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In Italia è già recessione

di G.P. - 19/03/2008

 

 

 

L’Italia è già nel pieno della recessione. Non si tratta semplicemente dell’effetto subprime e dei prodotti ad alto rischio, del tipo Cdo o Clo, che stanno scuotendo l’economia mondiale (ed in particolar modo quella Usa) ma di un problema strutturale certamente aggravato, e non originato, dall’azzardo speculativo delle banche sui mercati finanziari (che hanno accordato mutui anche a chi non aveva garanzie sufficienti per ottenerli e non certo per un cambiamento improvviso della propria ragione sociale) e dalle scorribande borsistiche della grande finanza internazionale che ha impacchettato un mare di pattume finanziario con i fiocchi rosa. O, per lo meno, il problema non si riduce solo a questo.

Le difficoltà dell’Italia sono di tipo sistemico e derivano dalla complessiva situazione economica del nostro paese, ovvero dalla sua incapacità ad uscire dalle secche nelle quali si è arenata, da più di un quindicennio, a causa della senescenza del suo apparato industriale e dell’assenza di una politica economica degna di tale nome. Si può ben dire che quest’ultima sia stata completamente abbandonata per far posto ad una contabilità meramente ragionieristica volta, in apparenza, a far quadrare i conti pubblici, ma più prosaicamente indirizzata a coprire il drenaggio delle risorse statali a vantaggio dei poteri forti.

Ancora solo negli anni ’80 (anni di crisi incipiente, di ristrutturazione industriale e di attacco generalizzato ai livelli salariali) l’Italia vantava tassi di produttività che si attestavano mediamente intorno al 6% (quasi il doppio della Germania), ed era seconda solo al Giappone dell’automazione flessibile e del miracolo automobilistico. Il debito pubblico italiano, nel 1982, era il 64% del PIL mentre secondo le ultime previsioni, nell’anno in corso, la crescita sarà pari a zero, se non addirittura negativa, con un rapporto debito/Pil attestantesi intorno al 103% o poco più.

Ciò implica che quando la crisi internazionale scoppierà, con una virulenza che si annuncia drammatica, il nostro paese non avrà quasi “anticorpi” per reagire, l’organismo risulterà debilitato ed incapace di attivare una sia pur minima resistenza, alla faccia del risanamento dei conti di cui Prodi si vanta e che ha la sola funzione di dare una sponda di galleggiamento, per la campagna elettorale, al “rampollo” infedele Veltroni.

Ne deriverà una crisi sociale gravissima con l’esplosione di forti contraddizioni che dalla sfera economica si propagheranno a quella politica e a quella sociale (peraltro già in piena sclerotizzazione), con esiti del tutto imprevedibili. In questo senso, si può affermare che l’Italia costituisce l’anello debole della catena capitalistica in Europa ed è da noi che un eventuale scardinamento dei meccanismi riproduttivi sistemici potrà determinare sconvolgimenti diffusi, sulla cui direzionalità si può anche fare qualche piccola previsione. Siccome le cosiddette forze antisistemiche brancolano nel buio, la prospettiva più probabile sarà quella di una serrata lotta intercapitalistica tra settori dominanti, chi per preservare certe posizioni, chi per scalarle, approfittando dello scollamento che toccherà gli attuali assetti della catena di comando nazionale.

I gruppi attualmente dominanti cercheranno di resistere, anche a costo di far affondare la nave, o mitigheranno gli effetti dello sfaldamento attraverso nuove alleanze che non porteranno a nulla di positivo per gli strati più bassi della società.  Potrebbe anche verificarsi l’avanzata di gruppi capitalistici meno incapaci e parassitari di quelli al momento in sella (anche se non si vede ancora all’orizzonte), in ogni caso dovrebbe aprirsi un periodo di caos sociale dal quale si uscirà con molto fatica e con le ossa frantumate.

C’è poi da considerare che la lotta all’interno di ciascuna formazione sociale nazionale è sempre perturbata dal gioco di forze a livello internazionale e, particolarmente, dalla strategia del paese predominante (e di quelli subdominanti a questo legati), il quale tenterà d’incanalare tali rivolgimenti lungo binari ad esso favorevoli. Molto dipenderà dal dispiegarsi dei rapporti geopolitici tra Est del mondo e potenze occidentali nonché, soprattutto, dall’efficacia delle politiche statunitensi che hanno portato all’inglobamento delle ex-repubbliche socialiste nell’area della Nato, al solo fine di bloccare le aspirazioni egemoniche russe. Se queste dovessero funzionare l’Italia potrà ben essere lasciata a sé stessa e si vedrà relegata ad un ruolo sempre più marginale.

 

Ma non scopriamo solo adesso i problemi del nostro paese, sappiamo che vengono da molto più lontano.

E’ dagli inizi degli anni ‘90 che si tirano fuori le ricette più disparate per sottoporre il popolo italiano alla cura dimagrante dettata dagli organismi internazionali (il FMI, in primo luogo), e, di rimando, anche da parte di quelli europei (subordinati ai primi), sotto forma di stringenza dei parametri di Maastricht, diretti a tenere a bada il rapporto debito/pil come presupposto per non essere sospinti fuori dalla “comunitocrazia” europea.

In effetti, il debito pubblico italiano è tra i più alti in Europa e, più volte, gli altri partner comunitari hanno mostrato una certa insofferenza nei confronti della debolezza economica peninsulare (che impedisce al Belpaese di farsi carico di alcune responsabilità). Eppure, come detto, è già a partire dai primi anni novanta che i governi nostrani (in odore di neutralità tecnica  e con la complicità di un parlamento delegittimato politicamente oltre che piegato sui diktat statunitensi dopo il terremoto innescato da Mani Pulite) si sono concentrati sulla riduzione del debito e sui tagli alla spesa pubblica.

Anzi, proprio la propaganda politica, abbinata all’ideologia del laissez faire, ha fatto passare l’idea che gli unici problemi del paese derivassero dal livello elevato della spesa sociale e dall’invasività dello Stato che occupava ancora, indebitamente, ambiti economici da privatizzare con maggiore profitto per la collettività (in realtà per la GF e ID).

Il problema non sta però nella natura giuridica della proprietà quanto nel fatto che si svende coll’obiettivo di foraggiare alcuni gruppi di potere (banco-industriali) ben radicati alle spalle della classe politica.

A partire dalla metà degli anni settanta, e fino a giungere ai giorni nostri, il trend della spesa pubblica è costantemente cresciuto, soprattutto in virtù degli aiuti concessi alle imprese (e ricordiamo, da ultimo, i ripetuti regali alla Fiat, sia di tipo diretto, con la rottamazione, o più indiretto, con il cuneo fiscale) e alle caste politiche (le quali hanno alimentato un sottobosco di clientelismo famelico e protervo) corrotte fino al midollo. Di fronte a tali prebende si può ben sostenere che al popolo, sotto forma di politiche sociali, siano arrivate appena le briciole.

Questa stessa classe dirigente era salita agli onori della pubblica opinione perché uscita indenne, o quasi (solo in quanto, i giudici che volevano indagare nelle diverse direzioni furono prontamente bloccati da una potente “manina atlantica”), dalla stagione di tangentopoli, quella che portò alla decimazione dei “Signori feudali” socialisti e democristiani, straripata nella famosa nemesi “popolaresca” del lancio delle monetine al “cinghialone d’oro”, fino a pochi giorni prima adorato con trasporto biblico.

A quel punto, e solo a quel punto, si fecero avanti gli uomini coraggiosi (con le spalle coperte) della seconda repubblica, i quali annunciarono, fieramente, che i tempi dei “robber baron” si erano chiusi per lasciare campo ad un futuro di moralità e di giustizia.

Ma questi neofiti del buon governo (liberatisi della conventio ad excludendum del periodo piccìista) dovevano a quel punto rendere onore a Cesare affinché Cesare li benedisse una volta per tutte. L’occasione fu appunto quella della riduzione del debito pubblico che condusse alla smobilitazione del patrimonio dello stato (per risarcire i creditori) e allo smembramento del Welfare State. Veniva detto che si trattava di misure necessarie per rilanciare la ripresa; in verità si volevano solo liberare imponenti masse di capitale da elargire dell’intrapresa privata (industriale e finanziaria) in grave difficoltà. Ma ad avvantaggiarsene realmente, ben al di sopra dei nostri famigerati capitani d’industria, sono state soprattutto le grandi multinazionali americane e le sue banche d’affari.

Tutto ciò ha fatto da viatico all’ascesa politica dei tanti ex-giovani epigoni vissuti all’ombra dei grandi capipartito (rammentiamo che Occhetto e D’Alema furono spediti, da Berlinguer, rispettivamente in Sicilia ed in Puglia, a testimonianza della bassa considerazione che il segretario comunista aveva per i due) ben amalgamatisi con alcuni residuati della prima repubblica, stranamente scampati al “tintinnio delle manette”, come Giuliano Amato, sottilissimo dottore dal rinnegamento facile. Povero “cinghialone socialista” tradito da un topolino ben prima che potesse grufolare per tre volte…

Si susseguirono, quindi, governi “prepolitici” per fare le riforme e portare l’opera di dissodamento dell’Italia fino in fondo, ben supportati in ciò dai grandi finanzieri di sua maestà la Regina d’Inghilterra (God save the queen!) prodighi di consigli per i nostri uomini più promettenti, già lobotomizzati dai tirocini formativi nelle grandi merchant bank americane.

Più concretamente, ciò che si stava trasformando era la stessa geografia del potere al mutare dell’ordine internazionale (con l’Urss che si accomodava nel cimitero degli elefanti della storia). L’Italia perdeva il suo ruolo strategico quale piazzaforte (attrezzata dagli Usa) a protezione del fantomatico “mondo libero”. La rendita di posizione che ne era derivata, per più di quarant’anni, si disfaceva sotto le pressioni dei padroni statunitensi, i quali non mostravano più riconoscenza per quella classe politica (Dc-Psi) che aveva comunque impedito alla cortina di ferro di cedere su questo lato della barriera.

Il riorientamento geopolitico americano non poteva essere portato a compimento senza prima disfarsi di questo ceto dirigente che aveva sì aveva servito con tanta abnegazione (e qualche leggero sussulto di dignità), ma che nella nuova situazione risultava d’intralcio. Distrutto l’arco politico italiano ed effettuate le nuove scommesse a favore degli ex-comunisti, il disegno poteva dirsi completo ma, astuzia della storia, ci si è messo di mezzo un “omino” di Arcore, capace in pochi mesi di ricompattare l’elettorato DC-Psi a suon di “schiamazzi” contro la “sovietizzazione” dello stivale.

Destra e sinistra hanno poi continuato sulla stessa strada, ben guidati da una vocina anglofona, rimpallandosi le responsabilità e portando il paese sull’orlo del baratro. Lo stato sociale è stato così completamente smembrato senza che fossero offerte soluzioni meno parassitarie, dopo gli anni dell’assistenzialismo eccessivo della prima repubblica (che, ricordiamolo ancora, stornava risorse più sulle imprese e le caste politiche che non a favore degli strati deboli della popolazione) mentre, d’altro canto, si lasciava marcire l’apparato produttivo e si depotenziavano ancora le imprese più strategiche.

Ci si è limitati ad agire secondo ideologiche ricette di mercato (quelle che meglio servivano i dominanti americani), privatizzando il privatizzabile (in realtà, svendendolo ai gruppi di potere di sempre o ai dalemiani capitani coraggiosi) e affidandosi alle taumaturgiche capacità riequilibratrici della mano invisibile. Ora, anche Tremonti è passato dalla parte dei no global e, come quest’ultimi, sta infilando una serie di idiozie (protezionismo sui prodotti dei settori industriali nazionali a scarsa competitività tecnologica o innovativa come quelli del tessile) che non scalfiscono di un millimetro la sostanza del potere "anglobalizzato".

Infine, dopo tutto questo bailamme ci vengono a dire che il nostro debito è addirittura peggiore di quello del 1991. Sedici anni d’incompetenza e d’ignominia, per tornare al punto di partenza. E chi dovrebbe risolvere questa situazione? Gli stessi che l’hanno determinata?

Siamo seri, si venderanno anche le mutande pur di strappare scampoli di sopravvivenza. Quanto alle madri e alle sorelle sono già passate di proprietà.