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La legge di Wilcoyote. La globalizzazione e le politiche economiche

di redazionale - 16/03/2008

Fonte: noeuro


La mistica del lavoro

Il delirio del PIL e della crescita continua

Il debito pubblico

Il denaro e la legge di Wilcoyote

La crisi del 29 e la Grande Depressione

Bretton Woods e il F.M.I.

Il signoraggio

L’Euro

Economia e finanza

Le tasse e l’evasione fiscale

Il libero mercato

Il reddito di cittadinanza

L’Argentina

La globalizzazione e le politiche economiche

Le gabbie mentali della destra e della sinistra

Conclusioni


La mistica del lavoro.

L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Questa frasetta idiota, su cui nei decenni

si è ironizzato in molti modi, è l’art. 1 della Costituzione italiana.

Nasce da un compromesso tra la componente comunista della costituente, che

avrebbe voluto la definizione “l’Italia è una repubblica democratica dei lavoratori” e

la componente non comunista che ci vedeva la tipica definizione delle nazioni d’oltre

cortina.

In realtà nella sua apparente stupidità contiene un concetto largamente

condiviso da ogni forza politica di ogni colore e forse addirittura da ogni essere

umano: la sacralità del lavoro e tutto ciò che ne consegue.

La cultura dotta e quella popolare la celebrano da sempre in ogni modo.

Espressioni come: il lavoro nobilita, guadagnarsi il pane, chi non lavora non mangia

(o non fa l’amore, secondo Celentano), ora et labora, fino al tragicamente noto “arbeit

macht frei” che campeggiava nei campi di sterminio nazisti, manifestano un concetto

inconsciamente e generalmente accettato.

Perché dobbiamo lavorare? Per mangiare? Questo è sicuramente vero per le civiltà

contadine dove se non si semina e non si munge non si produce cibo, non lo è per le

moderne civiltà occidentali, dove la tecnologia consente ad una frazione minima della

popolazione di produrre cibo in abbondanza per tutti e addirittura in largo eccesso,

tanto che una considerevole parte della produzione viene buttata o convertita. La

comunità europea stanzia fondi per NON raccogliere certi prodotti

dell'agricoltura. Ed alcuni astuti latifondisti campano di quelli.

Il fatto che siano necessari altri servizi per una vita confortevole nasconde la realtà.

La produzione industriale, sempre più automatizzata, non ha bisogno di molto

personale e gran parte dei servizi pubblici, quelli realmente utili, potrebbe essere

svolta da un numero infinitamente inferiore di persone.

Insomma nel mondo moderno non c’è lavoro per tutti, e questa dovrebbe essere una

gran bella notizia.

Non siamo più costretti a spezzarci la schiena per sopravvivere, ci siamo liberati della

schiavitù della dipendenza dagli eventi meteorologici, possiamo avere tutto quello

che ci serve ed occuparci delle cose che ci piacciono e cercare di migliorare il mondo.

Invece non sembra essere una buona notizia.

Non si può infrangere il tabù della necessità del lavoro, la nostra civiltà se ne nutre

pur se, paradossalmente, lo smentisce sempre di più. Non c’è politico di ogni colore e

di ogni nazione che non si spertichi a baccagliare sulla “salvaguardia del posto di

lavoro”, sulla necessità del “ rilancio dell’economia” per “incrementare lo

sviluppo” e di “aumentare la competitività” per garantire “la piena

occupazione”.

Tutti dobbiamo essere “occupati”. Le lotte sindacali sempre più vertono sulla

garanzia dell’occupazione, proprio quando le aziende, per “rilanciare l’economia”

e quindi “aumentare la competitività”, riducono il personale.

Gli inutili dipendenti devono essere ricollocati, questa è la cosa più importante, e

fare qualunque cosa purché abbiano qualcosa da fare.

Questo non solo perché attraverso il lavoro ottengono i mezzi per partecipare al

consumo di quanto viene prodotto, ma soprattutto perché l’occupazione, per balzana

ed inutile che sia, garantisce loro un minimo di dignità sociale.

La ricerca del lavoro da parte di chi non ce l’ha, o peggio ancora, l’ha perso e sempre

più angosciosa e sempre più frenetica man mano che i lavori veramente disponibili si

fanno sempre più rari. I governi barano in tutti i modi per dimostrare che

l’occupazione cresce o almeno, non diminuisce, le opposizioni contestano i dati, ma

tutti concordano sulla necessità di aumentare i posti di lavoro. Non importa per fare

cosa. Così la gente lotta per la propria schiavitù ed ha paura di perderla.

Nel film “Queimada” Gillo Pontecorvo fa fare a Marlon Brando un azzardato

confronto tra il matrimonio e la schiavitù per convincere i governatori dell’isola ad

abolirla. Tolti gli aspetti sentimentali che non ci interessano, dice Brando, molto

meglio una prostituta che una moglie, per lo stesso motivo meglio un operaio che uno

schiavo.

Recenti studi, che valgono quel che valgono, hanno dimostrato che i proprietari delle

piantagioni americane spendevano più per gli schiavi, prima della guerra di

secessione, di quanto avrebbero speso dopo per pagare dei braccianti.

La sinistra ha qualche difficoltà concettuale ad adeguarsi alla situazione. Avendo

diviso il mondo in lavoratori, ovviamente dipendenti, che sono necessari, e padroni

sfruttatori che non sono necessari, non sa come comportarsi con la figura del

lavoratore inutile e indesiderato. I sindacati la ignorano semplicemente e, d’altro

canto, non potrebbero fare diversamente. I politici no, perché questa massa crescente

sono pur sempre votanti, anche se, essendo esclusi dall’importantissimo processo

produttivo, si sentono esclusi anche dalla società e tendono a disinteressarsi dei suoi

riti, come il voto.

La destra monetarista invece manifesta fiducia estrema nel libero mercato che salva

tutto. La concorrenza, la legge della domanda e dell’offerta sposteranno masse di qua

e di là, ma alla fine tutto si riequiliberà. Quindi quando i parassitari dipendenti

saranno pagati in base a quello che producono e non sulla base di quando hanno

estorto i sindacati, la società garantirà benessere per tutti in maniera adeguata

all’impegno di ciascuno. Quindi chi non lavora e non ha benessere, in sostanza ha

quello che si merita.

Anche questa illusione sta per cadere, la gente che si sbatte disperatamente eppure

non riesce a provvedere a se stessa è sempre più numerosa e il libero mercato in

realtà non è così libero, anzi sta diventando sempre più ristretto.

Sta cominciando a mancare anche la speranza, l’aspettativa di migliorare in futuro o

di garantire ai propri figli una condizione sociale migliore.

Nel mondo passato la speranza di affrancarsi dal lavoro dipendente e migliorare il

proprio status era quella di mettersi in proprio. Oggi una quantità sempre crescente di

persone, stufa di spedire il proprio curriculum inutilmente in giro, ha tentato anche

questa strada, mettendo in campo le poche risorse di cui disponeva, generalmente

perdendole,ed ha saltato il fosso passando dalla parte dei padroni sfruttatori che si

arricchiscono e non pagano le tasse, secondo una certa ottica. Oggi, se escludiamo la

massa enorme di dipendenti pubblici, i lavoratori autonomi sono quasi più numerosi

dei dipendenti e, nella maggior parte dei casi, non hanno benessere, ne garanzie

sindacali e vengono stritolati dalla burocrazia.

Non possono nemmeno lamentarsi perché queste sarebbero le leggi del libero

mercato, al quale anche la sinistra moderata, abbandonata l’improbabile dittatura del

proletariato, sembra essersi convertita.

Un esempio lampante è stata nel 2006 la protesta dei tassisti contro il decreto, di un

governo di sinistra, che voleva liberalizzare la concessione di licenze. Senza entrare

nel merito del decreto e dare valutazioni, ciò che colpisce è stato il suo effetto sociale.

I tassisti hanno scoperto di non essere dei lavoratori, ma dei padroni arroganti, anzi

una potente lobby che impone il proprio interesse alla nazione, strangolandola.

Contro di loro hanno gettato sassi soprattutto chi in passato ha sempre difeso il diritto

allo sciopero e si sono scagliate contro le associazioni di consumatori, perché i

cittadini sono stati danneggiati dal loro comportamento.

In realtà, almeno nelle grandi città, pochi fanno il tassista per vocazione e la

maggioranza lo fa per necessità, non avendo trovato o avendo perso un altro posto di

lavoro. Si è indebitata per acquistare a caro prezzo la licenza di taxi che il decreto

avrebbe ridotto a valore zero e si sarebbe adeguata a fare qualche anno di vita dura e

modesti guadagni, aspettando di riprendersi l’investimento rivendendo la licenza.

Eppure hanno trovato scarsa comprensione.

Di per sé il concetto è giusto: in un libero mercato, chiunque abbia voglia di fare il

tassista dovrebbe poter scrivere “taxi” sulla propria macchina e praticare i prezzi che

vuole, il fatto è che in realtà questo genere di libertà porta inevitabilmente a

immense concentrazioni che poi impediscono a chiunque altro di competere.

In poche parole il libero mercato, se non viene protetto, non resta libero a lungo.

Ad un momentaneo improvviso aumento dell’occupazione segue inevitabilmente un

crollo della medesima e questo perché nessun libero mercato può garantire lavori non

realmente necessari e questo contrasta con la necessità di far lavorare tutti.

Oggi qualunque provvedimento comporti, anche solo potenzialmente, l’aumento di

un unico posto di lavoro, non importa a quale costo, viene sbandierato dai governanti

con grande enfasi, un piccolo passo avanti verso il grande sogno: la piena

occupazione. Una volta il paradiso era il posto dove nessuno doveva lavorare oggi

sembra il contrario.

Il delirio del PIL e della crescita infinita

La campagna elettorale del 2006 tra due schieramenti contrapposti si è basata più su

frazioni di cifre che su qualunque altro argomento. Non su una visione economica

diversa, ma sulla stessa immagine accettata di modello economico e le divergenze

erano sull’ammontare della percentuale di cui fosse o non fosse incrementato il

prodotto interno lordo (PIL) e/o il debito pubblico, dandosi del bugiardo a vicenda.

La gente ovviamente non capiva la ragione del contendere e tifava per simpatie

personali, come allo stadio.

In effetti l’essenza stessa e la relativa importanza di un PIL ( in inglese GDP,Gross

Domestic Product) e di un debito pubblico non veniva e non viene tuttora messa in

discussione da nessuno. Si tratta di una certezza assoluta, pilastro della scienza

economica, chiara e biblicamente certa come il sole che gira intorno alla Terra.

Eppure più di un Galileo è già spuntato, e non da oggi, a mettere in discussione

questo concetto. Il debito pubblico esiste già da un paio di secoli, mentre il PIL è

un’invenzione molto più recente che risale a meno di quarant’anni fa. E’ un’idea

stupida e dannosa anche se non più di quelle che l’hanno preceduta.

Ma che cos’è il PIL e, soprattutto, a che cosa serve? Per quale motivo dovremmo

preoccuparcene?

Il PIL, dal punto di vista della spesa dovrebbe essere la somma dei consumi, degli

investimenti e della spesa pubblica a cui si aggiunge il saldo delle esportazioni.

Consumi + investimenti + spesa pubblica + saldo export import = PIL

A mo’ di verifica si introduce un PIL dal punto di vista della produzione e cioè la somma del

valore aggiunto ( produzione- consumi intermedi) e delle imposte

VA (produzione-consumi intermedi) + imposte = PIL

e un PIL dal punto di vista dei redditi equivalente alla somme delle imposte con i

redditi da lavoro dipendente e i risultati di gestione.

Redditi + risultati di gestione + imposte = PIL

Senza entrare troppo nella questione limitiamoci a notare che, con il passare del

tempo, sono stati rilevati sempre più aspetti grotteschi in questi calcoli. Rinviamo chi

fosse interessato alle numerose voci critiche che si sono levate su questa ipotesi di

calcolo della ricchezza di un Paese.

Vediamo perché.

In primo luogo queste somme sono molto empiriche, a dispetto della loro presunta

matematicità e il loro calcolo non può avere la precisione che viene sbandierata.

Poiché dal Pil partono tutta una serie di concetti macroeconomici, anzi possiamo dire

che l’intera economia politica parte e gira intorno al PIL, i tentativi di rendere una

scienza esatta dei concetti vaghi portano a delle equivalenze che lasciano perplessi.

Cito ad esempio l’equivalenza risparmio = investimenti, già assai discutibile da sé,

che diventa del tutto incomprensibile nelle equazioni macroeconomiche, dove quanto

più si riduce il risparmio, quindi si aumentano i consumi, tanto più cresce la ricchezza

nazionale.

In pratica si afferma solennemente che riducendo gli investimenti si aumenta il PIL,

salvo poi auspicare politiche che incentivino gli investimenti. Oppure la tanto

auspicata riduzione della spesa pubblica, visto che la stessa spesa è una voce del PIL,

porta ad una RIDUZIONE di questo.

Le assurdità del PIL sono innumerevoli. Contro ogni buon senso il PIL somma

benefici e danni. Ad esempio il fatturato dell’estrazione del petrolio viene sommato

ai danni che la ricerca del petrolio causa. Un incidente stradale, con le attività

economicamente remunerative che comporta (soccorso e cure ospedaliere ai feriti,

sgombero e demolizione carcasse, riparazione dei danni, cause legali ecc) causa un

amento del PIL. Se un bosco viene abbattuto per produrre carta igienica o per farci un

parcheggio il PIL cresce senza considerare il deprezzamento ambientale del

disboscamento. Alcuni analisti hanno valutato che se i danni venissero sottratti e non

aggiunti, l’aumento del PIL che si è avuto negli Stati Uniti a partire dagli anni

settanta, da quando cioè è nato il PIL, si avrebbe un drastico peggioramento della

qualità della vita e non il presunto progresso evidenziato dai dati.

Assai paradossalmente se aumenta la criminalità aumenta anche il PIL e quindi si

tratterebbe di un dato positivo per gli economisti.

Il PIL non tiene in alcun conto il lavoro gratuito come quello domestico o il

volontariato, pur avendo questi un importante peso nell’economia della nazione (in

Italia ci sono oltre un milione di volontari che svolgono ogni tipo di assistenza).

Ovviamente non considera nemmeno tutto il lavoro nero e l’economia sommersa, per

cui basta che una certa parte di economia si sommerga o riemerga, generalmente a

causa della pressione fiscale, e il PIL si modifica.

E’ anche parecchio discutibile il calcolo del valore aggiunto, che si fa sottraendo i

consumi intermedi dalla produzione. Generalmente vengono considerati intermedi

quei prodotti e servizi resi ad altre aziende e non al consumatore finale, ma questo è

aleatorio. Le persone devono mangiare, vestirsi e spostarsi per poter produrre e

quindi anche i loro consumi sarebbero da considerare intermedi, ma se venissero

sottratti, il PIL si ridurrebbe al solo valore delle imposte.

Non sarebbe un gran danno se intorno al PIL ed alle sue presunte certezze non

ruotasse sempre più la vita politica del nostro Paese e del resto del mondo

Nel 1987 vi fu il clamoroso sorpasso dell’Italia sulla Gran Bretagna che scese dal

quarto al quinto posto nel campionato del mondo dei PIL.

Ci fu tifo da stadio e proteste della Thatcher che accusò gli italiani di avere barato.

Che cosa era successo? Semplicemente che Bettino Craxi pensò di rivedere alcuni

aspetti del calcolo dei parametri dell’ISTAT (ad esempio gli affitti degli alloggi) e il

PIL ottenne una rivalutazione spettacolare del 12% in un botto solo.

Successivamente la Gran Bretagna ci ha risuperati e ultimamente anche la Cina:

Anche in questo caso si è trattato di una revisione delle stime dell’Ufficio nazionale

delle statistiche di Pechino, che dalla sera alla mattina ha rivalutato il PIL del 16,8%.

Ci sarebbe da ridere se, dietro queste gag da avanspettacolo, non ci fosse la tragedia

della gente comune che scopre all’improvviso che non può più arrivare a fine mese.

Domenico De Simone , molto efficacemente, fa notare che un Paese felice, dove tutti

hanno tutto e non hanno necessità di produrre sempre di più, secondo i sacerdoti

della macroeconomia è un Paese in stagnazione, a crescita zero o addirittura in

recessione, con grande disperazione, allarme, strappamento di capelli e stracciamento

di vesti della classe politica, sindacati e giornalisti.

Viceversa un Paese coinvolto in una guerra devastante, a causa dei danni da

riparare, della spesa pubblica alle stelle per i costi militari, della produzione

industriale bellica galoppante è un paese con una economia galoppante e una

crescita strepitosa, un vero paradiso keynesiano.

Tutto questo per dire che i risultati che si ottengono solo semplicemente casuali, non

significano nulla e non rappresentano la realtà dei fatti.

Le voci che si levano contro il PIL e i suoi deliri pseudo-matematici sono sempre più

numerose ed autorevoli, tuttavia il concetto resiste ed sempre più sbandierato

diventando, curiosamente, uno degli argomenti cari agli economisti della sinistra ed

ai sindacati.

Ma perché abbiamo bisogno del PIL? E soprattutto perché deve sempre crescere?

Tutti sono in grado di comprendere che la crescita infinita non può esistere.

L’economista francese Serge Latouche afferma che i termini “sviluppo” e “crescita”

sono stati presi in prestito dagli economisti alla biologia, dimenticandosi che in natura

tutto ciò che cresce, necessariamente declina e muore.

O meglio, non tutto. Secondo l’economista indiana Verdana Shiva, lo schema della

crescita infinita è quello delle cellule tumorali. Abbiamo preso cioè come modello di

sviluppo la peggiore malattia, probabilmente anch’essa causata dal progresso

incontrollato dell’uomo.

Una famosa truffa che viene tutt’oggi ripetuta in varie forme, anche semilegali o

addirittura legali, è nota come “schema Ponzi”, da nome dell’italo-americano che per

primo la mise in atto all’inizio del novecento. Ponzi si faceva prestare dei soldi

promettendo interessi altissimi a breve termine, interessi che regolarmente pagava.

Inevitabilmente ebbe un crescente successo e sempre più gente voleva investire con

lui i suoi risparmi. In realtà Ponzi usava questi soldi per pagare gli interessi ai suoi

primi creditori, creando così una piramide con la base sempre più ampia. Ovviamente

quelli in fondo non avrebbero mai visto non solo gli interessi, ma nemmeno il

capitale versato. Ponzi contava di sparire col malloppo ma è stato probabilmente

tradito dall’avidità.

Lo schema Ponzi, praticamente una catena di S,Antonio, è stato più volte applicato in

seguito, cambiando nome e qualche sfumatura. Gli economisti lo conoscono

benissimo, salvo non riuscire, o non volere, rendersi conto che questo concetto si

applica perfettamente alla macroeconomia ed alla teoria dello sviluppo infinito. Se

tutto il mondo dovesse condividere il sistema di vita e di spreco del mondo

occidentale ci vorrebbero altri cinque o sei pianeti per sostenerlo. Ma c’è di più.

Oggi in Italia, e probabilmente in tutto l’occidente, si vive peggio che quarant’anni

fa. Il peggioramento è stato impercettibile nel corso degli anni, ma oggi è talmente

marcato che chiunque abbia vissuto abbastanza a lungo se ne rende conto e non è solo

nostalgia dei bei tempi.

Usando il PIL come termine di valutazione abbiamo creato un mondo isterico ed

orrendo.

La durata di utilizzo degli oggetti prodotti è sempre più breve, alcuni li compriamo e

li buttiamo via quasi immediatamente. In nome della crescita continua produciamo

sempre più roba e a ritmi sempre più ossessivi. Roba che acquistiamo e spesso non

utilizziamo, quindi che non genera un reale benessere, e che dobbiamo

successivamente smaltire come rifiuto. Gli oggetti devono diventare obsoleti

rapidamente per poter essere rimpiazzati in continuazione in nome dell’incremento

obbligatorio delle vendite. Spesso inoltre siamo costretti ad acquistare prodotti solo

per poter mantenere i ritmi produttivi. Automobili, computer e telefonini sono spesso

necessità di lavoro e non acquisti per scelta e aumentano di molto il costo della vita.

Se paragoniamo gli stili di vita di una famiglia degli anni sessanta o settanta e quelli

attuali la differenza salta agli occhi. Allora normalmente uno stipendio era sufficiente

e quindi solo una persona lavorava. Chi restava a casa, a quell’epoca quasi

esclusivamente le mogli, poteva occuparsi adeguatamente della gestione e della

manutenzione della medesima. Accompagnava i figli a scuola e faceva la spesa, a

piedi, nei negozi e mercati sotto casa. Il week-end, le feste e le vacanze si passavano

tutti insieme.

Oggi bisogna che entrambi i coniugi lavorino, quindi ci vogliono due macchine, e

bisogna parcheggiare i figli da qualche parte per almeno otto o nove ore, quindi

bisogna pagare asili, doposcuola e/o baby sitter. La spesa si fa all’ipermercato, che si

raggiunge con la macchina e fuori dalle ore di lavoro, che sono sempre meno ore di

ufficio, proprio perché sempre più attività necessitano di stare aperte 18 o 20 ore al

giorno sette giorni su sette. I coniugi spesso fanno turni diversi e si tengono in

contatto col telefonino. Non essendoci tempo per cucinare si comprano sempre più

piatti pronti e cibo spazzatura, comunque più costoso dei semplici ingredienti. Per

fare tutto si gira con le macchine tutto il giorno, pagando parcheggi, benzina, balzelli

e multe e creando inquinamento. Negli anni sessanta i poveri andavano in bicicletta e

i ricchi in automobile, oggi è il contrario.

Ma per quale motivo la produzione deve crescere in continuazione? E perché questa

baggianata viene sostenuta con tanta veemenza?

Per consentire al denaro di moltiplicarsi e a chi lo crea, lo vende, lo controlla, cioè

le banche, di lucrare enormemente. Il denaro non ha nulla a che vedere con la qualità

della vita o con uno sviluppo reale dell’economia, necessita solo dei presupposti per

riprodursi, cioè di gente , individui, aziende, nazioni, disposta o costretta ad

indebitarsi.

Il debito pubblico

Tutti sanno che esiste il debito pubblico.Spesso viene quantificato pro capite con

affermazioni del tipo che ogni italiano, neonati compresi, “deve” 20000 euro. Pochi

però sanno come si è formato e chi siano i creditori.

Generalmente viene confuso con il debito estero e si pensa che sia causato da prestiti

internazionali. In realtà in quel gigantesco gioco di scatole cinesi che è la creazione e

moltiplicazione del denaro, i debitori paradossalmente sono anche i creditori. In

pratica da quando non esiste più la parità con l’oro nemmeno teorica, cioè dagli anni

settanta, lo Stato emette valuta “pagandola” con titoli di debito pubblico, cioè BOT,

CCT ecc. Questi vengono poi rivenduti ai cittadini stessi che li pagano con dell’altra

valuta.

Da mal di testa? Non ancora, il mal di testa arriva adesso.

Viene spontaneo chiedersi perché mai lo Stato dovrebbe pagare per emettere valuta e

soprattutto a chi paga? Alle banche ovviamente ed in particolare alla Banca d’Italia.

Ma la Banca d’Italia non è proprietà dello stesso Stato?

No, la Banca d’Italia è interamente privata e come se non bastasse dal 2002 non

emette più nemmeno valuta cartacea, che viene emessa dalla BCE, la banca europea,

anch’essa interamente privata ed internazionale.

Quindi, ricapitolando, lo Stato si indebita con le banche che emettono valuta,

emettendo titoli che vengono acquistati dalle banche emittenti e da altre banche che

li rivendono ai cittadini, che pagano in valuta o contraendo debiti verso le banche

stesse. Quindi i cittadini italiani sono due volte debitori verso le banche e creditori di

se stessi.

Adesso potete farvi venire il mal di testa.

Dopodiché bisogna considerare che il debito pubblico viene valutato in termini

percentuali sul PIL. Abbiamo già visto quanto il PIL stesso sia un concentrato di

idiozie prive di significato. Ormai gran parte della pressione fiscale e delle varie

manovre e manovrine delle varie leggi finanziarie ha il solo scopo di andare a

coprire gli interessi del debito dello Stato. Il debito dello Stato non diminuisce mai,

alla faccia delle manovre e del resto non potrebbe in alcun modo, ma la vita dei

cittadini peggiora di anno in anno, schiacciata da un peso opprimente di tassazioni

che è diventato impossibile calcolare. La spesa sociale è sempre più ridotta per

destinare soldi al pagamento degli interessi del debito pubblico.

Il debito pubblico in tutti gli Stati del mondo, USA compresi, cresce

ininterrottamente da sessant’anni e si può solo rallentare questa crescita aumentando

l’oppressione fiscale, che ha già raggiunto in Italia livelli inaccettabili, non solo per i

cittadini, ma soprattutto per l’economia.

Ora date queste premesse, quanto si potrà andare avanti? Il debito pubblico

continuerà a crescere, anno dopo anno, e sarà a stento contenuto da una pressione

fiscale crescente ed una contestuale riduzione dei fondi destinati al funzionamento

dello Stato ed al benessere dei cittadini. Gran parte dei fondi avranno il solo scopo di

pagare interessi alle banche ed alla fine l’intera spesa pubblica servirà a questo,

causando il blocco totale della nazione. per maggiori dettagli su come funziona il

gioco, vedi il capitolo " L'Argentina".

In realtà il blocco arriverà prima che si giunga a questo punto e non ne siamo tanto

lontani.

Ancora De Simone fa notare che il debito pubblico è una pura una illusione ottica

poiché è un credito (delle banche) esigibile solo per mezzo di un altro credito

inesigibile, cioè le banconote, che non possono essere convertite in niente.

Eppure questa illusione ottica domina sempre più la scena politica, sempre più

uomini politici sono legati al mondo della finanza, provengono da esso, ascoltano e

seguono i diktat che vengono lanciati puntualmente dai veri padroni del mondo,

cioè le cosiddette autorità monetarie. Ormai le scelte politiche vengono vagliate ed

approvate da gruppi di potere che si considerano nostri creditori e che si preoccupano

solo che i debitori restino solvibili.

Ma che succederebbe se ci scrollassimo di dosso questo giogo? Secondo le

summenzionate autorità monetarie, il crollo dell’economia, ma l’economia crollerà

sicuramente se si continua su questa strada, non se si smette. Viene spesso

sbandierato lo spauracchio del il risparmio delle famiglie, i cosiddetti BOT people,

che vedrebbero andare in fumo i loro risparmi. Sono balle, la quantità di debito

pubblico detenuta direttamente dalle famiglie e non dai cosiddetti investitori

istituzionali è minima e l’eventuale danno, oltre a poter essere limitato con pochi

accorgimenti, non sarebbe certo superiore alle catastrofi, caso Parmalat per tutti, che

ogni tanto devastano il mondo dei piccoli risparmiatori, prede predilette delle

istituzioni bancarie.

E’ già successo molte volte che uno Stato diventasse insolvente, senza una vera

ragione, in questo folle mondo finanziario, fatto di parassiti e bolle di sapone.

Nel 1923 il marco tedesco si azzerò completamente dopo un anno di svalutazione

galoppante. Le autorità emisero un nuovo marco del valore di mille miliardi dei

precedenti marchi e l’economia ripartì. La crisi del 29 in America causò una

deflazione e una miseria generalizzata con i magazzini pieni di merci e le banche

piene d’oro.

In tempi più recenti l’Argentina, uno dei paesi più ricchi del mondo, ha vissuto una

povertà artificiale causata da malversazioni finanziarie (vedi cap. " L'Argentina").

Anche in questo caso, dimenticandosi della finanza, l’economia è ripartita.

Gli economisti non solo non sanno prevedere il futuro, ma spesso non riesco

nemmeno a spiegare il passato.

La ricchezza economica non ha nulla a che vedere con la ricchezza finanziaria, ma

per riuscire a vedere questo bisogna togliersi le fette di prosciutto che giornali,

politici e sindacati ci mettono ogni giorno sugli occhi.

Il denaro e la legge di Wilcoyote

Secondo l’economia classica nell’antichità gli uomini usavano il baratto per

commerciare tra di loro. Un pecoraio che voleva scambiare quattro pecore con un

mucca doveva, quindi, prima trovare un mandriano disposto a cedere la mucca che gli

interessava, che fosse disposto ad accettare quattro pecore in cambio e che le pecore

che aveva il pecoraio fossero di suo gradimento. In questo modo gli scambi erano

praticamente impossibili. Un bel giorno poi un genio inventò la moneta, solitamente

metallica, che risolse il problema.

Questa è una solenne sciocchezza, dovuta ad un certo pensiero positivista che porta

descrivere il mondo attuale con le sue scoperte sempre migliore di quello passato. In

questa ottica gli antichi sono sempre rozzi e stupidi.

Una delle maggiori sorprese della cosiddetta mummia del Similaun (un uomo

preistorico perfettamente conservato nei ghiacci trovato al confine tra Austria ed

Italia) è stato il livello qualitativo dei suoi strumenti, costruiti con i materiali di cui

poteva disporre, ma perfettamente adeguati alle sue necessità. Le sue calzature ad

esempio erano impermeabili ed imbottite. La loro fattura era tutt’altro che rozza e gli

consentivano di attraversare le Alpi in pieno inverno.

Il cinema ci mostra i barbari sempre vestiti di stracci bucati e sporchi. Per fortuna non

hanno inventato il cinema ad odori se no ci asfissierebbero di fantasiose puzze. In

realtà le scelte estetiche, alimentari ed anche cosmetiche possono essere discutibili,

ma mai approssimative o inesistenti. Gli indiani d’America nell’ottocento erano

considerati straccioni, eppure i loro capi d’abbigliamento erano molto ricercati e

spesso occorrevano mesi di lavoro per crearne uno.

Per tornare al denaro alcuni strumenti finanziari considerati sofisticati, come il

comodato d’uso o il prestito ad interesse, esistevano già nell’antichità molti millenni

prima dell’invenzione del denaro (se ne parla anche nella Bibbia). Le prime monete

come noi le conosciamo sono greche e di soli pochi secoli prima di Cristo, Erodoto

ne attribuisce l’invenzione a Creso, ricco re di Lidia, anche se in varie forme, pezzi

di metallo punzonato, anelli, strisce, dischi, ecc., si utilizzavano un po’ in tutto il

mondo.

Eppure Egiziani, Fenici, Greci, Persiani, Indiani e tutti gli altri popoli per millenni

hanno commerciato alla grande, senza nulla sapere di PIL e di calcoli

macroeconomici, per non parlare di forme di investimento concettualmente contorte

come le obbligazioni strutturate, i covered warrant, i futures ed altre ancora più

incomprensibili. La monetazione greca non ha portato nessuno sconvolgimento.

Quando l’economia si basa su merci reali non ha bisogno di denaro, anzi il

denaro è solo uno dei beni. Le monete greche venivano accettate anche al di fuori

del mondo ellenico senza bisogno di un tasso di scambio.

Il problema si pone quando si creano beni irreali. Una battuta di Beppe Grillo diceva

che “comprare futures vuol dire comprare una cosa che non esiste con del denaro che

non hai”. Il guaio è che quasi tutti gli strumenti finanziari oggigiorno sono

ugualmente inesistenti. Spesso sentiamo dire che in una giornata di borsa negativa

sono stati bruciati una enorme quantità di miliardi (di lire, di euro, di dollari… fa lo

stesso). In realtà quei soldi non sono mai esistiti.

Se entriamo in una banca a chiedere un prestito, la banca pretende da noi delle

garanzie, mobili o immobili su cui rivalersi oppure garanzie di entrate future, come

uno stipendio o garanzie di terzi come le fideiussioni.

Ma i soldi che la banca ci dà da cosa sono garantiti? La risposta è semplice: da

niente.

E’ pur vero che la banca deve comunque tenere liquida una parte del capitale

circolante, ma questa percentuale oltre ad essere infinitesimale, non viene versata

nelle mani dei creditori, che in genere non hanno nemmeno modo di controllare che

esista davvero. E’ un po’ come se uno chiedesse in prestito un milione di euro dando

in garanzia un paio di scarpe che sono in casa sua.

Nei secoli passati il denaro aveva un valore intrinseco, che non era solo il valore del

metallo che componeva la moneta. Già nel III secolo a.C. esistevano monete che

avevano un valore reale inferiore a quello fiduciario. La prima moneta romana fu

l’aes rude, in bronzo, che pesava una libbra romana (poco più di 300gr all’epoca) di

bronzo e valeva proprio una libbra di bronzo. Ben presto si accorsero che conveniva

ridurre il peso pur mantenendo il valore nominale e questo certamente senza scopo di

truffa. Eppure le monete venivano accettate lo stesso ed al valore nominale.

Nell’antica Roma repubblicana le monete di bronzo potevano essere coniate solo

dallo stato e portavano sul verso la scritta SC (senatusconsultum) mentre quelle

d’argento potevano essere emesse dalle famiglie senza autorizzazione. In pratica le

monete in metallo pregiato erano garantite dal patrimonio ed anche dal prestigio delle

famiglie, oltre che dal valore del metallo, mentre quelle in bronzo erano garantite

dallo Stato e dalla divinità che vi era effigiata.

Nell’America prima della guerra di secessione, poiché gli Americani ritenevano un

loro diritto costituzionale battere moneta, anche i commercianti lo facevano. Si è

calcolato circolassero oltre settemila tipi di banconote emesse da milleseicento

banche diverse, alcune fallite da tempo ed almeno cinquemila tipi di banconote false,

a dimostrazione che il denaro è solo una convenzione. E’ un po’ come nei cartoni

animati di Silvestro o di Wilcoyote, in cui il personaggio percorre un ponte che

all’improvviso finisce. Il personaggio continua a correre nel vuoto finché non si

rende conto di essere sospeso in aria e solo a quel punto cade, come se la legge di

gravità fosse un elemento soggettivo, che interviene solo quando se ne ha la

consapevolezza.

La fine della guerra di secessione fece diventare carta straccia tutti i dollari degli Stati

del sud e prevalere il”greenback” il dollaro verde, l’unico a poter essere cambiato in

oro. Questo genere di eventi, in un secolo turbolento, portò tutti i governi europei a

cercare la parità con l’oro, considerato un bene universalmente accettato, per dare

stabilità alla moneta, come già teorizzato da David Ricardo ed altri economisti

inglesi. La crisi del 29, tuttavia vide le banche americane fallire pur avendo le casse

piene d’oro. Non potevano pagare gli interessi e i massicci prelievi, perché nessuno

chiedeva prestiti e depositava.

Come già notava Aristotele il denaro ha in sé una contraddizione: è sia una unità di

misura che un deposito di valore. Ora come unità di misura deve restare costante.

Se un uomo è alto un metro e ottanta, l’anno seguente non sarà diventato uno e

novanta per via della svalutazione del metro.

Se invece è un bene il suo valore può oscillare. L’oro è un bene, la casa anche. Anche

le cipolle sono un bene seppur deperibile. Ma che bene è una banconota o, peggio

ancora, un fido in banca, una cosa che nemmeno si vede? E come si fa a stabilirne il

valore? Ai tempi di Aristotele questo problema non c’era, o era molto ridotto e il

denaro non si moltiplicava da solo.

Non succedeva perchè, in passato, le monete erano garantite da beni mobili e

immobili, più o meno alla pari, cioè al valore di mercato. Augusto riuscì a fare una

riforma monetaria passando dai 12 assi per denaro ai 16 assi per denaro. Il cambio di

moneta non creò nessuna crisi. Augusto mantenne l’aureo del valore di 25 denari, che

rimase per secoli il rapporto ufficiale tra argento e oro, anche se le monete in oro e

argento ridussero progressivamente il contenuto di metallo prezioso.

Nel medioevo e più tardi ancora apparvero le prime banconote, che erano in realtà dei

semplici contratti di affidamento denaro. Le banche custodivano i soldi e li

trasferivano per conto dei loro clienti e venivano pagate per questo. Prestavano anche

soldi ma mai più di quello che possedevano.

Il cambio di regime che ci porta la sistema attuale avviene alla fine del 1600 con la

creazione della Banca d’Inghilterra e successivamente delle altre banche statali

Europee, dopo che le monarchie si erano consolidate. Inizialmente avevano solo lo

scopo di ritirare dal commercio le monete usurate e riemetterne di nuove, garantite

dalla Corona, in breve divennero le esclusive emittenti di moneta, controllando le

banche private commerciali attraverso il tasso di sconto ed operazioni di mercato. Il

nuovo sistema bancario generava disponibilità di denaro per lo Stato in primo luogo e

trasversalmente per il resto della società, perché anche le banche commerciali

emettevano denaro attraverso i prestiti.

La cosa funziona così: la banca commerciale possiede una certa cifra, diciamo 1000

sterline, tanto per fare un esempio, in oro o moneta, convertibile con la Banca

centrale.

La banca commerciale può prestare soldi fino a 1000 sterline, qualcosa in meno per

tenere un po’ di riserva.

Se ipotizziamo che la banca abbia sede in una piccola cittadina dove è l’unica banca,

i soldi prestati vengono spesi e chi li riceve li versa di nuovo nella stessa banca per

sicurezza e per avere un po’ di interesse. Quindi la banca rientra in possesso delle sue

1000 sterline in deposito più 1000 sterline di credito.

La banca può quindi prestare di nuovo 1000 sterline, che ritorneranno indietro nello

stesso modo, così la banca avrà di nuovo 1000 sterline in cassa, ma contabilmente

avrà 1000 di depositi e 2000 di crediti.

La cosa si può ripetere all’infinito e la banca può avere centinaia di migliaia di

sterline in circolo e solo mille in cassa, Questi soldi non esistono e se alcuni

depositanti dovessero chiedere di riavere anche solo 1000 e una sterlina, la banca non

potrebbe evadere la richiesta perché ne ha solo 1000 in cassa. Più è alta l’esposizione

della banca più è alto il rischio d’insolvenza. Questo è la ragione per cui, adducendo

i motivi più improbabili (antiriciclaggio, antimafia) il governo italiano ha varato

leggi che impediscono di prelevare grossi quantitativi di valuta.

In realtà il sistema ha scoperto da tempo il miracolo della riproduzione del denaro che

può creare enormi ricchezze in breve tempo e senza fatica. Le banche da sole o in

combutta con i privati, vedi il caso Parmalat, possono generare flussi di denaro

enormi del tutto indipendenti dalla produzione di beni e servizi. L’informatizzazione,

i Bancomat, le carte di credito, che pure non vengono considerati denaro, ormai

compongono la maggioranza dei movimenti di valuta e sono completamente privi di

controvalore in beni materiali.

Questo nega i principali concetti sacri dell’economia, in particolare che un eccesso

di moneta causa inflazione, idea molto cara ai monetaristi di varie scuole. Ciò poteva

essere vero quando la moneta aveva un valore reale, accadde infatti subito dopo la

scoperta dell’America, quando un eccesso di oro proveniente dal nuovo mondo, ne

causò un abbassamento di valore, ma non è affatto vero quando la moneta è irreale. I

soldi non esistono, la gente non lo sa e li usa lo stesso, proprio come Wilcoyote corre

nell’aria. Non si genera inflazione per un eccesso di moneta non fosse altro perché,

oggi come oggi, nessuno è in grado di dire quanta moneta sia realmente in

circolazione. Da decenni la Corea del nord viene accusata di emettere dollari falsi.

L’accusa non è provata ma certo è che una quantità enorme di dollari perfettamente

imitati circola in estremo oriente e da qui in tutto il mondo. Questo non sembra

intaccare minimamente il valore del dollaro. La rivoluzione francese, quella russa,

quella messicana e tante altre, si finanziarono emettendo enormi quantità di valuta

cartacea, garantita praticamente da nulla. Quando il presidente americano Nixon

annunciò, nel 1971, che il dollaro non era più convertibile in oro, il valore del dollaro

non diminuì.

L’inflazione si crea non per un eccesso di disponibilità di carta, ma per perdita di

credibilità, in quel caso la gente usa la valuta per acquistare generi considerati più

sicuri, aumentandone il valore.

L’inflazione di un bene rispetto ad un altro riguarda solo i beni reali. Se ci sono molte

pecore e poche mucche ed un’alta richiesta di mucche, il valore di queste in pecore

aumenta, ma se ci sono un numero di mucche adeguato alle richieste, anche in

presenza di una enorme quantità di soldi il loro prezzo non aumenta.

Nessuno è in grado di dire se il denaro in circolazione è troppo ed anche le

produzioni industriali sono in grado di soddisfare in eccesso ogni tipo di richiesta, la

formazione dei prezzi è un fenomeno dato da effetti complessi, spesso pilotati e ben

poco hanno a che vedere con la legge della domanda e dell’offerta. L’economia

definisce pomposamente leggi delle modeste teorie, spesso fallaci.

La legge della domanda e dell’offerta è però valida tra valute diverse. Se c’è molta

richiesta di dollari e poca di pesos argentini, il primo aumenta di valore e il secondo

scende, proprio come avviene per mucche e pecore, a prescindere dalle condizioni

dell’economia dei due Paesi. Questa è un’arma tremenda e una mina enorme per la

stabilità del mondo.

Contrariamente a quanto si crede l’umanità ha sempre usato e continua ad usare il

baratto. Nel passato erano denaro il tabacco, il whisky, il riso. Gli scambi principali

tra Stati ancora oggi avvengono tra forniture di beni e servizi, in cui il denaro è solo

un metro di misura e il compenso in mazzette da pagare agli uomini politici coinvolti.

Quando c’è incertezza sul valore delle valute il mercato finanziario, come la gente

comune, si getta su beni reali, considerati di rifugio, oro, immobili e dagli anni

settanta anche il petrolio, causandone l’aumento del prezzo.Quanto alla decantata

parità aurea che avrebbe dovuto garantire stabilità, questa non ha mai funzionato,

anzi. da quando è stata proibita la conversione delle monete in oro sono sempre

migliorate le condizioni dell’economia.

La crisi del 29 e la grande depressione.

Riassumiamo brevemente gli eventi. Nel 29 la Borsa di Wall Street registrò una serie

di perdite, a partire dal cosiddetto venerdì nero, che azzerarono o quasi il valore di

molte aziende che contavano di coprire con il portafoglio titoli la propria esposizione

verso le banche. Vi erano state avvisaglie, tra il 1918 e il 1929, di quanto poteva

succedere, ma proprio il fatto che furono superate creò la convinzione che il sistema

fosse solido. Per diversi anni una quantità sempre più anonima di capitale speculativo

si riversava in massa su settori dell’economia che promettevano incrementi

sostanziosi in tempi brevi e si ritirava altrettanto rapidamente se l’investimento non

era stato o minacciava di non essere così remunerativo, mandando in crisi il settore.

Una sorta di isteria finanziaria identica a quella che determina ancora oggi

l’andamento della borsa.

Questo denaro non esisteva nel 29, come non esiste oggi, perché autogenerato con la

moltiplicazione dei prestiti, come abbiamo visto nel capitolo precedente, per cui non

appena si diffuse una certa incertezza su quali settori investire, le vendite divennero

irrefrenabili e l’improvvisa mancanza di liquidità bloccò l’intera economia. Molte

aziende chiusero, non potendo far fronte agli impegni bancari e perché non riuscivano

a vendere i prodotti di cui avevano pieni i magazzini. Le banche fallirono perché non

potevano esigere i loro crediti mentre i risparmiatori, diventati disoccupati, ritiravano

in massa i loro risparmi per far fronte alle esigenze quotidiane.

Improvvisamente una nazione, gli Stati Uniti, ricchissima di ogni risorsa,

non riusciva più a produrre né a consumare nulla. Iniziò un decennio di

miseria inspiegabile, tecnicamente chiamata deflazione, i prezzi cioè

scendevano sempre più, anche al di sotto dei costi di produzione, ma

nessuno era in grado di comprare.

Questo non portò al tracollo generale solo perché l’Europa, uscita dalla prima guerra

mondiale, stava in condizioni ancora peggiori e anzi la crisi americana accentuò i

problemi europei. La Germania in particolare era appena uscita da una delle più

incredibili spirali inflazionistiche mai registrate. Un dollaro nel 21 valeva 81 marchi,

meno di due anni dopo ne valeva un milione. Nessuna manovra governativa aveva la

minima efficacia. A novembre del 23, l’inflazione finì di colpo e da sola: il

Reichmark si era autodistrutto. Il nuovo marco valeva mille miliardi del precedente

ed era garantito da beni immobiliari reali.

Il motivo dell’importanza della crisi del 29, per la quale è tuttora oggetto di analisi e

fonte di cruccio per quegli economisti tradizionalisti, che si scervellano a trovare

giustificazioni per il suo verificarsi e spiegazioni per garantire la sua eccezionalità e

non ripetibilità. Il motivo di tanta ansia è che la crisi del ’29 è la prima crisi della

storia dell’uomo causata da eccesso di produzione. L’umanità in millenni di storia

ha conosciuto numerose crisi ma tutte erano dettate da carestie, epidemie, cataclismi

e disastri ambientali, guerre e invasioni. Il crollo di Wall Street avviene invece in una

nazione prospera ed in pace, proveniente da un secolo di rivoluzione industriale e di

crescita galoppante e con la produzione industriale marciante a pieno ritmo. Con la

crisi del 29 crollano molti miti e fra i cadaveri rimasti sul terreno ci sono senz’altro

sia l’illusione di poter controllare l’economia dall’esterno attraverso provvedimenti

legali, sia il suo contrario, cioè che il mercato sia bastante a se stesso e trovi sempre

il giusto equilibrio da solo, con la legge della domanda e dell’offerta. Alla lunga ciò

è probabilmente vero, infatti dopo una decina d’anni l’economia si era lentamente

rimessa in moto. Il merito venne attribuito al presidente Roosvelt e al suo programma

economico chiamato “new deal”, anche se vi è parecchia discordanza su quale fosse

la mossa vincente. Roosvelt tentò parecchie manovre, come del resto aveva fatto il

suo predecessore Hoover, ma nessuna particolarmente efficace. In effetti,

consciamente o più probabilmente inconsciamente Roosvelt aveva capito che la crisi

era solo psicologica, poiché i beni reali e le risorse esistevano come esistevano prima.

Tutta l’economia moderna cammina su una montagna di soldi che non

esistono, così come Wilcoyote cammina nel vuoto. Se non se ne accorge va

tutto bene.

Da allora la finanza americana cominciò a registrare un dato, chiamato “fiducia dei

consumatori”, alquanto effimero da rilevare, ma estremamente importante per l’intera

economia. Si tratta di stabilire quanto Wilcoyote sia consapevole del vuoto sotto di

lui, perché da questo, più che da qualunque altra cosa dipende l’andamento della

nazione.

Roosvelt azzeccò il nome del programma, dicendo che gli americani avevano avuto

fino ad allora brutte carte in mano e che meritavano una nuova smazzata (a new

deal). Cominciò a rivolgersi alla nazione quasi quotidianamente alla radio in quelle

che chiamava quattro chiacchiere intorno al caminetto, dove spiegava i meriti, in

realtà quasi inesistenti, dei provvedimenti della sua amministrazione. Piano piano il

Wilcoyote americano cominciò a rivedere il terreno sotto i piedi e l’economia ripartì.

La conclusione sarebbe semplice: in una economia basata su beni irreali questi

eventi, con o senza una regia occulta, sono assolutamente inevitabili. Talvolta si

riescono a mitigare le conseguenze, talvolta no. Negli anni settanta in Italia ci fu una

spirale inflazionistica per la quale venne accusato l’aumento del prezzo del petrolio,

in seguito alla guerra dello Yom Kippur del 1973. In realtà la spiegazione è assai

debole perché l’aumento, che ,detto per inciso, non fu causato dalla guerra araboisraeliana

ma proprio dalla fine della parità aurea, ci fu in tutto il mondo senza che

avesse le stesse conseguenze.

La bolla speculativa delle borse nei rampanti anni ottanta terminò di colpo con il

crollo del 1987. Allora la cosa venne spiegata con il problema tecnico degli

automatismi degli”stop loss”. In pratica gli investitori stabilivano a quale cifra

minima era opportuno vendere in caso di andamento negativo. I computer dei brokers

eseguivano automaticamente la vendita quando la soglia veniva raggiunta. Una

azione in discesa che raggiungeva un punto di “stop loss” per una certa quantità di

investitori veniva travolta da una massa di vendite che causavano un ulteriore calo

che gli faceva raggiungere un altro livello di stop loss, con altre massicce vendite e

così via. Anche in questo caso la spiegazione non regge, questi meccanismi c’erano

prima e ci sono tutt’ora. La cosa più allarmante è che il sistema si basa molto

sull’isteria collettiva, più o meno pilotata, e come già Keynes notava, bastano eventi

favorevoli o sfavorevoli, anche slegati dall’economia, per ingenerare crescite o crolli.

In questo senso la vittoria ai mondiali di calcio del 2006 della nazionale italiana ha

sicuramente ingenerato un effetto positivo sul PIL, per quanto assurdo possa

sembrare. Del resto, come si è già detto il PIL è già assurdo di suo.

Il fatto è però che questi effetti positivi sono lenti a manifestarsi e in genere di

breve durata, mentre quelli negativi sono immediati, devastanti e lunghi ad

attenuarsi.

La verità è che in questo sistema di ricchezza finta, questo genere di crisi

continueranno ad accadere sempre con maggior frequenza e a periodi di depressione

sempre più lunghi si alterneranno periodi di euforia sempre più brevi.

Bretton Woods e il FMI

Alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1944, ferveva l’attività diplomatica che

avrebbe dovuto fissare i paletti di un nuovo ordine mondiale, prima ancora che

tacessero le armi. Uno degli accordi più importanti venne siglato in una località di

nome Bretton Woods e riguardava la finanza mondiale. Si era visto che fra le

innumerevoli cause della seconda guerra mondiale ve ne erano almeno un paio di

ordine economico. Una era la spaventosa svalutazione del marco tedesco nei primi

anni della repubblica di Weimar e un’altra la devastante crisi economica mondiale del

innescata dal crollo della borsa americana alla fine degli anni venti. A Bretton woods

vennero messi i paletti che avrebbero dovuto garantire stabilità al mondo libero. Gli

economisti, con le idee confuse sulle cause e sulle soluzioni delle crisi monetarie e

finanziarie del XX secolo, tentarono in qualche modo di trovare la stabilità

economica per il mondo senza rinunciare ai privilegi del sistema finanziario. Tanto

per cominciare venne ripresa la vecchia parità con l’oro, il cosiddetto “gold

standard”, che nonostante gli innumerevoli fiaschi viene ancora oggi considerato

valido da una parte di economisti. Solo che in questo caso solo il dollaro veniva

cambiato con l’oro, mentre le altre valute venivano cambiate con il dollaro, si trattava

insomma di una convertibilità indiretta. Venne anche fondato il Fondo monetario

Internazionale con i seguenti dichiarati scopi:

• Promuovere la cooperazione monetaria internazionale

• Facilitare l'espansione del commercio internazionale

• Promuovere la stabilità e l'ordine dei rapporti di cambio, evitando svalutazioni

competitive

• Dare fiducia agli Stati membri rendendo disponibili, con adeguate garanzie, le

risorse del Fondo per affrontare difficoltà della bilancia dei pagamenti

• In relazione con i fini di cui sopra, abbreviare la durata e ridurre la misura degli

squilibri delle bilance dei pagamenti degli Stati membri.

Il FMI avrebbe dovuto costituire la riserva a cui i Paesi membri avrebbero potuto

attingere in caso di necessità. Queste riserve erano formate dai Paesi stessi con

versamenti in oro e dollari o altra valuta considerata pregiata. Ogni Paese doveva

mantenere la stabilità valutaria entro l’1%, in caso contrario la Banca centrale del

Paese doveva acquistare la propria valuta, vendendo oro o dollari, in modo da

sostenerla. Se non aveva abbastanza oro o dollari poteva acquistarli dal FMI,

depositando l’equivalente nella propria moneta, diventando di fatto debitore del FMI.