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Indifferenti o partigiani? Per un superamento dell’antropologia gramsciana

di Francesco Lamendola - 12/03/2008

 

 

Secondo una certa mentalità militante, che, in Italia, trova la sua massima espressione nella cultura marxista e in quella cattolica fondamentalista, nella vita sono possibili due soli atteggiamenti: quello del partigiano e quello dell'indifferente. Il primo si batte strenuamente per realizzare le idee (si badi: le idee, non le cose) in cui crede; il secondo, invece, si tiene lontano dal tumulto, coltiva il suo orticello e se ne infischia tranquillamente dei problemi che esorbitano dal suo personale orizzonte d'esistenza. Tertium non datur.

Il primo, minoritario, è il tipo della persona generosa, del cuore caldo, di colui che non gioca al risparmio ma si dà, anima e corpo, per il trionfo della giusta causa; il secondo, di gran lunga maggioritario, è il prototipo dell'individuo socialmente inutile, moralmente parassitario, dell'ignavo di dantesca memoria. Al primo, l'ammirazione e la gratitudine; al secondo, il disprezzo e la ripulsa: non di curar di loro, ma guarda e passa.

Insomma, il primo è una versione riveduta e corretta dell'eroe romantico, che ha conosciuto, in Italia in Europa, una estrema, tardiva fioritura nel 1968, con il mito di Che Guevara e con il tipo del giovane rivoluzionario senza macchia e senza paura. Il secondo non è una figura storica, fa piuttosto parte del paesaggio, come la vegetazione o le colline; ostacolo, con la sua inerzia, con la sua pesantezza, alle iniziative generose del suo contemporaneo militante.

Il primo tipo umano è stato celebrato da innumerevoli opere letterarie e, poi, anche cinematografiche, come ilromanzo La Certosa di Parma di Stendhal o come il film Zabriskie Point di Antonioni: immancabilmente giovane, immancabilmente bello, immancabilmente nobile e generoso, immancabilmente progressista o rivoluzionario o, per lo meno, libertario. Il secondo tipo umano è stato messo alla berlina da altrettante opere letterarie o cinematografiche, dal don Abbondio de I promessi sposi agli squinternati borghesi de Gli indifferenti di Alberto Moravia, e via sbeffeggiando e vituperando.

 

Una lucida teorizzazione di questa frattura antropologica, nelle due tipologie del partigiano e dell'indifferente, intese come categorie irriducibili l'una all'altra, sul piano etico oltre che su quello esistenziale, si trova in uno scritto giovanile di Antonio Gramsci (nato ad Ales, in provincia di Cagliari, nel 1891, e morto a Roma, dopo una lunga detenzione, nel 1937), su cui vogliamo ora fermare la nostra attenzione per la sua coerenza ed estrema chiarezza, nonché per la ricchezza di spunti di riflessione che esso offre.

Nel numero unico La Città futura, pubblicato dalla Federazione giovanile socialista piemontese l’11 febbraio 1917, in piena prima guerra mondiale e pochi giorni prima della Rivoluzione russa di Febbraio, Antonio Gramsci scriveva questo articolo dal titolo Indifferenti (riportato in: Gramsci, Le opere, a cura di Antonio A. Cantucci, Roma, Editori Riuniti, 1997, pp. 23-25):

 

“Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che «vivere vuol dire essere partigiani». Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

“L’indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica.

“L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costrutti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che  un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i  odi che poi solo la spada potrà tagliare lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa.  Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi no ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.

“I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E no già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci  di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.

“Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che sia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrificio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.

“Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gi indifferenti.”

 

Chiarezza e coerenza, dicevamo, sono le due qualità che subito emergono dal confronto con un testo di questo genere.

Una chiarezza e una coerenza così evidenti, così sincere, così "pure" nella loro giovanile ingenuità (Gramsci, all'epoca, era un ragazzo di venticinque anni), che non possono non colpire il lettore e, in una certa misura, commuoverlo e quasi persuaderlo.

Perché "quasi"?

Perché rimane, sotto l'adesione emotiva che sgorga da una prima lettura, una riserva a livello profondo, che rimane inespressa fino a quando prevale il sentimento della empatia con la battaglia umana e morale della quale l'Autore si fa portabandiera; ma che poi, a una riflessione più meditata ed attenta, emerge con forza irresistibile e si delinea con sempre maggiore chiarezza, dall'impianto generale fino ai particolari minori.

Dunque, l'impianto generale in primo luogo.

Intanto, perché questo è uno scritto di odio; con l'uso del verbo odiare reiterato all'inizio, al centro e alla conclusione del ragionamento che lo sorregge. E l'odio viene dai visceri, non dalla testa e tanto meno dalla consapevolezza spirituale: è l'atteggiamento del cavernicolo che, malamente incivilito, non potendo brandire la clava per spaccare il cranio al suo nemico, brandisce la penna come una clava, per levargli la pelle a striscia a striscia. Intendiamoci: non c'è nulla di male ad odiare le cose sbagliate; le cose che, secondo noi, sono sbagliate (ma quante volte una persona intelligente e onesta con se stessa, ammette di aver cambiato opinione, nella propria vita?).

Ma l'odio delle persone, l'odio dei propri simili è un'altra cosa: ci abbassa al livello dei bruti (e anche questo è solo un modo di dire: perché, come si sa, gli animali non odiano affatto; tranne quelli pervertiti dall'uomo, come i cani da guardia). E non lo diciamo per fare del moralismo spicciolo, ma per la profonda convinzione che l'odio, oltre a innescare la spirale perversa e insuperabile della conflittualità permanente  - che, non a caso, per un vero marxista, è cosa buona e giusta -, abbassa, contamina e imbruttisce colui che ne è posseduto e lo rende simile all'odiato "nemico".

Poi, perché da questo articolo emerge il caratteristico manicheismo, per giunta venato di moralismo ed eticamente autoreferenziale, secondo il quale solo noi siamo nel giusto e altri modi di rapportarsi ai problemi del vivere sociale sono automaticamente svalutati e misconosciti come altrettante strategie dell'inerzia, del qualunquismo, della mala fede, dell'ipocrisia tartufesca. Non emerge alcuna indulgenza per chi, diversamente da noi, pensa che si possa avere un altro approccio ai problemi della socialità dell'individuo. Chi non è con noi è contro di noi, nel senso che egli è oggettivamente (cioè, al di là delle sue intenzioni soggettive) un nemico che coopera alla nostra sconfitta,; e che, quindi, dobbiamo cercare di distruggere, s'intende per "legittima difesa" (e sia pure preventiva: strana convergenza con le dottrine politico-militari dei neoconservatori statunitensi dei nostri giorni).

Infine, le perplessità emergono dalla considerazione circa l'impianto generale di questo scritto, perché in esso non vi si opera la benché minima distinzione tra il concetto di "parteggiare" inteso come prender parte alla cosa pubblica, e quello di "parteggiare" come aderire integralmente, fanaticamente, militarescamente a una "parte" contro un'altra parte ("ed un Marcel diventa ogne  villan che parteggiando viene", ironizza Dante in Purgatorio, VI, 125-126). E questa seconda maniera è sempre stata quella dei mediocri, usi a nascondere la propria inconsistenza umana e intellettuale dietro un qualunque stendardo da sventolare in faccia al "nemico".

Ora, il sospetto è che Gramsci, più o meno consapevolmente (non è nostra volontà quella di fare il processo alle intenzioni), abbia in mente la seconda delle due accezioni del concetto di "parteggiare", da cui deriva il sostantivo di partigiano, da lui rivendicato con orgoglio e agitato, appunto, come una bandiera sulla faccia della turba dei cosiddetti "indifferenti". Ma quando parteggiare si riduce a inquadrarsi ciecamente in un credo militante, che nasce da una conflittualità permanente, allora sarebbe meglio definirlo "spirito di fazione", ossia faziosità. Non si combatte, cioè, per il trionfo di una verità e di una giustizia che possano configurarsi quali punto d'incontro fra diverse visioni del reale, ma come lotta all'ultimo sangue fra la mia verità e la mia giustizia e quelle dell'altro. Vincerà il più forte, non colui che sarà più vicino (o, se non altro, meno lontano) dalla verità e dalla giustizia.

Certo, il marxismo rifiuta programmaticamente quest'ultima impostazione. Per esso, non esiste una verità che possa configurarsi come luogo della mediazione fra concezioni diverse: ogni concezione (etica, politica, economica) non è che l'espressione di un interesse materiale concreto; e, darwinianamente, finirà per avere la meglio chi resisterà al duro discrimine della selezione del più adatto.

In una simile prospettiva, ogni tentativo di concepire la verità non come un possesso, di cui certi gruppi e certe classi sarebbero detentori unici ed unici legittimi depositari, ma come una ricerca, non può che essere bollato con gi epiteti più infamanti di trasformismo, camaleontismo, doppiezza o, nel migliore dei casi, indifferenza e qualunquismo. L'intransigenza moralistica e manichea, pertanto, non si limita al regno dei valori, ma investe anche le questioni di metodo: dimmi come concepisci il perseguimento della verità, e ti dirò se sei un amico (che, forse, non sa di esserlo) o un nemico (che, perfidamente, cerca di occultarsi in quanto tale).

Ora, è proprio la volontà di superare l'alternativa secca della logica amico/nemico che può consentire a una società di elaborare i valori della ricerca, della tolleranza, della collaborazione fra diversi: altrimenti, non resta che affidarsi alla logica della "santa ghigliottina", per imporre la verità, e dunque la virtù, anche agli sciagurati refrattari.

Ne abbiamo già parlato in precedenti lavori: in particolare, nel saggio «Amico» e «nemico» nel pensiero politico di Carl Schmitt e in quello, più recente, Il 1789 è figlio dell'Illuminismo e questo, a sua volta, della Massoneria?, che si ricollega al precedente il  pensiero  laicista  dell’ Illuminismo,  erede  della struttura  politica dell’assolutismo (tutti consultabili sul sito di Arianna Editrice).

Qui, pertanto, non ci limiteremo a poche, brevissime osservazioni circa i particolari secondari dell'argomentazione gramsciana.

Innanzitutto, che cosa significa che "non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città", perché "chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare"? Se si vuol dire che l'uomo è una creatura socievole, sta bene; ma se si vuol dire che l'uomo il quale non parteggi, non ha nemmeno il diritto di esistere, allora non siamo più d'accordo. Le abbiamo viste, le applicazioni pratiche di questo principio: nei gulag sovietici e nei lager nazisti. Le abbiamo viste quanto basta per non desiderare di vedere la cosa ripetersi. E invece si è ripetuta, e nel peggiore dei modi: nella Cambogia di Pol Pot, per esempio. Ma le premesse erano lì, nella dottrina secondo la quale solo chi parteggia ha diritto di essere riconosciuto come essere umano. Si tolga a una persona il diritto di non parteggiare, e ne avremo fatto un paria, una entità amorfa che bisogna assolutamente "rieducare" (come nella Rivoluzione culturale di Mao) o, se è proprio irrecuperabile, ridurre a un numero in un campo di concentramento.

Non è una dottrina molto diversa da quella, di matrice massonica e illuminista, secondo la quale gli esseri umani devono essere costretti con la forza ad essere virtuosi, per poter essere anche felici: come si leggeva in un libello anonimo della Massoneria francese nel 1744 e come si legge, in un certo senso, nella odierna Costituzione degli Stati Uniti d'America. Bisogna diffidare di coloro i quali pretendono di sapere cosa sia la verità e, ancor più, di coloro i quali pretendono di sapere cosa  sia la felicità: perché sono sempre animati dal sacro zelo di volerne far gustare le delizie a tutti gli altri, con le buone o con le cattive.

E poi, che cosa significa che "indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita"? Sembra di leggere, fra le righe (ma neanche tanto nascosto) che gli indifferenti, in quanto abulici, andrebbero rieducati; in quanto vigliacchi, vanno coperti sotto montagne di disprezzo; e, infine, in quanto non-vivi, o si decidono a scuotersi, oppure… Tanto, sono già morti, non è vero? Sono degli zombie, dei morti che camminano. Nessuno si accorgerebbe della loro mancanza, se sparissero dalla circolazione; nessuno li potrebbe mai rimpiangere.

Non stiamo forzando il pensiero di Gramsci.

Che significa, infatti, dopo avere più volte espresso odio contro gi indifferenti, proclamare che "l’indifferenza è il peso morto della storia" e che, inoltre, essa "è la palla di piombo per il novatore", se non che gli indifferenti, questi pesi morti e queste palle di piombo, devono essere eliminati dal "novatore" (leggi, da colui che ha le nuove Tavole della Legge in mano), ovvero gettate nel cestino della carta straccia della Storia? Perché, gira e rigira, si torna sempre lì, sempre a Hegel e all'idea che lo Spirito, attraverso la Storia, esegue una marcia trionfale verso il Progresso, calpestando spietatamente chi non si mette al passo con l'anima dei tempi. Nella concezione marxista della marcia della Storia vi è un concentrato del peggio dell'hegelismo, del peggio dell'illuminismo e del peggio del giacobinismo.

E questa era l'idea della storia di Antonio Gramsci, come di tutti gli intellettuali marxisti: chi più e chi meno. Il fatto, incontestabile, che Gramsci fosse una grande mente e il fatto, commovente, che abbia concluso la sua vita nelle sofferenze dovute alla carcerazione, non sposta di un centimetro questo dato di fatto.

Se, nella guerra civile che insanguinò l'Italia dal 1919 al 1922, avessero vinto Gramsci e i suoi compagni di fede, il nostro Paese non avrebbe evitato la dittatura: avrebbe avuto una dittatura di diverso colore politico. Forse più blanda, forse più dura: chi lo sa.

Ma, per favore, non facciamo di Gramsci un martire della libertà. Egli non aveva in mente un'Italia democratica, per lui la democrazia non era che la verniciatura di una dittatura della classe borghese. Alla quale bisognava contrapporre un'altra dittatura, di un'altra classe sociale: la dittatura del proletariato.

"Domando conto - scrive a un certo punto - ad ognuno di essi [cioè dei supposti indifferenti] del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime."

Sembra il linguaggio di Robespierre: bisogna essere inesorabili con la "palude", con questi renitenti alla leva del dovere, con questi fuggiaschi del pubblico bene.

E, infine, dalla frase: "Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo", al di là delle fiorite immagini poetiche, traspare un'utopia che ha un risvolto francamente minaccioso: che posto ci sarà, nella "città futura che la mia parte sta costruendo", per i dissenzienti?

Sembra proprio di sentire il savio ammonimento di Anatole France: quando si parla tanto di virtù e  di città future che una parte si accinge a costruire, allora dobbiamo prepararci: vuol dire che gli dei hanno sete.

Sete di sangue.