a quella di uno dei più accorati e originali libri antiglobal di questi anni, il pamphlet dello scrittore Bruno Arpaia Per una sinistra reazionaria (Guanda 2007). Con l'importante differenza che, per Tremonti, il male non è il capitalismo in sé ma sono i tempi e i modi della globalizzazione, ovvero la rinuncia della politica europea a governare un processo che ha assunto un ritmo troppo rapido e disordinato.   L'aspetto   interessante, però, è che molte cose che ora appaiono evidenti - ad esempio il rischio di impoverimento di ampi strati delle popolazioni europee - Tremonti le diceva già dieci anni fa, quando l'euforia della crescita le faceva apparire eterodosse e stravaganti.

 

Altre idee sono invece relativamente nuove, e stranamente poco discusse nella raffica di interventi e prese di posizione che si sono susseguiti in questi giorni, perlopiù dominati dalla disputa su pregi e virtù della   globalizzazione. Peccato, perché l'aspetto più interessante   del  libro   di Tremonti non è la sua analisi dei costi sociali della globalizzazione, svolta nella prima parte del libro («La paura»), ma il ragionamento politico che sorregge la pars construens del suo discorso, svolta nella seconda parte («La speranza»).

 

Ridotto all'osso il ragionamento di Tremonti mi pare questo. La domanda di Welfare è destinata a crescere. L'Europa non vuole e non può rinunciare al suo Welfare, ma per salvare e rafforzare lo Stato sociale ci vogliono riforme incisive. Le riforme, a loro volta, non possono che poggiare su due pilastri. Il primo pilastro è «più politica», ossia più democrazia e più forza dei governi (innanzitutto a livello europeo). Il secondo pilastro è meno Stato e più sussidiarietà, ossia più terzo settore, più volontariato, più istituzioni sociali, più comunità. Il problema è che entrambi i pilastri richiedono un consenso ampio, che non può che fondarsi su un capovolgimento della cultura del '68, e quindi sul ripristino di alcuni valori fondamentali: l'autorità, il senso di responsabilità individuale, la cultura dei doveri, la solidarietà comunitaria. Senza di essi, o meglio senza il sostegno convinto della gente a simili valori, anche i sogni del riformismo liberai sono destinati a infrangersi contro gli egoismi individuali, contro le resistenze delle corporazioni, contro la forza degli interessi organizzati. Perché l'intensità dei problemi che l'Europa continentale deve affrontare è enormemente cresciuta, e corrispondentemente è cresciuto «il quantum di consenso politico che è necessario per governare».

 

Insomma Tremonti prova a dirci che la fiducia nelle virtù del mercato non fa i conti con l'immensa inerzia che le riforme devono vincere, e che senza un deciso ribaltamento della cultura dei diritti non andremo da nessuna parte. Perché i grandi cambiamenti non si fanno dall'alto, come credono i tecnocrati illuminati, ma richiedono il sostegno e l'adesione dei popoli.

 

Un'analisi ardita, che susciterà critiche, perplessità e discussioni. Ma che non si può liquidare con il semplice richiamo ai luoghi comuni dell'ortodossia liberista.