Le feste che esistono da centinaia, migliaia di anni, nelle varie culture, rappresentano uno straordinario patrimonio dell’umanità. Al di là dello specifico messaggio religioso che trasmettono, ci mettono in contatto con le vicende simboliche, ma anche affettive e molto concrete, più importanti della vita umana. Questa settimana, ad esempio, incontreremo tre archetipi fondamentali dell’esistenza. Il convito (giovedì), la passione (venerdì), e la morte-rinascita (da venerdì a domenica).
Dimenticare il significato di questi momenti, o ridurli a segni sul calendario, o ad ore di vacanza, separandole dal loro senso profondo, è una grave perdita, anche affettiva ed emotiva. Evitando di pensare alla passione di Cristo, o a Buddha che medita sotto l’albero, diminuiamo anche la nostra capacità di appassionarci, o di concentrarci. Diventeremo magari più informati sui partecipanti al Grande Fratello, ma saremo, inevitabilmente, più stupidi.
Perché? Perché questi grandi archetipi, rievocati nelle feste, rappresentano dei potenti motori di energie psichiche, individuali, e collettive. La Cena, ad esempio, il Convito greco e latino che mostra l’incontro tra amici, attorno al cibo, con la condivisione di affetti, idee, nutrimento, rimpianti, paure. Anche nell’ultima cena c’è tutto questo: la cura nel prepararla, la comunicazione, la gioia, ed anche la consapevolezza che qualcosa non va bene, che qualcuno, fatalmente, tradirà.
Questo ci costringe a riflettere: ognuno di noi, in realtà, tradisce rispetto all’aspettativa di condivisione piena, totale che l’amico ha verso di noi. Non siamo mai all’altezza del convito, dell’incontro materiale e spirituale con l’altro, tendiamo a sfuggire. Rivivere, festeggiare l’ultima cena del giovedì santo significa anche diventare consapevoli del nostro temere la profondità di un vero incontro.
Poi, c’è questa cosa straordinaria del condividere il pane e il vino, che qui però sono anche il corpo e il sangue dell’amico–Signore. Certo questo è specifico del cristianesimo, l’unica religione dove Dio è anche un uomo, e il rapporto con lui è quindi anche molto materiale, fisico. (Anche i popoli nordici, però, adoravano il salmone, e pregavano prima di ucciderlo per mangiarlo, ed i finnici facevano lo stesso con l’alce).
Però anche il convito ha questo lato forte: l’ospite si dà. Si lascia divorare, si offre, e gli altri se ne cibano. Se non sei disposto a dare, ad offrire molto di te, non puoi organizzare una vera cena. In quanto immagine profonda della condivisione, il convito rimanda a questa offerta totale di sé (che infatti un po’ spaventa gli apostoli), e a questa disponibilità dei convitati ad approfittarne.
Naturalmente, queste immagini possono sembrare molto lontane dalle cene convenzionali, dove la mondanità o l’apparire prevale sul darsi fino in fondo, e l’incontrarsi davvero. Tuttavia, anche leggendo un classico della letteratura “mondana”, come Alla ricerca del tempo perduto, di Marcel Proust, ci accorgiamo che l’ospite davvero perfetto è quello che si dà totalmente, che non nega a nessuno dei convitati la sua attenzione, la sua presenza attenta, la sua partecipazione. Come, del resto, già nei dialoghi platonici.
Certo oggi tendiamo a banalizzare l’incontro, a mantenerlo in superficie. Così facendo però non guadagniamo nulla, lo rendiamo solo più noioso, meno vitale. Lo priviamo di quella capacità di darci energia (amore, curiosità, anche un po’ di paura), che l’archetipo del Convito, soprattutto nell’Ultima cena più di ogni altro, ci offre, risvegliando in noi la passione, per la rinascita.

 

da “Il Mattino di Napoli”