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L’invasione della Slesia di Federico II apre la via al diritto della forza

di Francesco Lamendola - 17/03/2008

 

 

 

 

C’è un vulnus, una ferita e una drammatica discontinuità nella storia delle relazioni fra gli Stati dell’Europa moderna e, più ancora, nel pensiero politico occidentale moderno: l’invasione della Slesia da parte dell’esercito prussiano di Federico II, nel 1740.

Il giovane Hoehnzollern, appena salito al trono, era imbevuto di cultura umanistica e, soprattutto, illuministica; molti, a cominciare da Voltaire, avevano salutato l’inizio del suo regno come il ritorno della filosofia al potere, come teorizzato nella Repubblica di Platone, e si aspettavano dal sovrano una fervida politica di pace, che avrebbe promosso le arti, le scienze e il progresso morale e materiale del continente europeo.

Invece il primo atto significativo di Federico fu l’occupazione fulminea della Slesia, provincia austriaca, profittando del temporaneo indebolimento della monarchia asburgica, verificatosi con la morte improvvisa, e senza  eredi maschi, di Carlo VI e con la discussa e faticosa ascesa al trono della giovane Maria Teresa, in un contesto internazionale diffidente se non, addirittura, a lei ostile. Si trattò di un atto inaudito anche per le pur disinvolte diplomazie dell’epoca, non tanto per la cosa in sé, quanto per il modo in cui venne effettuata: senza curarsi di darle un minimo di giustificazione giuridica - il che, allora, avrebbe voluto dire dinastica - e celebrando così apertamente il principio che è la forza la fonte del diritto, e non viceversa. Mai si era visto un sovrano europeo gettare la maschera del politicamente corretto in modo così brutale, facendosi apertamente seguace dell’amoralismo di Machiavelli. Neppure il Re Sole, nelle sue numerose guerre di aggressione a danno dei suoi vicini, aveva mai osato agire in un tale modo.

Non solo Maria Teresa d’Austria, che da allora designò per sempre Federico come “il ladro della Slesia”, ma l’intero mondo diplomatico europeo, videro in quella brutale e ingiustificata aggressione l’avvento di un modo nuovo di fare politica estera, e ne furono talmente allarmati che si coalizzarono contro la Prussia. Ne seguì una serie di conflitti sanguinosi, culminati nella guerra dei Sette Anni (1756-1763), che, tuttavia, non valsero a ripristinare il diritto violato (la Slesia rimase a Federico) e che, al contrario, aprirono la strada a un evento ancor più scandalosamente brutale: la cancellazione dell’antico e glorioso Stato polacco dalla carta geografica, ad opera delle tre potenze ad esso confinanti: Russia, Prussia ed Austria.

Se l’invasione della Slesia segna una frattura nella tradizione del pensiero e della prassi politica europea del XVIII secolo (altro discorso andrebbe fatto per i continenti extra-europei), essa segna anche una svolta nella politica estera - e, di conseguenza, interna - prussiana e, più tardi, tedesca. L’unica giustificazione dell’aggressione, infatti, era di natura strategica: assicurare al regno di Prussica tutto il bacino dell’Oder, dalla sorgente alla foce. Per il resto, la Prussia non aveva alcuna rivendicazione valida da far valere, né sul piano dinastico, né su quello demografico o economico. La ragione ultima dell’invasione della Slesia era, puramente e semplicemente, la volontà di Federico II di fare della Prussica una grande potenza e, di se, stesso, un sovrano memorabile. E poiché la Prussia non aveva chiari confini naturali, l’unico modo di farne una grande potenza era quello di sfidare e vincere i suoi potenti vicini, assicurandosi una supremazia non solo militare, ma altresì psicologica e morale.

Se poi ci si domanda perché Federico volesse fare del suo regno una grande potenza - oltre, lo abbiamo detto, alla gloria personale che si riproponeva dall’impresa - si avrà la sorpresa di scoprire che egli voleva fare ciò per ragioni umanitarie.

Abbiamo visto che Federico era imbevuto di cultura illuministica  ed era sinceramente innamorato delle arti, delle scienze e dell’idea di progresso. Ebbene, per la cultura illuminista il progresso era visto necessariamente in funzione dell’idea di felicità: era lo strumento per realizzare la felicità universale, cioè per instaurare il regno della pace e del benessere. Federico  II era un despota, ma un despota illuminato: fermamente convinto, come aveva insegnato l’aristocratico Montesquieu, che solo il sovrano illuminato sa quale sia il bene dei sudditi e quali le vie per donare ad essi la felicità, calando dall’alto le sue riforme. Ora, per realizzare il progresso della società civile e per realizzare la felicità è necessario che lo Stato sia potente: un piccolo Stato, uno Stato imbelle non è all’altezza di misurarsi con tali, nobili compiti.

Ed ecco spiegato perché Federico volle fare della Prussia una grande potenza militare; o, per dir meglio, perché volle accentuare quei caratteri militaristici che aveva ereditato dalla tradizione politica  dei suoi predecessori. Egli, cioè, volle essere un protettore delle arti, delle scienze e del progresso, e perciò (e non “a dispetto di ciò”) un sovrano militarmente aggressivo e imperialista, mettendo a fuoco l’intero continente. Così come la democrazia dell’Atene di Pericle non esclude affatto, anzi presuppone, la politica imperialista e militarista che condusse alla catastrofica guerra del Peloponneso, così l’assolutismo illuminato della Berlino di Federico II non esclude affatto, anzi presuppone, la Guerra di successione austriaca e la guerra dei Sette Anni, i grandi flagelli dell’Europa del 1700.

La politica europea del XVIII secolo, tuttavia, dopo le terribili esperienze  delle passate guerre di religione e, specialmente, dopo l’esperienza della devastante guerra dei Trent’Anni, aveva avuto di mira il raggiungimento e il mantenimento di un equilibrio fra le potenze. Mentre sugli oceani e negli altri continenti rimaneva aperta la grande partita per l’egemonia marittima e coloniale tra la  Francia (con il sostegno della Spagna) e la Gran Bretagna, in Europa tutti erano interessati, chi più e chi meno, alla conservazione di un certo status quo, specialmente dopo il nulla di fatto della Guerra di successione spagnola.

Tutti meno uno: Federico di Prussia. Per fare del suo Stato una grande potenza, egli doveva far saltare l’equilibrio europeo, attizzare le rivalità tra le potenze, pescare nel torbido delle reciproche gelosie e inimicizie, e profittare fulmineamente delle occasioni favorevoli: come fece, appunto, con la Slesia, nel 1740. Per usare le sue stesse parole, non usufruire delle circostanze favorevoli per ingrandire lo Stato sarebbe stato un delitto, che egli non avrebbe osato perpetuare verso i suoi sudditi.

Era un gioco spregiudicato: talmente spregiudicato che portò la Prussia a un passo dal disastro totale. Durante la guerra dei Sette Anni, con la sola alleanza della Gran Bretagna (utile finanziariamente, ma nulla sul piano militare), Federico dovette vedersela con le forze coalizzate della Francia, dell’Austria e della Russia e subì delle memorabili disfatte. A un certo, punto i Russi occuparono Berlino e la stessa sopravvivenza della Prussia come Stato indipendente sembrò giunta alla fine. Disperato, dopo essersi rifugiato nell’ultima cittadina rimasta sotto il suo controllo, Memel, all’estremità settentrionale della Prussia Orientale, per un momento Federico meditò di farsi saltare le cervella. Proprio come avrebbe fatto Hitler nella Cancelleria del Bunker di Berlino, nell’aprile del 1945.

Impressionante similitudine, e non casuale. La politica di potenza intrapresa da Federico era tale da tenere di necessità lo Stato sul crinale a fil di rasoio che sta fra il trionfo e la disfatta. Federico fu salvato, all’ultimo istante, da un vero miracolo: la morte della zarina Elisabetta e l’ascesa al trono di Russia del nipote di lei, lo zar Pietro III, fanatico ammiratore del sovrano prussiano, che si affrettò a far la pace, vanificando le vittorie riportate dall’esercito russo (1762). Anche Hitler sperò fino all’ultimo che si ripetesse un miracolo del genere: e, come testimoniano concordemente coloro che gli furono vicini in quegli ultimi giorni, quando già i carri armati dell’Armata Rossa erano in vista della Cancelleria, salutò la notizia della morte di Franklin Delano Roosevelt come l’inizio di un possibile rovesciamento delle alleanze, che gli avrebbe permesso di far fronte comune con gli Anglo-Americani contro i Sovietici e salvare, così, il Terzo Reich.

Ma il miracolo, com’è noto, non si ripeté, e la Germania uscì distrutta dall’ennesimo azzardo politico-militare del suo spregiudicato Führer: dapprima l’invasione della Polonia il 1° settembre 1939, ch’egli ordinò, convinto del non-intervento anglo-francese; e, poi, quella dell’Unione Sovietica, il 22 giugno 1941, che egli intraprese nella certezza di un rapido collasso interno dello stalinismo (collasso che avrebbe anche potuto esserci, se la politica tedesca verso le popolazione dei territori occupati fosse stata meno brutale e più lungimirante). Nessuno, tuttavia, può negare che Hitler - come, del resto, Bismarck, prima di lui - sia stato un coerente continuatore di quella tradizione machiavellica, cinica e spietata della politica internazionale, che Federico II aveva non solo teorizzato, ma messo in pratica nel 1740, con l’invasione della Slesia.

 

Scrive lo storico tedesco Theodor Schieder (Oettingen, 1908-Colonia, 1984) nel suo bel saggio Federico il Grande (edizione originale rancoforte sul Meno, 1983; traduzione italiana di Giuseppina Panieri Saija, Torino, Einaudi, 1989; e nella Biblioteca storica de Il Giornale di Milano, 2008, pp.110-111 e 122-124):

 

“Nel pensiero e nell’azione delle piccole e grandi potenze dell’epoca, gli acidi e gli scontri tra gli Stati erano rapporti legati al diritto di successione e di famiglia, le rivendicazioni territoriali venivano motivate sempre sul piano ei diritti di successione o di trattati e spesso non tenevano alcun conto di una razionale opportunità politica e tanto meno economica. Nacquero così le signorie dinastiche assai confuse e sparpagliate, ad esempio all’interno del Sacro Romano Impero tedesco; tali erano anche i territori del re di Prussica. Ad essi si contrapponevano senza dubbio i grandi Imperi che, pur scaturiti tutti da radici dinastiche, nel corso dei secoli erano cresciuti fino a diventare compatti complessi territoriali. L’Impero degli Asburgo aveva infine potentemente rafforzato il suo carattere di grande potenza territorialmente compatta con la conquista dell’Ungheria alla fine del secolo XVII; rimase tuttavia un organismo ibrido con un vasto territorio centrale e vari possedimenti sparsi  in Europa: sull’Alto Reno, in Italia e nei Paesi Bassi. Senza dubbio, nel riflettere sul mondo politico, il giovane principe ereditario di Prussica prese a kodello le grandi potenze; e al tempo stesso tenne presente la rivalità con l’Austria. Come sia arrivato a queste idee nonostante le limitazioni impostegli dalla vita a Küstrin, quando tutti i grandi problemi statali gli erano espressamente preclusi, lo si può spiegare soltanto pensando alla sua innata volontà di potere  e alla sua divorante ambizione, le cui mete personali si identificarono assai presto con quelle dello Stato prussiano.” (…)

“«Ho varcato il Rubiconde con bandiere al vento e squilli di trombe», scrisse Federico il 16 dicembre 1740 al ministro Podewils, quando le sue truppe avevano già varcato il confine slesiano. Questa frase, scaturita all’esaltazione di un evento straordinario, non ebbe un significato soltanto in questo caso: divenne invece la parola d’ordine di tutta la sua vita di sovrano. In quel 16 dicembre 1740 si decise il destino del re Federico II di Prussica e fu determinato il suo ruolo storico, in senso positivo e negativo. Ma dato il metodo, lo stile, la spregiudicata violazione del diritto e della convenzione il Rubiconde non era stato forse varcato anche in un senso generale, rispetto alla consapevolezza dell’epoca? Nella sua biografia di Federico, lo storico inglese Gorge Peabody Gooch ha incluso questa rapina della Slesia,insieme alla spartizione della Polonia, tra i più impressionanti crimini della storia dell’età moderna, giudicandola quindi incommensurabile rispetto ad altri avvenimenti dell’epoca. È esatto che il comportamento del re, l’egemonia data alla forza militare a scapito della diplomazia e di procedimenti basati su rivendicazioni giuridiche  corrispondono non tanto allo stile del XVIII secolo quanto ai ‘nuovi principi’ dell’età di Machiavelli. Comunque ciò vale soltanto per le conquiste in Europa.  D’altra parte, il richiamarsi alla ragion di Stato è un sintomo delle trasformazioni avvenute nella politica all’epoca dell’Illuminismo avanzato, che raggiunsero il culmine in un avvenimento quale la dissoluzione della Polonia. L’Illuminismo introdusse nell’idea di Stato i principi di umanità di uguaglianza davanti alla legge, di bene comune, ma le trasmise anche la fredda razionalità di una ‘meccanica’ politica orientata sul potere, che è stata anche un elemento essenziale, se non pure l’unico, del pensiero e dell’azione politica di Federico. In Federico i due aspetti dello Stato, quello umanitario e quello naturale e orientato verso il potere sono in realtà contigui e contrapposti; ma egli era persuaso che i grandi Stati fossero gli unici in grado di compiere grandi opere umanitarie e che pertanto era profondamente necessario fare della Prussica un grande Stato. La conquista della Slesia fu il culmine di una naturale politica di potere, violò le regole politiche dell’epoca sua ed ebbe come unico fondamento il principio della costruzione di una potenza attraverso l’agrandissement. Questo principio, del resto, era stato dominante per tutto il secolo, ma i principi e gli statisti osservarono le forme del diritto anche quando, come sotto Luigi XIV, del diritto si abusò utilizzandolo soltanto come strumento di potere. E nelle trattative con gli ambasciatori prussiani tra la fine del 1740 e l’inizio del 1741 gli austriaci si richiamarono esplicitamente al fatto che neppure negli anni del suo massimo successo Luigi XIV aveva mai agito come Federico II nel 1740. A sua volta, questi credette di poter tranquillamente ignorare anche l’apparenza del diritto, finché riconobbe – troppo tardi perché ciò potesse avere qualche effetto – quale arma di era lasciato sfuggito di mano. Resta il quesito storico se col ricorso alla pura forza abbia realizzato una legge vitale dello Stato prussiano, da lui stesso invero creata. Sotto molti aspetti la risposta non può che essere affermativa, anche se i suoi successori che agirono secondo lo spirito federiciano, come Bismarck, osservarono le regole del gioco del diritto europeo, facendo così tesoro delle amare esperienze che dovette invece fare Federico dopo l’avventura del 1740. Se il carattere radicale dell’azione di Federico scaturì dalla situazione eccezionale del suo Stato, cui nessun’altra situazione poteva essere paragonata, tuttavia proprio quel carattere radicale rese costantemente possibile il pericolo del fallimento al quale egli espose se stesso e il suo Stato.”

 

Crediamo sia appena il caso di richiamare l’attenzione sui danni incalcolabili che l’affermarsi del principio della forza su quello del diritto ha arrecato non solo nella storia tedesca moderna e contemporanea, ma al complesso delle relazioni internazionali.

Un altro esempio di azione politico-militare unilaterale è stata l'annessione della Bosnia-Erzegovina, nel 1908, da parte dell'Impero austro-ungarico, che mise le grandi potenze davanti al "fatto compiuto" e acuì ulteriormente la già grave tensione internazionale. Ciò che diede al ministro degli Esteri austriaco, Alois Lexa von Aerenthal, il coraggio di procedere all'annessione delle due province balcaniche, occupate dall'Austria fin dal 1878, ma ancora facenti parte, dal punto di vista giuridico, dell'Impero ottomano, fu l'aperto incoraggiamento della Germania di Guglielmo II. La Russia, protettrice dei popoli slavi dei Balcani, per quella volta dovette ingoiare il rospo: ma se ne diede per intesa e si ripromise che la cosa non si sarebbe ripetuta. E quando, sei anni dopo, in seguito all'eccidio dell'arciduca Francesco Ferdinando, l'Austria presentò alla Serbia il famoso ultimatum, la Russia, sostenuta dalla Francia, puntò i piedi e mobilitò il suo esercito: e fu la prima guerra mondiale. L'azzardo di Aerenthal aveva dato i suoi frutti con un po' di ritardo, come una mina vagante: ma l'Europa lo avrebbe pagato con 10 milioni di morti.

 

L’azione con la quale il presidente americano Gorge Bush junior ha scatenato l’attacco contro l’Irak, nel 2003, scavalcando le Nazioni Unite e agendo unilateralmente, per una supposta difesa contro non meglio specificati pericoli (di terrorismo e di armi di distruzione di massa), ha inferto al diritto internazionale una ferita altrettanto devastante di quella causata da Federico II nel 1740. Il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, in violazione del principio di sovranità e integrità degli Stati (principio che aveva fornito la base giuridica per la prima guerra del Golfo, quella lanciata da Bush senior nel 1991), ne ha inferta una seconda, non meno tremenda. La politica del “fatto compiuto” è una politica dell’azzardo, che riduce le controversie internazionali a una specie di “roulette russa”, dove vince non chi ha delle ragioni da far valere sul piano del diritto, ma chi è più deciso e spregiudicato nell’agire mediante l’uso della forza.

Ancora oggi, storici e politologi dalla memoria corta cercano di giustificare l’unilateralismo statunitense dei nostri giorni, mentre dipingono l’Anschluss o la Conferenza di Monaco del 1938 come classici esempi del machiavellismo e della perfidia nazista. Dimenticando che, a paragone della seconda guerra del Golfo o di quella contro la Iugoslavia del 1999, che ha portato all’indipendenza del Kosovo, quelle due azioni, benché condannabili per l’unilateralismo con cui furono realizzate, erano entrambe giuridicamente e moralmente assai più giustificabili: si trattava, infatti, di far rispettare il diritto all’autodeterminazione di molti milioni di cittadini austriaci e cecoslovacchi di etnia tedesca.

Ah, dimenticavamo: l’odierno unilateralismo americano non nasce da arroganza politica, ma da un sincero umanitarismo: proprio come quello di Federico II. Si tratta di lanciare operazioni militari preventive per la difesa della pace, della sicurezza, della democrazia e, ovviamente, del libero mercato. Si tratta, in ultima istanza, di far trionfare il Bene contro il Male: nobile compito pervaso di afflato mistico e che solo casualmente si sposa con precisi interessi strategici, economici e finanziari.

Niente di nuovo sotto il sole.

Non mancano neanche i piccoli Voltaire di turno, pronti e disposti a magnificare il moderno Federico, la sua “battaglia di civiltà”, la sua visione di un mondo dominato dal progresso, dal benessere e dalla felicità.

Possiamo, dunque, dormire sonni tranquilli: c’è chi veglia su di noi.