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Il significato della “shoah” di Gaza: Israele pianifica un altro esodo palestinese

di Jonathan Cook* - 17/03/2008


 

La nota dichiarazione della scorsa settimana da parte del Vice Ministro della Difesa israeliano Matan Vilnai sul rischio di una “shoah” a Gaza – termine ebraico per indicare un olocausto – è stata considerata in larga parte come uno sgradevole giro di parole sui piani dell’esercito riguardanti una imminente invasione generale della Striscia di Gaza.
Il suo commento offre tuttavia un'indicazione preoccupante della strategia di lungo termine dell'esercito israeliano nei confronti dei Palestinesi che risiedono nei territori occupati.
Vilnai, un ex generale, è stato intervistato da “Army Radio” mentre Israele si trovava impegnata in una serie di attacchi da terra e con l’aviazione contro zone residenziali di Gaza, operazioni che secondo il gruppo israeliano per i diritti dell'uomo B'Tselem hanno ucciso più di 100 Palestinesi, almeno la metà dei quali civili tra cui 25 bambini.
L’intervista inoltre ha avuto luogo a breve tempo dal lancio di un razzo da Gaza che aveva ucciso uno studente a Sderot mentre altri razzi avevano colpito il centro della città meridionale di Ashkelon. Vilnai ha dichiarato: “Più si intensificherà il lancio di razzi Qassam e questi raggiungeranno distanze maggiori, più i responsabili (i Palestinesi di Gaza) porteranno su di essi una shoah più grande, questo perché noi useremo tutta la nostra forza per difenderci”.
Il suo commento, raccolto dai servizi Reuters, ha subito fatto il giro del mondo. Probabilmente a disagio per un personaggio pubblico che in Israele paragona la politica del proprio governo al progetto nazista di sterminio della popolazione ebraica europea, molte agenzie hanno definito le chiare e ben articolate minacce di Vilnai come un “avvertimento”, cioè come se egli avesse predetto un cataclisma naturale su cui egli stesso e l’esercito israeliano non avesse alcun controllo.
Ciò nonostante, tutti hanno compreso il danno che la traduzione dall’ebraico delle esternazioni di Vilnai potrebbe causare all’immagine di Israele all'estero. I dirigenti palestinesi hanno chiaramente subito sfruttato il paragone, con il presidente palestinese Mahmoud Abbas ed il capo in esilio di Hamas, Khaled Meshaal, a dichiarare che nei fatti un "olocausto" stava avvenendo a Gaza.
In poche ore il Ministero degli Esteri israeliano ha lanciato una grande campagna di "hasbara" (propaganda) attraverso i propri diplomatici, come ha segnalato il Jerusalem Post. In collegamento a questo episodio, un portavoce di Vilnai ha spiegato che la parola "shoah" significa anche "disastro"; un disastro, piuttosto che un olocausto, era ciò a cui il politico si riferiva.
Chiarimenti sono stati pubblicati da molti Media. Tuttavia, nessuno in Israele si è fatto ingannare. "Shoah" - che letteralmente significa "offerta di fuoco" – è un termine da molto tempo impiegato per l’olocausto, così come la parola araba "Nakba" ("catastrofe") oggi è usata per riferirsi solo alla spogliazione delle terre palestinesi da parte di Israele nel 1948. Certamente la stampa israeliana in lingua inglese ha tradotto l’uso del termine “shoah" fatto da Vilnai come "olocausto". Questa non è però la prima volta che Vilnai esprime opinioni estreme circa il futuro di Gaza.
La scorsa estate Vilnai ha iniziato ad elaborare un programma a nome del Ministro della Difesa, Ehud Barak, per dichiarare Gaza una "entità ostile" e ridurre drammaticamente i servizi essenziali forniti da Israele - come occupante di lungo termine - ai suoi abitanti, compresa l’elettricità ed i combustibili. I tagli sono poi stati perfezionati alla fine dello scorso anno dopo che la magistratura israeliana ha benedetto l’operazione. Vilnai e Barak, entrambi ex militari come tanti altri politici israeliani, da allora stanno “vendendo" questa politica di soffocamento dei servizi di base a Gaza all'opinione pubblica occidentale. In base al diritto internazionale, Israele come occupante ha il dovere di garantire il benessere della popolazione civile a Gaza, un aspetto del tutto dimenticato quando la stampa parla della volontà israeliana di dichiarare Gaza una entità ostile.
Vilnai e Barak hanno osservato in modo fazioso che i bisogni umanitari di Gaza sono tuttora salvaguardati dai rifornimenti minimi consentiti, e che quindi le suddette misure non costituiscono un caso di punizione collettiva.
Lo scorso mese di ottobre, dopo un incontro tra i membri della difesa, Vilnai ha detto di Gaza: “trattandosi di un’entità ostile, non c’è ragione da parte nostra di garantire il rifornimento di energia elettrica oltre il minimo necessario ad evitare una situazione di crisi”.
Tre mesi dopo Vilnai è andato oltre, sostenendo che Israele dovrebbe togliersi "ogni responsabilità" riguardo a Gaza benché, in linea con i suggerimenti ricevuti da altri dirigenti, abbia fatto ben attenzione a non far trasparire che tutto ciò punirebbe in modo indiscriminato i civili di Gaza.
Ha dichiarato invece che il disimpegno dovrebbe essere adottato secondo questa logica: "Vogliamo smettere di assicurare loro l’approvvigionamento elettrico, così come il rifornimento di acqua e medicinali, in modo che tutto debba giungere da altrove". Ha suggerito che potrebbe essere l'Egitto quello costretto ad assumersi la responsabilità di tutto.
I diversi commenti di Vilnai sono un riflesso del nuovo pensiero all’interno della difesa e dell’ambiente politico israeliano su come affrontare il conflitto con i Palestinesi.
Dopo l'occupazione della Cisgiordania e di Gaza nel 1967, tra i vertici militari israeliani è velocemente emerso un certo consenso nei confronti del controllo dell’area mediante una politica coloniale di “divide et impera”, separando cioè i Palestinesi in diverse fazioni per renderli più controllabili. Finché i Palestinesi sono rimasti troppo divisi per poter resistere efficacemente all'occupazione, Israele ha potuto procedere con il proprio programma di insediamenti e di "annessione strisciante" dei territori occupati, secondo la definizione del Ministro della Difesa di allora, Moshe Dayan.
Israele ha sperimentato con vari metodi il sistema per insidiare il secolare nazionalismo palestinese dell’OLP che minacciava di supportare una generale resistenza all'occupazione. In particolare Israele ha sostenuto delle locali milizie anti-OLP note come “Leghe di villaggio”, poi ha sostenuto il fondamentalismo islamico dei Fratelli Musulmani, che avrebbero costituito Hamas.
La rivalità fra Hamas ed OLP, controllata da Fatah, è stata da sempre il cardine della politica palestinese nei territori occupati ed ha spostato il proprio baricentro a partire dal disimpegno di Israele da Gaza nel 2005. Un antagonismo crescente alimentato da Israele e Stati Uniti, culminato con la separazione fisica della scorsa estate tra la Cisgiordania governata da Fatah dalla Striscia di Gaza controllata da Hamas.
I dirigenti di Fatah ed Hamas ora sono divisi non soltanto geograficamente ma anche da strategie diametralmente opposte su come occuparsi della colonizzazione israeliana.
Il controllo della Cisgiordania da parte di Fatah è stato appoggiato da Israele perché i suoi dirigenti, compreso il Presidente Mahmoud Abbas, hanno indicato chiaramente di essere pronti a collaborare ad un interminabile processo di pace che darà ad Israele tutto il tempo che necessario ad annettere ancora maggiori territori.
Hamas, d'altra parte, non si fa illusioni sul processo di pace, vedendo allontanarsi i coloni ebrei ma allo stesso tempo intensificarsi il controllo militare di Israele e del proprio apparato economico.
Con la prospettiva di una prigione all'aria aperta, Hamas ha rifiutato di cedere ai diktat israeliani e si è rivelato invulnerabile alle macchinazioni israeliane e statunitensi che avrebbero dovuto rovesciarlo. Hamas invece ha cominciato a portare avanti le sole due forme possibili di resistenza disponibili: gli attacchi portati con razzi al di sopra del muro che circonda Gaza, e la mobilitazione popolare di massa.
È questa la fonte delle preoccupazioni espresse da Vilnai. Entrambe le forme di resistenza, qualora Hamas rimanga in carica a Gaza e migliori il livello organizzativo e la definizione dei propri obiettivi, potrebbero in alla lunga ostacolare i programmi di Israele nell’annessione dei territori occupati – dopo l’allontanamento degli abitanti palestinesi.
In primo luogo, lo sviluppo da parte di Hamas di razzi più sofisticati ed a lungo raggio minaccia di spostare la resistenza di Hamas su un territorio più ampio rispetto alla modesta cittadina di Sderot. I razzi atterrati ad Ashkelon nell’ultima settimana, una delle maggiori città del paese, potrebbero diventare i messaggeri di un cambiamento politico in Israele.
Hizbullah ha dimostrato nella guerra del Libano del 2006 che l’opinione pubblica israeliana si sbriciolava rapidamente di fronte ad un continuo lancio di razzi. Hamas spera di raggiungere lo stesso risultato.
Dopo gli attacchi su Ashkelon, i media israeliani si sono riempiti di notizie di manifestazioni violente svoltesi nelle strade della cittadina, con pneumatici incendiati per protesta verso il fallimento del governo nel piano di protezione degli abitanti. Quella è stata la loro prima risposta. Ma a Sderot, dove gli attacchi proseguono da anni, il sindaco Eli Moyal recentemente ha richiesto colloqui con Hamas. Un sondaggio pubblicato sul quotidiano Haaretz ha indicato che il 64% dei cittadini israeliani ora concorda con lui. Questo dato potrebbe crescere con l’intensificarsi degli attacchi.
Il timore tra i leader israeliani è che la “annessione strisciante” dei territori occupati non possa essere realizzata qualora l’opinione pubblica israeliana inizi a chiedere la partecipazione di Hamas al tavolo dei negoziati.
In secondo luogo, la mobilitazione di Hamas nell’ultimo mese per aprire una breccia nel muro nei pressi di Rafah permettendo agli abitanti della Striscia di riversarsi in Egitto, ha dimostrato a politici e generali israeliani come Barak e Vilnai che il movimento islamico possiede le potenzialità, fino ad ora irrealizzate, per lanciare una protesta pacifica di massa contro l’intervento militare israeliano a Gaza.
Meron Benvenisti, ex vice sindaco di Gerusalemme, ha notato come questo scenario “spaventi l'esercito più di un violento conflitto con Palestinesi armati". Israele teme che la vista di bambini e donne disarmate uccisi per aver provato a liberarsi dalla prigione che Israele ha costruito per loro potrebbe l'idea che il disimpegno israeliano si sia di fatto concluso con un’occupazione.
Quando parecchie migliaia di palestinesi circa due settimane fa tennero una dimostrazione creando una catena umana lungo una parte del muro tra Gaza e Israele, l’esercito israeliano ha potuto contenere a fatica il proprio panico. Batterie di artiglieria pesante sono state portate sul confine ed i cecchini hanno ricevuto l’ordine di sparare alle gambe dei manifestanti qualora si fossero avvicinati troppo alla recinzione.
Come ha osservato Amira Hass, una reporter di Haaretz veterana dei territori occupati, Israele fino ad ora ha pensato di terrorizzare su questo fronte i normali cittadini di Gaza, paralizzandone l’attività.
Principalmente i Palestinesi rifiutano di prendere parte al progetto “suicida” di sfidare apertamente la prigionia indotta da Israele, anche in modo pacifico: “I Palestinesi non hanno bisogno di avvertimenti o di particolari resoconti per sapere che i soldati israeliani sparano anche su chi è disarmato, uccidendo perfino donne e bambini”. Ma tutto ciò potrebbe cambiare nel caso in cui l’azione militare portasse ancora maggiore miseria a Gaza.
Di conseguenza, le priorità immediate per Israele sono diventate: spingere regolarmente Hamas verso la violenza per distrarla dalla possibilità di organizzare proteste di massa pacifiche; indebolire la dirigenza di Hamas con regolari esecuzioni; accertarsi che si stia sviluppando una difesa efficace contro i razzi, compreso il progetto caro a Barak, “iron dome”, per proteggere il paese dagli attacchi.
In conformità con queste linee politiche, Israele ha interrotto l’ultimo periodo di “calma relativa" a Gaza iniziando con le uccisioni di cinque membri di Hamas mercoledì scorso. Come prevedibile, Hamas ha risposto lanciando su Israele una linea di razzi che ha ucciso lo studente a Sderot, il quale a sua volta ha indotto un bagno di sangue a Gaza.
Ma c’è bisogno anche di una strategia a lungo termine, creata da Vilnai ed altri. Cosciente del fatto che la prigione di Gaza è molto piccola, con risorse limitate e che la popolazione palestinese sta sviluppandosi rapidamente, ad Israele serve una soluzione più duratura. Deve trovare un modo per arrestare la minaccia crescente della resistenza organizzata dal Hamas e l'esplosione della società a Gaza che presto o tardi giungerà al culmine, a causa di condizioni di vita inumane e del sovraffollamento.
Le parole di Vilnai suggeriscono una strategia, come la serie di osservazioni fatte ad una riunione ministeriale per discutere sui crimini di guerra delle ultime settimane e fermare il lancio di razzi. Il Primo Ministro Ehud Olmert, ad esempio, ha detto che agli abitanti di Gaza non può essere permesso "vivere una vita normale"; il Ministro per la Sicurezza Interna, Avi Dichter, ritiene che Israele dovrebbe agire "indipendentemente dai costi riguardanti i Palestinesi"; il Ministro dell’Interno, Meir Sheetrit, suggerisce invece che l'esercito israeliano dopo ogni attacco dovrebbe "individuare un quartiere di Gaza per spianarlo".
Barak ha rivelato questa settimana che i suoi funzionari starebbero lavorando a questa ultima idea, cercando un modo sostenibile legalmente per consentire all'esercito di dirigere il fuoco dell’artiglieria ed i bombardamenti aerei nelle aree abitate dai civili di Gaza in risposta al lancio di razzi.
Tutto questo avviene già in modo segreto, naturalmente, ma ora desiderano avere le mani libere per farla diventare una politica ufficiale al momento sanzionata dalla comunità internazionale.
Allo stesso tempo Vilnai ha proposto un'altra idea ad essa collegata, ovvero dichiarare l’area di Gaza "zona di combattimento", in cui l'esercito avrebbe campo libero e dalla quale i residenti avrebbero poca scelta per fuggire. In pratica, questo permetterebbe ad Israele di espellere i civili da ampie zone della Striscia di Gaza, ammassandoli in spazi ancora minori, come sta accadendo in Cisgiordania da diverso tempo.
Tutte questi provvedimenti – dall’intensificarsi degli attacchi per impedire ad elettricità, combustibile e medicine di raggiungere Gaza alla concentrazione della popolazione in spazi ancor più limitati, come pure i nuovi modi per innescare una reazione violenza da infliggere alla Striscia – rappresentano delle giustificazioni coperte da un velo sottile, per mettere nel mirino e punire la popolazione civile. Tali aspetti chiaramente precludono la trattativa ed il dialogo con i capi politici di Gaza.
Finora, a quanto pare, il programma di Israele serviva a convincere l'Egitto ad assumere la gestione politica di Gaza, con ritorno allo status precedente alla guerra del 1967.
Si pensava che Il Cairo sarebbe stato ancora più risoluto di Israele nel piegare i militanti islamici, ma lo sguardo di Barak e Vilnai si è posto in una direzione differente. Il loro ultimo obiettivo sembra essere in collegamento con la dichiarazione della "shoah" fatta da Vilnai: spopolare Gaza, schiacciando la Striscia su tre lati fino a che la pressione costringerà i Palestinesi a riversarsi ancora in Egitto. Questa volta, è lecito pensarlo, non sarà data alcuna possibilità di ritorno.


Articolo originariamente pubblicato in Global Research, 8 marzo 2008

Traduzione di Luca Bionda


*Jonathan Cook è scrittore e giornalista, lavora a Nazareth, Israele. Il suo ultimo libro, “Israele e lo Scontro di Civiltà: Iraq, Iran ed il piano per ricostruire il Medio Oriente”, è pubblicato da Pluto Press.
Il suo sito Internet è www.jkcook.net