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La distruzione dello Stato Sociale attraverso la catastrofe delle liberalizzazioniprivatizzazioni

di movisol - 17/03/2008

Grazie all’analisi di seguito proposta, l’idea per cui le liberalizzazioni e le privatizzazioni portino benefici

all’economia, viene totalmente confutata.

Si dimostrerà che:

1 – le liberalizzazioni portano ad un aumento dei prezzi;

2 – le liberalizzazioni portano alla distruzione di posti di lavoro ed all’abbassamento degli stipendi dei lavoratori e

dei fatturati delle piccole imprese;

3 – la liberalizzazione-privatizzazione dell’impresa pubblica nel periodo 1992-2000 non è stata conseguenza

dell’inefficienza economica;

4 – i processi di liberalizzazione-privatizzazione non hanno minimamente migliorato la capacità produttiva italiana;

5 – le liberalizzazioni favoriscono i concentramenti di capitale in poche ricchissime mani;

6 – il rendimento finanziario delle aziende privatizzate è stato peggiore rispetto alla generalità del mercato

finanziario italiano.

Il processo di liberalizzazioni-privatizzazioni prese avvio in Italia nel 1992. La motivazione ufficiale che portò a questa

fase di stravolgimento degli assetti proprietari dell’impresa pubblica nazionale fu quella dell’elevato debito pubblico

che andava ridotto. A ciò si aggiungeva e si legava, la questione di una maggiore “libertà” del mercato, con cui la

preminente presenza pubblica in settori strategici e non, confliggeva. Questa stagione prese avvio in concomitanza ad

alcuni fatti che resero caldissima la situazione politica e sociale italiana: 1) l’operazione giudiziaria “Mani pulite”, che

stravolse completamente il quadro politico italiano portando alla sostanziale sparizione dei partiti che costituivano il

cosiddetto Pentapartito; 2) gli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino; 3) l’attacco alla lira ed alle altre valute europee

da parte di alcuni insider guidati dallo speculatore George Soros, che portarono ad una forte svalutazione delle stesse ed

alla conseguente distruzione del Sistema Monetario Europeo (SME).

Nel gennaio del 1993 l’Executive Intelligence Review pubblicò un documento intitolato “La strategia anglo-americana

dietro le privatizzazioni italiane: il saccheggio di un’economia nazionale1. In quello studio, inviato ad alcuni organi di

stampa, alle forze politiche ed alle istituzioni, si delineava un quadro preoccupante di attacco all’economia italiana nel

contesto della cosiddetta “globalizzazione dei mercati”, cioè la realizzazione di un unico sistema economico mondiale

in cui non vi sarebbe stato più alcun controllo sui movimenti e sulla creazione di capitali. In quel documento si riferiva

di un episodio passato inosservato, e che invece rivestiva una grandissima importanza. II 2 giugno 1992 si svolgeva una

riunione semisegreta2 tra i principali esponenti della City, il mondo finanziario londinese, ed i manager pubblici italiani,

rappresentanti del Governo di allora e personaggi che poi sarebbero diventati ministri o direttori generali nei Governi

Amato, Dini, Ciampi, Prodi, D’Alema (ma anche Berlusconi, per quanto riguarda la centrale figura di Mario

Draghi). Oggetto di discussione: le privatizzazioni.3 Questa riunione si tenne a bordo del panfilo della Corona inglese,

il “Britannia4.

Alla luce di quanto il complesso finanziario-mediatico-politico va oggi chiedendo – le liberalizzazioni-privatizzazioni

appunto – possiamo individuare almeno due fasi di questo progetto che possiamo chiamare “Operazione Britannia”: la

prima fase si occupò della svendita5 dell'Iri, di Telecom Italia, Eni, Enel, Comit, Imi, Ina, Credito italiano, Autostrade,

l’industria siderurgica ed alimentare pubblica; la seconda fase – in corso di attuazione – punta invece al settore della

previdenza, della sanità, dei trasporti (ferrovie, trasporto pubblico di linea, trasporto navale, taxi), a quello delle utilities

(aziende municipalizzate nei settori acqua, elettricità, gas) e ad altre funzioni di rilievo pubblico.

Se al livello dell’economia nazionale l’“Operazione Britannia” mette nelle mani di poche ricchissime famiglie ciò che

prima era pubblico, con la dannosa conseguenza di diminuire le entrate dello Stato, i posti di lavoro e dunque il monte

salari, creando così le condizioni per “riformare” in senso peggiorativo e non costituzionale il welfare (sanità,

pensioni, giustizia, istruzione, ecc.), è sul superiore livello strategico internazionale che troviamo il grilletto che ha

portato all’accelerazione di questa distruttrice fase della storia dello Stato sociale moderno. Attraverso la

finanziarizzazione dell’economia mondiale, interi settori dell’economia reale vengono “cooptati” dal grande banco da

1 http://www.movisol.org/draghi4.htm.

2 Recentemente il Presidente Francesco Cossiga, l’ha definita “semi-cospirativa”, www.adusbef.it/consultazione.asp?Id=6304&T=P.

3 E’ curioso notare che i parlamentari che fecero interrogazioni su quell’inchiesta e chiesero notizie, non furono più ricandidati. Me lo diceva una

di loro, Michele Rallo di An, all’epoca deputato e componente della commissione parlamentare finanziaria. Si vede che occuparsene portava sfiga.

M. Veneziani, Libero, 30 gennaio 2006. Tutto l’articolo è visualizzabile a http://ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=2008.

4 Da notare dunque che una riunione che riguardava la situazione economica italiana venne tenendosi su territorio inglese, in quanto il panfilo batteva

bandiera britannica.

5 Si deve parlare di svendita perché la vendita dell’industria nazionale avvenne dopo l’attacco speculativo alla lira italiana del settembre ’92 e che

portò la moneta italiana a svalutarsi di circa il 30%. Quelle aziende furono dunque acquistate ad un valore inferiore di almeno il 30%. Anche su

questo evento, che non deve essere considerato accidentale ma come rientrante in una strategia coordinata, il Movimento Internazionale per i diritti

civili – Solidarietà fece un esposto in sede giudiziaria; http://www.movisol.org/soros1.htm.

Movimento Internazionale per i diritti civili – Solidarietà

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gioco della finanza globale che per non crollare su sé stessa necessita continuamente di essere rifinanziata6. Una grande

“catena di Sant’Antonio” a livello globale, dove il gioco finisce quando l’ultimo della catena resta col cerino in mano,

svelando che si è trattato di un grande bluff dove i valori finanziari espressi non esprimevano vera ricchezza reale.

Quando liberalizzare serve solo a creare monopoli privati

Sono sotto gli occhi di tutti, eppure si fa fatica a prenderne coscienza, gli effetti delle liberalizzazioni-privatizzazioni.

L’incapacità dell’uomo moderno a valutare i fenomeni per quello che sono è dovuta ad uno snaturamento della persona

umana che da essere cognitivo e creativo è stata addormentata e limitata ad essere un soggetto meramente percettivo

senza una propria capacità critica. Il complesso culturale dice che la neve è nera, e per la stragrande maggioranza delle

persone la neve è nera.

La normativa di liberalizzazione in materia di commercio stilata durante gli anni ’90 – con particolare riguardo

all’eliminazione dei vincoli di distanza per l’apertura di un’attività commerciale7 – ha di fatto rappresentato la porta

d’ingresso a poche grandi catene commerciali che si sono impossessate del 70% del mercato. Ciò ha comportato la

moria delle piccole attività commerciali, i cui fondi su strada si sono trasformati o in locali sfitti o in piccole abitazioni.

Secondo il Rapporto 2006 Unioncamere il fatturato del commercio per le piccole attività è stato nel 2003 di -2,8%,

nel 2004 di -2,9% e nel 2005 di -2,4%, mentre per la grande distribuzione è stato nel 2003 di +3,5%, nel 2004 di

+2,1% e nel 2005 di +1,6%. Il Rapporto 2007 sulla Natalità e mortalità delle imprese italiane rincara la dose

affermando:

Il tasso di crescita del trimestre (+0,25%), il più contenuto degli ultimi otto anni con riferimento al periodo

giugno-settembre, è frutto di una natalità sostanzialmente in linea con gli anni passati (+1,36%) e di una

mortalità che, nel trimestre scorso, ha fatto registrare il record negativo dal 2000 (+1,12%)… la selezione

'darwiniana' innescata dai processi di globalizzazione dei mercati sta operando in profondità sulle imprese più

piccole, più isolate e prevalentemente localizzate al Sud. Diventa fondamentale, quindi, l’intervento delle

istituzioni … per accompagnare questo percorso e non disperdere l'importante patrimonio di abilità delle

piccole imprese italiane.8

Sempre da Unioncamere si ricava per il 20079 – nonostante i comunicati stampa cerchino di annebbiare la negatività

della situazione ricostruita, con titoli positivi – che nel giro di un anno sono chiuse 390.209 imprese (oltre il 5% del

totale) con un differenziale natalità/mortalità comunque in crescita dello 0,75% (in brusca frenata rispetto all’1,21% del

2006) e che sarebbe però un dato negativo senza le nuove 54.463 società di capitali. Le piccole aziende, quelle

rappresentate dalle società di persone e dalle ditte individuali, infatti hanno registrato saldi negativi: -13.726 le ditte

individuali del 2007 rispetto al 2006 e -341 le società di persone. Ciò vuol dire che l’imprenditore non se la sente più di

rischiare di essere responsabile nei confronti dei terzi anche con il proprio patrimonio personale, vista la facilità di

incorrere in un fallimento aziendale e preferisce puntare sulla più sicura forma giuridica della società di capitali che

limita la responsabilità patrimoniale al solo patrimonio sociale. Ciò però fa già selezione censuaria ab origine: le società

di capitali hanno infatti l’obbligo di dotarsi di un capitale sociale minimo stabilito per legge, cosa di cui invece non vi è

bisogno per le ditte individuali e per le società di persone. Ed il dato risulta essere ancor più negativo se si considera che

il saldo delle piccole imprese intestate ad extracomunitari è aumentato di 16.654 unità, grazie soprattutto a immigrati

provenienti da Cina, Marocco ed Albania. Dunque, senza conteggiare l’imprenditorialità extracomunitaria, il saldo delle

ditte individuali intestate a cittadini dell’UE in Italia risulta negativo per -29.970 unità (con prevalenza nei settori

dell’agricoltura, del commercio, delle manifatture e dei trasporti). La cosa non può non preoccupare in quanto si tratta

di imprese a minor valore aggiunto dove il più basso tasso di rendita imprenditoriale è accettato a causa del più umile

tenore di vita a cui sono abituati questi imprenditori stranieri.

Ovviamente se è positivo il fatto che immigrati facciano imprenditorialità nel Paese che li ospita, la lettura puntuale dei

dati fa comprendere come il sistema Italia si sia indebolito ulteriormente anche nel 2007.

Più genericamente, la metà delle aziende chiude entro il sesto anno di attività10.

L’istanza demagogica utilizzata per rendere meritoria agli occhi della popolazione la nuova normativa di

liberalizzazione, era quella per cui tutti dovevano avere il diritto di trovare sotto casa il negoziante di scarpe piuttosto

6 Durante il World Economic Forum tenutosi a Davos nel gennaio scorso l’economista Nouriel Roubini ha affermato che l'attuale crisi finanziaria è

sistemica, e che la politica di creare bolle speculative non potrà più funzionare. Questo genere di denuncia è elemento portante nella concezione

economica dello statista americano Lyndon LaRouche, il quale è oramai decenni che avverte sull’inevitabile distruzione degli stati-nazionali, alla luce

del paradigma dominante l’odierna economia mondiale.

7 In seguito al decreto Bersani d. lgs. 114/98, gli enti territoriali hanno proceduto a modificare la normazione in materia di commercio. Nel solo

biennio e 2000-2002 si è assistito in Lombardia ad un aumento del 25%, in termini di presenza, delle grandi catene distributive;

http://www.provincia.mantova.it/att_produttive/piano/allegato2.pdf. Si può verosimilmente pensare per le piccole attività commerciali ad una

riduzione dei ricavi, tenendo anche conto della contrazione della capacità di consumo della popolazione italiana. Si precisa che questo dato è relativo

al solo biennio 2000-2002.

8 http://www.infocamere.it/doc/3_2007c.pdf.

9 Si vedano i due seguenti rapporti: http://www.unioncamere.it/images/stories/documenti/doc/allegati2/Comunicati_stampa/com_extraue_2007.doc e

http://www.infocamere.it/doc/2007c.pdf.

10 http://www.lavoce.info/articoli/pagina404.html.

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che di giocattoli. La normativa parlava di “una più capillare distribuzione dei prodotti sul territorio”. I prodotti invece

hanno finito col concentrarsi in centri commerciali che hanno sostanzialmente preso il monopolio del mercato.

Ovviamente di necessità di “una più capillare distribuzione dei prodotti sul territorio” ora non se ne parla più!

E’ poi assolutamente falsa l’idea per cui le liberalizzazioni portino ad un abbassamento dei prezzi. Mentre infatti

le tariffe sono cresciute meno dei prezzi al consumo, i prezzi dei beni e dei servizi liberalizzati sono cresciuti

costantemente più delle tariffe e dei prezzi al consumo.

2002 2003 2004 2005 2006

Aumento tariffe (al

netto energetici)

+0,1 +0,9 +0,9 +1,5 +1,6

Aumento beni e

servizi liberalizzati

(al netto energetici)

+3,8 +3,6 +2,6 +2,0

+1,9

Prezzi al consumo +2,5 +2,7 +2,2 +1,9 +2,1

Fonte: Ministero dell’Economia e delle Finanze, L’economia italiana nel 2006, pag. 35.

La considerazione solitamente fatta è quella per cui, aprendo il mercato, aumentando l’offerta, i prezzi devono

inevitabilmente scendere. In teoria dovrebbe funzionare proprio così, ma nella realtà dei fatti, non essendo possibile una

concorrenza pura – tanto di meno se lasciata alle libere dinamiche di mercato – gli operatori più forti finiscono col

“mangiare” gli operatori più deboli. Così se in una primissima fase la liberalizzazione produce aumento dell’offerta e

diminuzione dei prezzi di erogazione del prodotto o servizio, già nel breve periodo si assiste a fenomeni di acquisizione

da parte degli operatori più forti di quelli più piccoli, venendosi così a creare oligopoli (o addirittura monopoli),

diminuendo così la concorrenza; a quel punto i prezzi tornano vorticosamente a salire. Ecco che i mercati che

storicamente si sono dimostrati più efficienti sono quelli regolarizzati tenendo presente, come di fatto è nello spirito

della nostra Costituzione, 1) il lavoro, 2) la qualità del servizio e prodotto erogato, 3) l’accessibilità al consumo. Non è

infatti verosimile pensare che non tutelando primariamente i punti 1) e 2), al consumo possa derivare alcun vantaggio

reale.

La normativa di liberalizzazione in materia di locazioni abitative, anch’essa stilata durante gli anni ’90 – con

particolare riferimento alla l. 431/98 – ha fatto sì che i canoni d’affitto schizzassero alle stelle. Qui l’istanza demagogica

utilizzata fu quella per cui non era giusto che il piccolo risparmiatore che per una vita aveva messo del denaro da parte

per comperarsi una seconda casa, non potesse utilizzarla per la figlia appena coniugatasi, per causa di un’esosa

normativa a tutela degli affittuari a cui erano concessi troppi anni di godimento dell’immobile prima dell’esecutività

dello sfratto, e per di più pagando canoni troppo bassi. A causa di ciò, si diceva, la gente preferiva tenere sfitto

l’immobile. Si fece allora passare l’idea che liberalizzando la normativa, gli immobili da affittare presenti sul mercato

sarebbero aumentati, ciò comportando la riduzione dei canoni. E’ ovviamente successo l’esatto contrario.

Questi due esempi di normazione liberalizzatrice sono sintomatici di come le politiche di liberalizzazione inneschino

meccanismi che portano al rafforzamento delle posizioni delle categorie più forti.

Si tratta di un fenomeno presente anche in natura. Si pensi ad un bosco con vegetazione fittissima. Difficoltoso sarà il

sorgere della vita animale di una certa dimensione, e dunque appetibile. Si pensi però anche alla savana, dove la scarsa

formazione vegetale è di ostacolo al proliferare delle forme animali più deboli e dove a fare da padroni sono gli animali

più forti. Infine si pensi a quell’ambiente dove le formazioni vegetali sono a distanze tali da non soffocarsi l’una con

l’altra, tali da consentire il passaggio della luce, e dove dunque ogni formazione animale ha possibilità di svilupparsi in

armonia con le più piccole che trovano difesa e rifugio grazie alla vegetazione.

Altrettanto, un’iperburocratizzazione dei rapporti economici impedisce lo sviluppo dell’economia, ma l’eliminazione di

fatto di ogni regola, la deregulation, fa sì che solo gli operatori più forti possano restare sul mercato. Ecco che ciò di cui

vi è bisogno per far funzionare le cose in funzione del bene comune, è una migliore regolamentazione dei rapporti, di

modo che ogni genere di operatore possa avere diritto a restare sul mercato in modo dignitoso.

Le privatizzazioni in Italia dal 199211

Per quale motivo agli inizi degli anni ’90 il tema principale della politica italiana divenne “privatizzare la pubblica

impresa”?

Inizialmente la motivazione addotta era il forte debito pubblico e dunque la necessità di ridurlo. Gli interessi negativi

che su di questo maturavano, rappresentavano (ed ancor oggi rappresentano) un gravoso peso per l’economia del nostro

Paese. Tuttavia si consideri che dalle privatizzazioni il capitale racimolato fu, tra il ’92 ed il 2000, di 198.000 miliardi di

lire (di questi, 87 mila miliardi sono relativi a privatizzazioni12 propriamente dette, di cui oltre 55 mila miliardi ad

11 Le privatizzazioni in Italia dal 1992, 2000, Commissione bilancio della Camera dei Deputati. E’ questo il titolo dello studio parlamentare ad hoc sul

processo di privatizzazioni in Italia. Da qui in poi il virgolettato sarà usato per i riferimenti testuali allo studio parlamentare.

12 Lo stesso studio parlamentare distingue tra “privatizzazioni” e semplici “smobilizzi”. “… si indicheranno come “smobilizzi” le vendite di quote di

partecipazione in società (qualunque sia la loro misura), di rami aziendali e di cespiti; il termine “privatizzazioni” sarà invece usato per indicare la

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aziende industriali). Il debito pubblico italiano nel 2000 era di 2.500.000 di miliardi di lire. Il debito pubblico dunque

è stato ridotto appena del 7,92%. Tuttavia quel “ridotto” non corrisponde a verità se si considera che tra le aziende

pubbliche vendute vi erano vere e proprie perle del capitalismo italiano (Comit, Credit, IMI, ma anche Eni, Enel,

Telecom). Per cui se nell’immediato si sono avute delle entrate, fra l’altro irrisorie, per il futuro le scelte politiche hanno

privato lo Stato di importanti entrate di cassa, nonché di assetti industriali che rappresentavano la spina dorsale

dell’economia pubblica nazionale e del sistema di welfare che in parte si reggeva su essa.

Non risultando credibile la prima motivazione addotta alla “necessità” del processo di liberalizzazione-privatizzazione

che si intendeva avviare, la motivazione ufficiale a giustificazione delle privatizzazioni divenne successivamente quella

di favorire un azionariato diffuso. Tuttavia anch’essa cadde di fronte alla realtà dei fatti. “Le privatizzazioni industriali

realizzate con acquirenti italiani si sono caratterizzate per il collocamento di due terzi delle azioni presso singoli

investitori (o loro “cordate”) e per il residuo sul mercato; relativamente agli acquirenti esteri, invece, la quota dei singoli

è stata del 71% e quella del mercato del 29%.”

Si può dunque rilevare immediatamente come il controllo dei cespiti industriali sia sostanzialmente passato

dall’operatore pubblico a quello privato. La diffusione tra i piccoli risparmiatori ha riguardato soltanto un terzo

del capitale sociale immesso sul mercato. Per cui non può reggere la tesi per cui lo scopo primario delle

privatizzazioni fosse quello di attuare un passaggio dalla mano pubblica al pubblico risparmio.

Anche questa seconda motivazione si dimostrò palesemente contrastare con la realtà dei fatti.

L’ultima giustificazione ufficiale alle privatizzazioni divenne allora quella di consentire il rafforzamento della grande

industria italiana che doveva essere messa in condizione di affrontare e sostenere la competizione internazionale, al fine

di consolidare gli assetti produttivi e occupazionali nazionali. A questo riguardo i casi Eni e Telecom sono sintomatici

del fatto che pure queste motivazioni siano state pretestuose e mendaci. Eni per esempio dal ’92 al ’96 ha ridotto il

personale del 33,5%, rendendo più inefficiente la gestione produttiva. A fronte di una riduzione dell’1,9% del costo del

lavoro, i costi operativi sono comunque aumentati passando dal 72,6% al 73% dei ricavi.13

Anche tutte le altre aziende privatizzate hanno proceduto a tagli occupazionali e gli assetti produttivi, che già sotto la

gestione pubblica erano molto efficienti, non ne hanno tratto giovamento di sorta. “All’incirca, metà delle imprese ha

registrato un miglioramento e metà un peggioramento o una variazione pressoché nulla.”

Le privatizzazioni italiane che vanno dal 1991 al 2000 sono caratterizzate dal fatto che pur passando sotto ben dieci

Governi, sono però state tecnicamente guidate da un’unica figura: l’attuale governatore della Banca d’Italia, Mario

Draghi, direttore generale del Tesoro fino al 2001.

Già “nel periodo 1991-1999, l’economia italiana ha registrato uno sviluppo più contenuto di quello medio dei

Paesi Ocse”. Tale differenziale di crescita, come è noto, persiste ancora oggi. Si può poi affermare che la capacità

di crescita economica del nostro Paese si è ridotta del 67% dal 1991. Il seguente grafico chiarirà la questione.

cessione al settore privato (singoli acquirenti o mercato finanziario) del controllo di una società o di un ramo aziendale. Conseguentemente,

un’impresa viene considerata privatizzata se e quando lo Stato, direttamente o indirettamente, non ha più il potere di nominare l’amministratore

delegato (pur mantenendo “poteri speciali”, la cosiddetta golden share). Questa definizione porta quindi ad escludere dal novero delle privatizzazioni

talune importanti imprese, quali ENI ed ENEL, AEM ed ACEA, per le quali il processo di cessione ai privati non è completato oppure non è

previsto.” Ibidem, pag. 22.

13 Questi dati sono stati rilevati da http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=21&var.

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La linea continua discendente, media i valori della produzione industriale dal 1991 ad oggi. Da essa si rileva come se

nel 1991 tale valore fosse mediamente dell’1,5%, oggi è intorno allo 0,5%. Dunque, in oltre un quindicennio di

politiche liberiste, la capacità di crescita della produzione industriale italiana è diminuita di due terzi. A smentita

delle tesi liberiste, questa capacità di crescita è stata in ripresa dall’inizio del 2002 alla fine del 2006, quando le

politiche di spesa, soprattutto per infrastrutture, sono state più espansive, mentre è precipitata nel 2007, quando la

politica del rigorismo finanziario ha ripreso piede.

“Le operazioni del Tesoro italiano hanno contraddistinto dei massimi a livello mondiale: la prima tranche dell’ENEL

nel 1999 ha segnato il record per un’IPO14 sui mercati occidentali, mentre la vendita della Telecom Italia è stata la

maggiore OPV [offerta pubblica di vendita] mondiale che ha condotto ad una privatizzazione15”.

Si può dunque tranquillamente affermare che l’approccio seguito per l’attuazione di questo processo di liberalizzazioniprivatizzazioni,

sia stato radicale. I governi italiani – ma forse è più corretto dire Mario Draghi – hanno dimostrato una

capacità a saper raggiungere l’obiettivo senza tanti fronzoli. Una vera e propria terapia d’urto16. Se con la stessa

decisione con cui si è lavorato per portare dalla mano pubblica (o da moltissimi ma piccoli portatori d’interesse) a

pochissime mani private una fetta importantissima del p.i.l., si lavorasse per ridare sviluppo all’economia nazionale e

ridare esecuzione all’art. 3, 2° co. della Costituzione, la vita dei cittadini italiani non avrebbe niente a che fare con

l’attuale no future generation.

I singoli casi aziendali

La prima fase di privatizzazione dell’Eni si ha nel 1995, dopo che l’azienda, sotto la gestione pubblica, registrò un

utile record di 3.215 miliardi di lire.

L’Eni cedette “numerosi rami aziendali operanti nell’industria chimica, ma non interessanti a quella specifica area del

business chimico individuato dall’impresa come core.”

“L’Eni ha considerato il programma come una semplice selezione del proprio portafoglio di business. L’obiettivo è

stato quello di realizzare un nuovo assetto industriale ‘atto ad accrescere il valore complessivo del Gruppo pervenendo

ad una struttura economico-finanziaria in linea con le altre compagnie petrolifere’; tale obiettivo è stato perseguito

attraverso un programma che prevede la dismissione mediante cessione delle attività economicamente valide con deboli

legami di integrazione con le attività fondamentali dell’Eni. L’Eni ha considerato concluso questo programma nel

dicembre 1998 …”.

Questa azienda è stata dunque privatizzata pur non rappresentando un “carrozzone” per la finanza pubblica,

ma una vera e propria fonte di entrate costanti.

14 Initial Public Offering (offerta pubblica di vendita di azioni di prima quotazione).”

15 “Il record per uno smobilizzo spetta all’OPV realizzata nel novembre 1987 con azioni della giapponese NT&T, la quale tuttavia è ancora oggi a

controllo pubblico.”

16 E’ questa la definizione usata dal prof. Jeffrey Saschs, quando come dirigente del Fondo Monetario Internazionale, prese le redini del processo di

trasformazione delle economie ex socialiste in Europa, in economie di libero mercato.

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Oggi il Ministero dell’economia detiene il 20,31% di Eni ed attraverso la Cassa depositi e prestiti Spa (CDP Spa) un

altro 9,99%. Tuttavia di quest’ultima detiene il 70%, mentre il restante 30% è suddiviso tra una pletora di fondazioni

bancarie. Se ne può quindi evincere che dei proventi di Eni allo Stato resta soltanto una partecipazione di circa il

27%.

Nel 1992-93 l’Iri chiude il bilancio consolidato con una perdita di oltre 16 mila miliardi. “In un primo tempo [però]

l’ex-ente tentò di riqualificarsi con un core business centrato sulle infrastrutture di rete e in attività a tecnologia

avanzata, [ma in un secondo momento] la sua missione venne ridefinita secondo criteri tipicamente liquidatori. Nel

1993 fu siglato l’accordo cosiddetto ‘Andreatta-Van Miert’ che richiedeva un forte ridimensionamento dei debiti

entro la fine del 199617. Nel giugno 1997 il Tesoro indicò all’Iri due sole aree di attività: la gestione delle liquidazioni

già avviate e le privatizzazioni.” Quindi in un primo tempo l’idea della classe dirigente era quella di recuperare l’Iri; in

un secondo tempo divenne invece quella di liquidarla e privatizzarla.

E’ interessante rilevare che Beniamino Andreatta il 2 giugno del 1992 si trovava sul panfilo Britannia e che nel 1993

era Ministro degli Esteri. Karel Van Miert invece tra il 1993 ed il 1994 è stato membro della Commissione europea

responsabile della politica della concorrenza, del personale e amministrazione, della traduzione e dell’informatica;

successivamente è divenuto membro del collegio sindacale di Vivendi, amministratore di Agfa-Gevaert NV (2006),

Anglo American plc, De Persgroep, Royal Philips Electronics NV, Solvay S.A., Münchener Rück, RWE AG, Sibelco

N.V., società molte delle quali sono operanti nel settore minerario e chimico, settori nei quali l’Iri operava. Van Miert

dunque dopo aver proceduto ad un accordo col Governo italiano in merito a settori economici operanti, tra gli altri,

nei settori minerario e chimico, otterrà una serie di incarichi da parte di primarie aziende operanti negli stessi settori.

Il rapporto della Commissione bilancio precisa che “sia l’Iri che l’Eni avevano messo mano già prima del 1992 ad una

selezione del loro portafoglio. L’Eni aveva individuato il core business nelle aziende facenti parte del ‘sistema integrato

degli idrocarburi’ stabilendo di conseguenza le attività non risanabili e quelle che era opportuno cedere. L’Iri aveva

invece avviato da tempo un processo di smobilizzi che aveva generato ricavi di una certa consistenza (circa 20 mila

miliardi nel decennio 1982-92).” Tuttavia non bisogna confondere: le due aziende pubbliche prima del ’92 avevano

avviato processi di rafforzamento industriale passante per la cessione di alcune “braccia” ritenute di peso all’intero

corpo aziendale. Dopo il ’92 la strategia cambia radicalmente: è l’intero corpo aziendale che da pubblico diviene

sostanzialmente privato.

Dunque se la classe dirigente della “Prima Repubblica” puntò a riqualificare il ruolo dell’azienda pubblica, la classe

dirigente della “Seconda Repubblica” si adoperò per dismetterla in favore di gruppi d’interesse privati.

Nel 1992 viene posta in liquidazione pure l’Efim. “Le principali operazioni hanno riguardato la vendita per 450 miliardi

di lire del comparto alluminio al Gruppo Alcoa … Le attività del Gruppo Efim nei settori difesa e aerospaziale e

ferroviario sono state invece trasferite alla Finmeccanica.”

“Per dimensione di occupati, le imprese delle quali lo Stato ha ceduto il controllo appartengono principalmente ai settori

delle telecomunicazioni, della siderurgia, della meccanica-elettronica, dell’alimentare e delle infrastrutture.”

Purtroppo i beneficiari di tali smobilizzi si sono rivelati inefficienti, pur operando in un regime di mercato in mani

private. Nel settore siderurgico Thyssen-Krupp e Lucchini sono più volte finite alla ribalta delle cronache giudiziarie

per le difficoltà avute in ambito finanziario e nell’attuazione delle normative a tutela dei lavoratori. Nel settore

alimentare il gruppo Cirio-Cragnotti creato ad hoc (e dunque non già operante nel settore) e Parmalat, hanno

beneficiato delle dismissioni delle aziende pubbliche, ma sono finite sotto procedura di fallimento o amministrazione

controllata. Il gruppo Benetton ha beneficiato invece della dismissione di Autostrade, non rispettando gli impegni

presi per il mantenimento e lo sviluppo della rete stradale: “75 per cento in meno di investimenti, diminuzione delle

spese di manutenzione e del numero degli occupati”18.

Dallo studio della Commissione bilancio emerge ad un primo rilievo quali sono stati i risultati finanziari in termini di

debito pubblico indotto dal 1950 al 2000 prodotto da Iri, Eni, ed Enel.

17 “Secondo l’accordo, il debito doveva essere ricondotto a ‘livelli fisiologici, cioè a livelli accettabili per un investitore privato operante in condizioni

di economia di mercato’”.

18 http://www.carta.org/rivista/settimanale/2004/12/12Calabria.htm.

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Iri, Eni ed Enel: debito pubblico indotto 1950-2000

Un’entusiasta del liberismo, rileverebbe immediatamente che il processo di privatizzazione è stato senza ombra di

dubbio positivo, in quanto ha liberato la finanza statale di una zavorra molto pesante. La parte finale del grafico, infatti,

pare sentenziare in tal senso. Il grafico però non ci racconta i perché di un processo, ma correlato con le necessarie

conoscenze aiuta a comprendere meglio la vera storia di quelle aziende. Comunque, il grafico stesso basterebbe per

porsi alcuni quesiti: se è ovvio che dal 1995, dunque in seguito all’avvio del processo di privatizzazione, il debito

indotto è andato scemando, perché la curva del debito comincia ad innalzarsi solo a partire dagli anni ’70, con

un’accelerazione dall’inizio degli anni ’80, e con risultati invece positivi nel ventennio precedente il 1970?

Per comprendere le motivazioni profonde di questa vicenda, dobbiamo concentrare la nostra attenzione sulle scelte di

politica strategica fatte a livello nazionale ed internazionale.

In seguito all’assassinio di Enrico Mattei (1962) il nostro Paese interrompe la politica filo-industriale e per

l’infrastrutturazione che aveva caratterizzato la strategia economica dopo l’avvio del piano Marshall. Il 15 agosto del

1971 per decisione unilaterale di Richard Nixon, vengono abbattuti gli accordi di Bretton Woods che fondati sulla

convertibilità del dollaro in oro, sulla fissità dei cambi tra le valute (oscillabili solo all’interno di una forbice del +/-

2,5%) e su un “codice d’onore”, aveva sino a quel momento garantito la stabilità del sistema monetario, finanziario ed

economico mondiale. Successivamente a tale iniziativa, seguita nel marzo del ’73 dai paesi europei, scoppia la crisi

petrolifera. Questi tre eventi (quello del ’71, quello del ’73 e lo “shock petrolifero”) sono uno correlato all’altro.

A metà degli anni ’70 l’Italia entra sotto la supervisione del Fondo Monetario Internazionale. Politiche di tagli

alla spesa pubblica, di riduzione dell’import ed aumento dell’export, di apertura delle frontiere alla circolazione dei

capitali, caratterizzeranno la politica del Fmi per oltre trent’anni, sempre con i medesimi risultati: la distruzione della

capacità produttiva, la distruzione dello stato sociale, la riduzione della capacità d’acquisto reale delle fasce medie e

basse di reddito. Queste esperienze verranno ripetute dal Fondo in America Latina e nel Sud-est asiatico. I risultati

saranno però sempre gli stessi.

Nel 1981 su presumibili pressioni della comunità finanziaria internazionale, l’Italia procede alla cosiddetta

“denazionalizzazione” della Banca d’Italia. La banca centrale viene nettamente separata dal Ministero del Tesoro, in

ossequio al dogma liberista della necessaria indipendenza dell’istituto bancario. Così i tassi di sconto sul debito

pubblico non sono più decisi dallo Stato, ma dal mercato. Così se nel ventennio precedente si era proceduto a

distruggere parte della capacità produttiva del Paese, nel 1981 viene piantata la radice dello scoppio del debito pubblico

italiano, che negli anni successivi rappresenterà il pretesto per la progressiva distruzione dello stato sociale in Italia.

Lo studio parlamentare sulle privatizzazioni afferma:

[…] il saldo di cui sopra [7500 miliardi di lire] è in buona sostanza il risultato della differenza tra il

rilevante indebitamento generato dalla siderurgia (26.500 miliardi circa) e il consistente rimborso reso

possibile dalla vendita delle telecomunicazioni (20.600 miliardi circa); rammentando quanto esposto nel

paragrafo precedente, occorre dunque concludere che, in primo luogo, l’effetto più importante sul debito

pubblico è venuto dalla cessione delle quote di minoranza di Eni ed Enel, più che dalle privatizzazioni; in

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secondo luogo, queste ultime paiono essere servite più a trasferire responsabilità di gestione che a raccogliere

finanza con cui rimborsare debito pregresso.

Pur concordando con tali affermazioni, che possiamo riassumere affermando che le liberalizzazioni-privatizzazioni

non hanno fatto altro che consentire il trasferimento di ciò che prima era in mano pubblica – dunque di

proprietà dei cittadini attraverso lo Stato – ad alcune poche mani private, da un punto di vista strategicoeconomico,

in merito alla forza strutturale di lungo termine, le privatizzazioni hanno prodotto anche il nefasto risultato

di segnare per il nostro Paese forse l’ultimo passo del processo di deindustrializzazione avviato un trentennio prima. Per

comprendere il salto qualitativo fatto con il 1992, si potrebbe dire che si è passati da un generale processo di

deindustrializzazione anche ad uno specifico processo di destatalizzazione.

Con lo slogan per cui ‘il pubblico non funziona ed il privato funziona meglio’, si sono messi nelle mani di alcuni

privati, importanti settori strategici come quello bancario ed assicurativo, delle telecomunicazioni, siderurgico ed

alimentare. Il processo oggi mira a radicalizzare questa privatizzazione anche sul fronte energetico e di altri importanti

settori pubblici di rilievo sociale (previdenza, sanità, istruzione, trasporti).

Finora questi privati non hanno saputo fare meglio del pubblico, anzi hanno inciso sull’economia fisica in modo

decisamente negativo, tagliando posti di lavoro e chiudendo impianti produttivi.

Infine, affermare che il processo di liberalizzazione-privatizzazione ha riguardato primariamente l’industria

pubblica in difficoltà è un falso, in quanto il 64,8% delle aziende privatizzate appartiene ai settori bancarioassicurativo

e delle telecomunicazioni19, finanziariamente remunerativi già sotto la gestione pubblica.

Un caso emblematico che butta giù la maschera: IMI

L’operazione di privatizzazione dell’Istituto Mobiliare Italiano è la meno conosciuta al pubblico. L’IMI ha storicamente

assunto un ruolo strategico all’interno del sistema economico italiano dal dopoguerra ad oggi. Essa, infatti, non era una

banca con sportelli quanto piuttosto un operatore creditizio dedito soprattutto ai finanziamenti a medio e lungo termine

alle imprese (è la Banca Fideuram, sua società controllata, a rappresentare il gruppo sul versante retail).

Nata nel 1938, ha assunto col tempo maggior importanza, in particolare all’interno dei programmi internazionali di

recupero delle economie distrutte dalla seconda guerra mondiale. Successivamente ha operato soprattutto nel settore dei

finanziamenti a grandi progetti industriali, nel sostegno alle piccole e medie imprese e nel finanziamento dei progetti

riguardanti il Mezzogiorno20, attraverso una politica finanziaria di reperimento fondi, centrata sull’emissione di

obbligazioni e certificati di deposito.

La privatizzazione dell’IMI non è sicuramente avvenuta per inefficienza gestionale, in quanto essa registra oltre

60 anni di bilanci positivi; nel 1992 l’esercizio si è chiuso con un attivo di 443 miliardi di lire, il 30 settembre 1993

risultavano 376 miliardi di utili con una previsione per l’esercizio di oltre 500 miliardi di lire.

L’IMI poteva dunque essere considerata come uno dei gioielli del patrimonio pubblico italiano.

Fino al 1994 il 50% del capitale della società era posseduto direttamente dal Ministero del Tesoro, mentre il 9,27% era

posseduto indirettamente attraverso la partecipazione della CONSAP (Società posseduta Integralmente); inoltre il

3,22% del capitale era degli enti INAIL e INPS21. Queste partecipazioni in una società che genera costantemente

utili volevano dire in concreto entrate costanti per il welfare. In seguito alla vendita della terza tranche, “il Tesoro

possedeva ancora 6.796.285 azioni dell’IMI, pari all’1,13% del capitale sociale. Tale quota è diminuita a seguito

dell’assegnazione delle bonus share della prima tranche e per effetto della fusione per incorporazione dell’IMI nel

Gruppo San Paolo22. Se con la vendita della prima tranche il 45,7% del pacchetto azionario immesso sul mercato è

finito in mano straniere, con la vendita della terza tranche a finire in mani straniere è stato il 57,4% del relativo

pacchetto azionario (di cui il 37,2% ad istituti anglo-americani).

Dalla vendita di IMI sono derivati 3208 miliardi di lire per le casse dello Stato. Da ciò se ne desume una

riduzione del debito pubblico di 3208 miliardi di lire, che hanno consentito un risparmio in termini di interessi

negativi di circa 300 miliardi di lire annue. Lo Stato però allo stesso tempo è stato privato di entrate per almeno

300 miliardi di lire annue (il 62% dell’attivo del ’93, essendo questa la percentuale di partecipazione statale nel

capitale sociale di IMI). Che senso ha avuto questa vendita? Non regge evidentemente la questione della riduzione

del debito. E’ pretestuosa e demagogica la motivazione dell’aver favorito il pubblico risparmio. Se l’operatività di IMI

andava a favorire tutto il sistema Paese, la quota di minoranza assoluta passata nelle mani del pubblico risparmio, va a

favorire solo gli intestatari di tali azioni. Formale è pure la considerazione per cui la vendita di IMI ha fatto parte di un

processo di snellimento dei settori tendenti al monopolio, poiché di fatto oggi il settore bancario italiano, (ma non è

diversa la situazione internazionale), è nelle mani di soli due operatori. Quello che è certo è che questa perla

19 Dati Ocse.

20 In riferimento al Mezzogiorno ricaviamo l’ennesima conferma al fatto che con l’inizio degli anni ’70 si sia avuto il giro di boa che ha portato

l’economia italiana (ma più in generale tutta quella occidentale) da un’economia industriale e produttiva ad un’economia post-industriale

(nell’accezione negativa del termine) ed improduttiva. Se infatti il rapporto degli investimenti fatti nel Mezzogiorno e quelli complessivamente fatti in

Italia (attraverso le Partecipazioni Statali) fu in costante crescendo dal ’60 al ’72 passando dal 26% al 54%, successivamente sotto la supervisione del

Fondo Monetario Internazionale scese progressivamente (1974 al 38%, 1975 al 37%, 1977 al 30%, 1979 al 31%, 1980 al 35%).

21 Questi dati si ricavano dal Prospetto informativo IMI, gennaio 1994.

22 Libro bianco sulle privatizzazioni, Ministero del Tesoro, del bilancio e della programmazione economica, 2001, pag. 32.

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dell’imprenditoria pubblica è passata dal controllo dello Stato al controllo di San Paolo, oggi Gruppo Intesa-San Paolo.

L’azionista di maggioranza di Intesa-San Paolo è la Compagnia di San Paolo (7,96%), una fondazione presieduta da

Franzo Grande Stevens, persona vicinissima alla famiglia Agnelli, la quale è a sua volta tra gli azionisti primari del

Gruppo (2,447%).

Tra gli altri azionisti di maggioranza troviamo: la Carlo Tassara S.p.A. (5,896%) (che ancora non ha un proprio sito web

… è in costruzione!) vicina alla famiglia Zaleski (acciaio e finanza), la Crédit Agricole S.A. (5,568%), le Assicurazioni

Generali (5,075%) dove ritroviamo tra gli azionisti di maggioranza la Carlo Tassara S.p.A., la Fondazione Cariplo

(4,680%), Fondazione C.R. Padova e Rovigo (4,602%), l’Ente C.R. Firenze (3,378%), la Fondazione C.R. in Bologna

(2,729%).

Insomma una serie di piramidi azionarie ben incrociate, dove a capo di tutto vi sono le solite fondazioni filantropiche a

finalità non lucrativa, tutte disinteressatamente dedite al finanziamento di eventi culturali e caritatevoli, ed a cui dunque

il legislatore concede di tenere ben nascosti gli associati.

Se questo è il caso IMI, non sono andate diversamente le cose con Comit e Credit, anch’esse in cima alle classifiche

internazionali di redditività.

Nel frattempo i politici si giocano comuni e regioni al casinò23

L’orgia speculativa che si è impossessata dell’economia reale, del lavoro e della vita della gente, si è impossessata pure

delle istituzioni pubbliche. La distruzione dello Stato sociale che va attuandosi per causa della distruzione dell’industria

nazionale e più in generale dell’economia fisica, arriverà alla più ampia distruzione dello Stato nazionale. Infatti, stupidi

e corrotti amministratori pubblici si sono seduti al tavolo da gioco organizzato dall’oligarchia finanziaria operante

attraverso il sistema bancario. I derivati finanziari, ossia quelle scommesse speculative che vedono coinvolte tutte le

istituzioni bancarie del pianeta, hanno invaso i bilanci degli enti pubblici. 900 enti pubblici hanno nel proprio

bilancio strumenti derivati per 10,5 miliardi di euro. Allo stato attuale quelle che dovevano essere operazioni

“assicurative” per allegg