Tibet: "Questo è un genocidio culturale e io da solo non posso fermarlo"
di Raimondo Bultrini - 17/03/2008
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La residenza del Dalai Lama è in un bel giardino che non è mai sembrato tanto triste e spoglio, nonostante le timide fioriture degli alberi da frutta. Controlli e metal detector sono come sempre la norma prima di raggiungere il salone dove stavolta l'aria severa e composta dei suoi attendenti in chupa e dei monaci dell'Ufficio Privato è tetra e ancora più formale del solito. Prima di entrare, gli operatori riprendono un corteo di uomini e donne che gridano slogan issando bandiere colorate del Tibet, mentre una trentina di religiosi e laici siedono a terra recitando preghiere dietro a un grande ritratto del loro leader spirituale e a un cartello dove si spiega che sono in sciopero della fame. Non si fermeranno finché i loro "fratelli e sorelle in Tibet", come dicono, non otterranno i loro diritti. Ma più probabilmente finché il Dalai Lama non li supplicherà di smettere. "Può lei fermare le rivolte?", gli chiediamo. Dal tradizionale sorriso di cortesia che rivolge ai suoi ospiti, sullo sfondo di dipinti e statue dei Budda che lo sovrastano impassibili, passa al volto serio richiesto dalle circostanze: "Io non ho questo potere", dice secco. "E' un movimento di popolo, e io considero me stesso un servo, un portavoce de lmio popolo. Inoltre io sono totalmente devoto ai principi della democrazia, della libertà di espressione, di pensiero. Non posso domandare alla gente di fare o non fare questo e quello, qualsiasi cosa facciano o vogliano fare, non sono il loro controllore". Non aspetta un'altra domanda. Vuole far capire che non per questo è d'accordo con le violenze: "In realtà credo che tutti sappiano qual è il mio approccio. Ognuno sa qual è il mio principio, completa non violenza, perché la violenza è quasi come un suicidio. Ma che il governo cinese lo ammetta o no, c'è un problema. Il problema è che l'eredità culturale nazionale è in una fase di serio pericolo. La nazione tibetana, la sua antica cultura muore. Tutti lo sanno". "Allora chiedo - riprende - per favore indagate da soli, se possibile lo faccia qualche organizzazione rispettata a livello internazionale, indaghi su che cosa è successo, su qual è la situazione e quale la causa. All'esterno tutti vogliono sapere, compreso me stesso. Chi ha davvero creato questi problemi adesso?". Di nuovo rivolge lo sguardo che resta cupo verso la piccola platea: "Intenzionalmente o non intenzionalmente, assistiamo a una forma di genocidio culturale. E' un tipo di discriminazione: i tibetani, nella loro terra, molto spesso sono cittadini di seconda classe. Recentemente le autorità locali hanno addirittura peggiorato la loro attitudine verso il buddismo tibetano. E' una situazione molto negativa, ci sono restrizioni e cosiddette "rieducazioni politiche" nei monasteri...". Sa che spesso i cinesi lo accusano di dirigere dall'esilio le azioni dei suoi fedelissimi in Tibet, e non nasconde di aver ricevuto e parlato con parecchi connazionali venuti a trovarlo: "Tra i tibetani che vengono qui dal Tibet è cresciuto il risentimento, inclusi alcuni tibetani comunisti, che lavorano in diversi dipartimenti e uffici cinesi. Sebbene siano ideologicamente comunisti, hanno a cuore la causa del loro popolo. Secondo queste persone più del 95 per cento della popolazione è molto, molto risentita. Questa è la principale ragione delle proteste, che coinvolgono monaci, monache, studenti, persone comuni". Gli viene fatto notare che la sua "Via di mezzo", la richiesta di una semplice autonomia anziché la totale indipendenza, non sembra condivisa da tutti. Ma nonostante le sue durissime dichiarazioni degli ultimi giorni insiste: "Davvero, dico davvero, vorrei supportare il presente leader Hu Jintao per creare un'armonia sociale. Noi non cerchiamo la separazione, il resto del mondo lo sa. Inclusi alcuni tibetani, inclusi i nostri sostenitori occidentali ed europei, o indiani che sono critici verso il nostro approccio perché secondo loro non cerchiamo l'indipendenza, la separazione. Però (ride) sfortunatamente i cinesi hanno trovato una scappatoia e di nuovo accusano noi di quanto sta avvenendo". "La verità - continua - è che Pechino si affida all'uso della forza per simulare la pace, ma è una pace creata con il terrore. Succede così da cinquant'anni, e ora c'è una nuova generazione, e anche con loro hanno la stessa attitudine. Certo possono controllare il popolo, ma non le loro menti". Infine le Olimpiadi, ancora lontane il tempo che basta - non può escluderlo, dice - "per altre morti, altre violenze". Ma ripete che lui non vuole boicottarle: "E' la comunità internazionale che ha la responsabilità morale di ricordare alla Cina di essere un buon paese ospitante. Ho già detto che ha il diritto di tenere i Giochi, e che il popolo cinese ha bisogno di sentirsi orgoglioso di questo". Se tutto filerà liscio o meno - lascia capire - non dipende da lui. Ma dal fatto che Pechino cambierà - o meno - "la politica verso le regioni himalayane controllate dal suo regime". |