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La questione tibetana

di Beniamino Natale - 17/03/2008

Fonte: limes

 
C'è ancora qualcosa di tibetano in questo Tibet cinese?
Nella realtà, i due mondi vivono separati: non si vedono cinesi nei ristoranti tibetani né tibetani nei ristoranti cinesi. I matrimoni misti sono una rarità. Nessun cinese parla tibetano e solo i tibetani più istruiti – cioè pochi, dato che secondo i dati ufficiali un terzo della popolazione è analfabeta e solo il 3,4% ha frequentato le scuole medie – parlano un cinese fluente.



Per capire come stanno le cose è forse utile una descrizione della situazione sul terreno, cioè in Tibet. Partiamo, per questo breve viaggio sul «tetto del mondo», dalla prefettura di Gou Lou (Golok in tibetano), che si trova nella parte meridionale della provincia cinese del Qinghai, a poche decine di chilometri dai confini della Regione autonoma del Tibet. I suoi abitanti sono tibetani al 90%. In tutto sono 140 mila, 110 mila dei quali nomadi. La Gou Lou County – il centro amministrativo della prefettura – è composta da poche case e dal compound del governo, al centro del quale sventola la bandiera rossa. Tutto intorno sorgono le tende dei nomadi o seminomadi. La mattina presto la cittadina ha l’aria di un campeggio più che di un centro urbano. Uomini, donne e ragazzini escono e si lavano i denti con l’acqua che antiquate pompe tirano su da un piccolo ruscello che appare pulitissimo, anche perché nella zona non ci sono industrie. La maggior parte si allontana poi in moto, ma non sono pochi quelli che ancora preferiscono il cavallo.

Grazie all’impegno degli impiegati e dei funzionari tibetani, la prefettura ha prodotto negli anni passati una storia della prefettura di Gou Lou in venti volumi. Sono in tibetano. Forse verranno tradotti in cinese da Ju Kalzag, un apprezzato poeta locale. Alcune delle sue poesie – che parlano della natura, del modo di vivere dei tibetani e delle minacce a cui questo va incontro nel mondo attuale – sono state tradotte in inglese e in francese. Il Qinghai comprende gran parte della regione che i tibetani chiamano Amdo, determinante nella storia del Tibet. Ad Amdo, tra l’altro, è nato il Dalai Lama.

Zone etnicamente e culturalmente tibetane esistono anche nelle province del Sichuan, dello Yunnan e del Gansu. Degli oltre sei milioni di tibetani che vivono in Cina, solo 2,6 milioni risiedono nella Regione autonoma. A pochi chilometri dalla capitale del Qinghai, la moderna Xining, sorge uno dei templi più importanti per il buddhismo tibetano, quello di Tàer. Il monastero fu stabilito da Tsong Khapa, che nel XVI secolo fondò la setta buddhista del Ge- lug-pa, alla quale appartengono i Dalai Lama. La guida, una bella studentessa universitaria cinese, ha una conoscenza piuttosto sommaria del buddhismo tibetano ma accompagnando un gruppo di turisti a visitare il tempio si sofferma a lungo su un particolare. Quando si arriva davanti ad un altare alla cui sinistra c’è una statua del primo Panchen Lama e alla cui destra una statua del primo Dalai Lama la ragazza si ferma e dice: «Vedete? Questa è una cosa importante. Il Panchen Lama ed il Dalai Lama sono esattamente sullo stesso livello. Nessuno dei due è più in alto dell’altro. Alcuni dicono che il Dalai Lama è più importante ma questo dimostra che non è vero!».

Nelle zone tibetane della Cina il Dalai Lama è come un fantasma. Se ne parla (apertamente) malvolentieri ma tutti sanno che c’è. E come ogni fantasma che si rispetti, alle volte si materializza inaspettatamente. Scendendo da Guo Luo verso sud sull’altopiano tibetano si arriva nella Regione autonoma del Tibet. Non lontano dal confine tra le due province sorge un altro dei grandi monasteri del buddhismo tibetano: quello di Garma Lhading, fondato nel 1185 da Dusum Kiempa, il primo reincarnato del lignaggio del Karmapa, un «Buddha vivente» che è anche il leader spirituale della setta del Kagyu-pa. I monaci hanno l’aria da contadini e portano appuntati sulla tonaca distintivi che raffigurano il Dalai Lama o l’attuale Karmapa, il diciassettesimo, che all’inizio del 2000 è fuggito dalla Cina per raggiungere «Sua Santità» nel suo esilio indiano, lasciando i cinesi con un palmo di naso. Non li ostentano ma neanche si preoccupano di nasconderli.

Le foto del Dalai Lama e del Karmapa sono esposte anche in molte delle cappelle private che le famiglie più ricche hanno nelle loro abitazioni. In questa zona – ora siamo nella regione chiamata Chamdo dai tibetani – vivono i temibili khampa, i selvaggi predatori che ancora oggi amano portare i capelli lunghi fin sulle spalle, indossare lunghe tuniche scure e tenere grossi pugnali appesi alla cintura. Il centro di questa prefettura è la città di Chamdo, la terza per grandezza del Tibet. Chamdo città ha centomila abitanti ed è attraversata da due fiumi, lo An Chu e lo Za Chu. Quest’ultimo, dopo aver attraversato le montagne, entra nel Laos dove assume il mitico nome di Mekong.

A est del centro abitato, i due fiumi si incontrano, ritagliando una piccola isola che divide in due la città e segna la separazione tra il mondo dei cinesi e quello dei tibetani. La città cinese è nuova, e simile a tutte le altre città cinesi. C’è l’edificio moderno della Agriculture Bank (una delle quattro grandi banche statali cinesi), alto 15 piani, ma che a Chamdo sembra un grattacielo. Dietro alla banca sorgono altre due costruzioni moderne, la scuola elementare e la scuola media: i funzionari cinesi le indicano con orgoglio, sono una prova dello sviluppo che i cinesi hanno portato nel medievale Tibet. Ci sono negozi con grandi vetrine e alberghi nei quali alloggiano i funzionari o gli uomini d’affari in visita alle regioni della «nuova frontiera». Sull’altra sponda stanno ammassate le piccole case dei tibetani. Alcune, lungo l’unica strada sulla quale sono stati aperti negozi gestiti da cinesi con una parvenza di modernità, sono state ristrutturate. Le altre sono visibilmente antiche, alcune cadenti. Una strada stretta e lunga è piena di tavoli da biliardo e la sera si riempie di uomini e donne di tutte le età che ridono e giocano mentre sorseggiano il tè di un vicino ristorante o rosicchiano i kebab cucinati dagli immigrati musulmani dalle province settentrionali del Xinjiang e del Gansu.

Dall’alto della montagna il monastero di Jambaling, un gioiello dell’architettura tibetana costruito nel XV secolo, domina la scena. Sull’isola non può mancare uno degli orribili monumenti frutto dell’incontro tra realismo socialista e cattivo gusto americaneggiante che deturpano buona parte delle città cinesi: nel caso di Chamdo è un’enorme aquila dorata (simbolo dello sviluppo economico del Tibet, secondo i funzionari cinesi) montata su un arco in pietra sul quale sono scolpite immagini idilliache dell’armonia che regna fra cinesi e tibetani.

Nella realtà, i due mondi vivono separati: non si vedono cinesi nei ristoranti tibetani né tibetani nei ristoranti cinesi. I matrimoni misti sono una rarità. Nessun cinese parla tibetano e solo i tibetani più istruiti – cioè pochi, dato che secondo i dati ufficiali un terzo della popolazione è analfabeta e solo il 3,4% ha frequentato le scuole medie – parlano un cinese fluente. Molti tibetani parlano della ferrovia in costruzione da Golmund, nel nord del Qinghai, a Lhasa, come di una nuova strada per l’immigrazione cinese (si tratta di una delle grandi opere infrastrutturali che negli ultimi vent’anni hanno occupato un ruolo centrale nello sviluppo economico della Cina e dovrebbe essere completata entro la fine del 2006). Forse è così, però Chamdo è già da tempo collegata a Chengdu, capitale della provincia del Sichuan, da tre voli aerei settimanali.

E già la presenza cinese è fortissima. Da Chamdo per arrivare a Lhasa, la capitale del Tibet, ci vogliono tre giorni di jeep nonostante la distanza sia di poco più di mille chilometri. Gli stessi funzionari cinesi non esitano a definire «la peggiore strada del paese» quella che collega le due città. Si procede saltando sulle buche, avvicinandosi pericolosamente, di tanto in tanto, ai precipizi in fondo ai quali scorrono impetuosi i fiumi di montagna.

Quando, spesso, si incontra uno degli scassati camion guidati da minacciosi khampa, passano delle ore prima che si possa azzardare un sorpasso.

Se la montagna è ancora dominata dai tibetani, le città sono completamente cinesi. Bayi – una città nuova che dopo un paio di giorni sui monti è una sosta obbligata – prende il nome dalla data di fondazione dell’esercito popolare cinese (vuol dire «primo agosto»; «yi» è «uno» in cinese e «ba» vuol dire «otto», quindi è la città del primo giorno dell’ottavo mese, perché in cinese si va sempre dal più grande al più piccolo e le date si scrivono indicando prima l’anno, poi il mese e infine il giorno). Gli alberghi sono decenti, l’acqua calda è disponibile e nei ristoranti ragazze in minigonna servono cibo del Sichuan. Infine, ecco Lhasa. Intorno al Jokhang, il tempio più importante del buddhismo tibetano, e nel mercatino che circonda il maestoso Potala, la città proibita sogno di tanti avventurieri dei secoli scorsi ha mantenuto il suo fascino. Il resto è Cina.

La città nuova avanza verso ovest, lungo l’arteria chiamata viale Pechino, che taglia la città da est ad ovest e ormai stringe d’assedio il quartiere vecchio del Jokhang. Il Barkhor, la strada che corre intorno al tempio e viene percorsa da migliaia di pellegrini che si sdraiano per terra, si rialzano e si sdraiano di nuovo fino ad aver completato il percorso, è un misto tra un mercato tradizionale tibetano ed un supermarket di paccottiglia per i turisti dai gusti facili. Difficile dire quanto resisterà. Oggi assomiglia alla Katmandu degli anni Settanta, con i bar con il roof top, i giovani con le biciclette ed i sacchi a pelo, i gruppi di anziani turisti europei e giapponesi. E, soprattutto, turisti cinesi a frotte.

La municipalità di Lhasa ha poco più di 500 mila abitanti, 238 mila dei quali vivono nell’area urbana. A questi vanno aggiunte quasi centomila persone della cosiddetta popolazione fluttuante. Secondo i dati forniti dalle stesse autorità, circa la metà degli abitanti della città propriamente detta sono cinesi han. In tutta la Regione autonoma, secondo le statistiche ufficiali, è di etnia tibetana il 92% della popolazione. Però solo coloro che stanno per più di nove mesi all’anno sono registrati come «residenti». I cinesi d’inverno chiudono negozi, alberghi e ristoranti e tornano nei loro paesi d’origine. La maggior parte delle imprese è familiare e spesso i membri di una famiglia si alternano nella gestione delle attività in Tibet seguendo i ritmi dettati dagli altri impegni: per esempio, d’estate gli studenti sono liberi e i genitori ne approfittano per metterli al lavoro in modo da poter tornare a casa per qualche mese.

In estrema sintesi si può affermare che nella Regione autonoma del Tibet c’è una fortissima immigrazione cinese, arrivata alla seconda generazione. L’esercito è presente in modo discreto, ma in forze. L’opposizione dei tibetani non si esprime in forme eclatanti ma è generalizzata. La cultura tibetana, con la relativa liberalizzazione religiosa degli ultimi anni e con una atmosfera generalmente più aperta (molti fatti recenti indicano che l’attuale dirigenza di Pechino sta facendo dei passi indietro) è sopravvissuta e si è rinforzata, anche al di fuori della Regione autonoma. Il buddhismo – come anche il taoismo e, in misura nettamente inferiore ma significativa, il cristianesimo – sta conoscendo una diffusione di massa in tutta la Cina. Per quanto riguarda i tibetani, questo si traduce nella conservazione di una forte identità culturale.



(*) estratto dell'articolo di Beniamino Natale pubblicato in Cindia, la sfida del secolo, che descrive la regione.