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Tibet libero

di Giuliano Corà - 17/03/2008

     

 

Fino al 1950 il Tibet era una teocrazia feudale. Da secoli se ne stava orgogliosamente e gelosamente isolato nelle sue frontiere. Era economicamente e tecnologicamente un paese "arretrato" e "primitivo". Praticava una strana "religione", basata sulla rinuncia delle ricchezze, finalizzata alla scoperta dell’illusorietà del mondo. Vale a dire che, nella sua totalità, esso rappresentava un autentico insulto alla Modernità, che in quegli anni stava colonizzando il pianeta.
Sopravvissuto indenne ai primi attacchi che veniva da quest'ultima (la spedizione militare inglese del 1904, che aveva lo scopo di "aprirlo" all’Occidente), il Tibet soccombette alla sua versione marxista quando, nel 1950, Mao Tse-Tung lo occupò, annettendolo alla Cina, per portare anche tra quelle montagne sperdute il sol dell’avvenire (del resto, non ha forse detto Robespierre che "bisogna rendere felici gli uomini anche contro la loro volontà"?).
Nei primi tempi, tuttavia, nemmeno la Cina comunista ebbe il coraggio di violare fino in fondo l’integrità culturale tibetana. Vi furono, è vero, la rivolta del ’59 e la relativa fuga del Dalai Lama in India, conseguenze della riforma agraria che per la prima volta scosse concretamente le basi socioeconomiche del Tibet. Ma fondamentalmente, in tutti questi anni, hanno continuato a valere per il Tibet gli accordi del 1951, secondo i quali la Cina ne assumeva la difesa e il diritto di rappresentanza con l’estero, lasciandolo autonomo per gli affari interni.
Le cose però sono cambiate, ed oggi in Cina impera qualcosa di forse peggiore del comunismo, il nazi-liberismo (perché nemmeno il più folle dei marxisti può ancora considerare comunista l’organizzazione sociale ed economica cinese, nonostante gli assurdi travestimenti dei suoi governanti). Così, se il comunismo maoista poteva permettersi di ignorare quei quattro lama e i loro sudditi ignoranti, la Cina di Hu Jintao ha deciso che anche loro devono servire a rendere grande il paese.
Una sinizzazione razzista è stata uno dei primi strumenti di dominio, attuata con l'importazione forzata di migliaia di cinesi di etnia Han (come si è fatto con gli albanesi in Kosovo, per poi poter dire che i Serbi sono minoranza), che hanno colonizzato l’economia, dominando la quasi totalità delle attività economiche e commerciali, e che anche somaticamente e fisicamente si pongono come termine di paragone e di diversità nei confronti degli autoctoni.
Ad essa si è accompagnato l’etnocidio, strumento tipico di ogni imperialismo: distruzione di monasteri e di edifici storici, roghi di biblioteche, persecuzione di monaci, controlli e indottrinamenti politici sul culto e sulle gerarchie religiose. In pochi anni, Lhasa ha cambiato volto, divenendo sempre più simile a quell’osceno centro commerciale globale in cui tutta la Cina si sta trasformando.
Lo si sapeva, in Occidente: poco e male ma lo si sapeva, anche perché quel "rompicoglioni" del Dalai Lama non la smetteva mai, con la sua mitezza ed il suo sorriso, di ricordare al mondo le sofferenze del suo popolo. Era perfino arrivato a cedere sull’indipendenza del regno, accontentandosi di chiedere quella ragionevole autonomia che perfino il regime maoista gli aveva concesso.
Lo si sapeva, certo, ma a chi frega qualcosa di quattro buddhisti sui monti? C’erano da fare affari, con la Cina moderna: vendere Ferrari, aprire boutiques di Armani, importare schiavi e merce taroccata.
Così, un po’ alla volta, anche il Dalai Lama è diventato realmente un rompicoglioni, e ultimamente si è visto sbattere in faccia parecchie porte, compresa quella del Papa, che sta manovrando per ufficializzare la situazione della Chiesa in Cina, e dunque non ha tempo da perdere con le fantasie di un vecchio monaco straccione.
Poi sono arrivate le Olimpiadi di Pechino, questo blasfemo baraccone mediatico ed economico avente lo scopo di promuovere finalmente la Cina tra i "grandi" paesi del mondo. E il popolo tibetano, oppresso, violato, vilipeso, vi ha visto la sua ultima occasione. Scatenare ora la rivolta, contando sul duplice fatto che da un lato tutti gli occhi del mondo saranno, per i prossimi sei mesi, puntati sulla Cina, e dall’altro che, proprio per questo, per il governo cinese sarà difficile, o per lo meno imbarazzante, reagire con la consueta ferocia (come fece, nel 1989, proprio Hu Jintao, allora plenipotenziario del partito Comunista Cinese in Tibet, scatenando una sanguinosa repressione che precedette di soli tre mesi quella nella stessa Pechino, a Piazza Tien An Men). Ora o mai più, si sono detti.
Come sta reagendo l’Occidente "democratico"? Quello che ha massacrato l’Iraq per uccidere un dittatore che non aveva legami col terrorismo e non possedeva armi di distruzione di massa? Quello che ha massacrato la Serbia uccidendone in carcere il dittatore (democraticamente eletto) e ora accetta che ne siano violentati il territorio e l’anima? Vergognosamente, come al solito.
L’ormai per poco Ministro degli Esteri Massimo "Enola Gay" D’Alema traccheggia; Uolter "Ciccio-di-Nonna-Papera" Veltroni “ha espresso l’augurio che il governo cinese ascolti le preoccupate parole della comunità internazionale e rinunci all’uso della violenza”. Lui "esprime", capite? Anche l’idea di boicottare le Olimpiadi, ritirando la rappresentanza italiana, è stata giudicata da tutti semplicemente grottesca e fantascientifica. Lo si è fatto nel 1980 a Mosca, certo, ma l’orso sovietico era molto meno importante, economicamente parlando, della Cina di oggi.
Onore invece, una volta tanto, all’opposizione, che ha parlato chiaro, semplice e forte. Roberto Calderoli ha detto: “Un paese come la Cina che non rispetta i diritti umani non merita di ospitare le Olimpiadi, che sono invece il simbolo della comunanza tra i popoli. Chiedo pertanto che l’Italia decida di non inviare la propria delegazione a Pechino e si attivi presso il CIO per far annullare i Giochi, come si è già fatto nel 1940 o nel 1944”. Mario Mauro, di Fi, Vicepresidente del Parlamento Europeo, ha dichiarato che “seppur doloroso, il boicottaggio potrebbe diventare una soluzione inevitabile” e sulla stessa posizione si è schierato Gianni Alemanno di An.
Comunque, dum Romae consulitur, Sagunthum espugnatur: e mentre noi ci facciamo le seghe mentali sui diritti umani, a Lhasa il massacro continua. Attiviamoci tutti perché non scenda un’altra volta il silenzio su questo popolo e sulla sua eroica rivolta, com’è successo con la Birmania (qualcuno se ne ricorda ancora, dopo solo pochi mesi?). Impegniamoci a boicottare in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo le Olimpiadi di Pechino, cominciando col tenere rigorosamente spenta la tv durante i collegamenti. Testimoniamo in ogni modo possibile, almeno col nostro spirito, la nostra solidarietà al popolo tibetano, ai suoi lama, ai buddhisti di tutto il mondo. Non deve più scorrere il sangue, a Shangri-La.