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L’Iraq non è più un Paese

di Patrick Cockburn - 19/03/2008

L’Iraq non è più un Paese. Come per tante altre cose, non era questo il piano
A Baghdad il tasso di mortalità è calato, ma siamo alla pulizia etnica



'Mi fa ricordare l'Iraq sotto Saddam", mi diceva la settimana scorsa con rabbia un oppositore battagliero di Saddam Hussein, mentre guardava alcuni soldati iracheni con il berretto rosso chiudere una parte del centro di Baghdad in modo che il convoglio di Nuri al-Maliki, il Primo Ministro iracheno, potesse brevemente avventurarsi in città.

Cinque anni dopo l’invasione dell’Iraq, il governo statunitense e quello iracheno sostengono che il Paese sta diventando un posto meno pericoloso, ma le misure prese per proteggere Maliki raccontavano una storia diversa. In un primo momento, soldati che brandivano dei fucili hanno sgombrato tutto il traffico dalle strade. Poi, quattro auto nere blindate, ognuna delle quali aveva sul tetto tre uomini armati di mitragliatrice, sono uscite correndo dalla Green Zone attraverso una uscita super fortificata, seguite da Humvee americani color sabbia e altre macchine blindate. Infine, nel mezzo del convoglio che andava a tutta velocità, abbiamo visto sei veicoli identici a prova di proiettile con i vetri oscurati, in uno dei quali doveva esserci Maliki.

Le precauzioni non erano eccessive, dato che Baghdad rimane la città più pericolosa al mondo. Il Primo Ministro iracheno stava andando solo al quartier generale del partito Da’wa, al quale appartiene, e che si trova solo a poco meno di un chilometro fuori dalla Green Zone, ma le centinaia di addetti alla sua sicurezza si comportavano come se stessero entrando in territorio nemico.

Cinque anni di occupazione hanno distrutto l’Iraq come Paese. Oggi Baghdad è un insieme di ghetti sunniti e sciiti ostili divisi da alti muri in cemento. Distretti diversi hanno bandiere nazionali diverse. Le zone sunnite usano la vecchia bandiera irachena con le tre stelle del partito Ba’ath, e quelle sciite sventolano una versione più recente, adottata dal governo sciita-kurdo. I kurdi hanno la loro bandiera.

Il governo iracheno cerca di dare l’impressione che stia tornando la normalità. Ai giornalisti iracheni viene detto di non fare cenno del fatto che la violenza continua. Quando una bomba è esplosa nel distretto di Karrada, vicino al mio hotel, uccidendo 70 persone, i poliziotti hanno picchiato e cacciato via un operatore televisivo che stava cercando di riprendere le immagini della devastazione. Le vittime civili sono scese da 65 iracheni uccisi ogni giorno dal novembre 2006 all’agosto 2007 a 26 al giorno in febbraio. Ma il calo nel tasso di mortalità è dovuto in parte al fatto che la pulizia etnica ha già fatto il suo tetro lavoro, e in gran parte di Baghdad non ci sono più zone miste.

Più della maggior parte delle guerre, la guerra in Iraq è tuttora poco compresa fuori dal Paese. Gli stessi iracheni spesso non la capiscono, perché hanno una conoscenza approfondita della loro comunità, sia essa sciita, sunnita, o kurda, ma conoscono poco le altre comunità irachene. Avrebbe dovuto essere evidente dal momento in cui il Presidente George Bush decise di rovesciare Saddam Hussein che sarebbe stata una guerra molto diversa da quella combattuta da suo padre nel 1991. Quella era stata una guerra di conservazione, fatta per ripristinare la situazione precedente in Kuwait.

La guerra del 2003 era destinata ad avere conseguenze radicali. Se Saddam Hussein fosse stato rovesciato e si fossero tenute elezioni, poi la posizione dominante della minoranza sunnita che costituisce il 20 % della popolazione sarebbe stata sostituita dal potere della comunità sciita che è la maggioranza, alleata con i kurdi. In una elezione, i partiti religiosi sciiti legati all’Iran avrebbero vinto, come in effetti è stato nelle due elezioni del 2005. Molti dei guai dell’America in Iraq hanno avuto all'origine il tentativo di Washington di impedire che l’Iran e i leader sciiti anti-americani come Muqtada al-Sadr riempissero il vuoto di potere lasciato dalla caduta di Saddam Hussein.

Gli Usa e i loro alleati non hanno mai capito veramente la guerra che avevano vinto, iniziata il 19 marzo 2003. I loro eserciti erano riusciti ad arrivare facilmente a Baghdad perché l’esercito iracheno non aveva combattuto. Perfino le cosiddette unità di élite della Guardia Repubblicana speciale, ben pagate, ben equipaggiate, e legate a Saddam da vincoli tribali, erano andate a casa. Il modo in cui le televisioni e gran parte dei giornali hanno raccontato la guerra è stato assai fuorviante, perché ha dato l’impressione di estesi combattimenti quando non ce ne furono. Io entrai a Mosul e a Kirkuk, due città del nord, il giorno in cui furono catturate senza che quasi venisse sparato un colpo. Carri armati iracheni incendiati erano sparsi per le strade attorno a Baghdad, dando l’impressione di pesanti combattimenti, ma quasi tutti erano stati abbandonati dai loro equipaggi prima di essere colpiti.

La guerra era stata troppo facile. Consciamente o inconsciamente, gli americani si misero a pensare che quello che gli iracheni dicevano o facevano non contava. Ci si aspettava che si comportassero come i tedeschi o i giapponesi nel 1945, anche se la maggior parte degli iracheni non si consideravano sconfitti. In seguito si sarebbe discusso in modo molto aspro su chi fosse stato responsabile dell’errore fondamentale di aver sciolto l’esercito iracheno. Ma allora gli americani erano in uno stato d'animo di arroganza imperiale esagerata, e non gli importava di cosa facevano gli iracheni, che fossero nell’esercito o al di fuori. "Pensavano semplicemente che fossimo wog [termine inglese offensivo che indica gli africani o gli asiatici NdT]", dice brutalmente Ahmad Chalabi, il leader dell’opposizione. "Non contavamo".

In quei primi mesi dopo la caduta di Baghdad era straordinario, e a volte divertente, guardare i vincitori americani comportarsi esattamente come gli inglesi all’apice del loro potere nell’India del 19° secolo. Erano rinati i modi del Raj. Un amico che faceva il broker alla Borsa di Baghdad mi ha raccontato di come un americano di 24 anni, la cui famiglia era fra i donatori del partito Repubblicano, era stato nominato responsabile del mercato azionario e aveva fatto prediche sulle virtù della democrazia ai broker assai irritati, la maggior parte dei quali parlava diverse lingue e aveva dei dottorati.
 
C’era un’altra idea sbagliata che si era fatta strada all’epoca. La maggior parte degli iracheni era contenta di essersi sbarazzata di Saddam Hussein. Era stato un leader crudele e incompetente in maniera catastrofica, che aveva mandato in rovina il suo Paese. Tutti i kurdi e la maggior parte degli sciiti volevano che se ne andasse. Ma da ciò non conseguiva che gli iracheni di qualunque genere volessero essere occupati da una potenza straniera.

In seguito, il Presidente Bush e Tony Blair diedero l’impressione che rovesciare il regime ba’athista implicasse necessariamente un’occupazione, ma non era così. "Se ce ne andremo, ci sarà anarchia", mi dicevano amici dell’autorità di occupazione come a giustificarsi. Sono rimasti, ma l’anarchia è arrivata comunque.

In quel primo anno dell’occupazione era facile dire da che parte tirava il vento. Ogniqualvolta c’era un soldato americano ucciso o ferito a Baghdad, prendevo la macchina e andavo immediatamente. C’erano sempre folle che esultavano vicino ai resti fumanti di un Humvee o a una macchia di sangue scura sulla strada. Dopo che un soldato era stato ucciso a colpi di arma da fuoco, un uomo mi disse: “Sono povero, ma la mia famiglia festeggerà quello che è successo cucinando un pollo". Eppure questo era il momento in cui il Presidente Bush e il suo Segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, dicevano che gli insorti erano "avanzi del vecchio regime" e "irriducibili".

C'era anche una idea sbagliata fra gli iracheni sulla profondità delle divisioni all’interno della loro stessa società. I sunniti mi accusavano di esagerare le loro divergenze con gli sciiti, ma quando io citavo importanti leader sciiti, li liquidavano facendo un gesto con la mano e dicevano: "Ma sono tutti iraniani o pagati dagli iraniani". Al-Qa'ida in Iraq considerava gli sciiti eretici che meritavano di morire come gli americani. Enormi bombe suicide esplodevano nei mercati e nelle processioni religiose sciite, massacrando centinaia di persone, e gli sciiti iniziarono a rispondere con uccisioni "occhio per occhio dente per dente" di sunniti da parte di squadroni della morte di miliziani sciiti o della polizia.

Dopo che i guerriglieri sunniti fecero saltare in aria il santuario sciita di Samarra il 22 febbraio 2006, i combattimenti confessionali si trasformarono in una guerra civile completa. Bush e Blair negavano strenuamente che le cose stessero così, ma, secondo qualunque standard, si trattava di una guerra civile di straordinaria brutalità. La tortura con i trapani elettrici e l’acido divenne la norma. Le milizie sciite dell’Esercito del Mahdi si impadronirono di gran parte di Baghdad e ne controllarono i tre quarti. Circa 2 milioni e duecentomila persone fuggirono in Giordania e in Siria, un'alta percentuale dei quali sunniti.

La sconfitta sunnita nella battaglia per Baghdad del 2006 e degli inizi del 2007 è stata la motivazione per la quale molti guerriglieri, in precedenza anti-americani, all’improvviso si sono alleati con le forze americane. Erano arrivati alla conclusione che non potevano combattere gli Usa, al-Qa'ida, l’esercito e la polizia iracheni, e l’Esercito del Mahdi contemporaneamente.

Adesso c’è una milizia sunnita forte di 80.000 uomini, pagata dagli americani e loro alleata, ma ostile al governo iracheno. Cinque anni dopo l'ingresso degli eserciti americano e britannico in Iraq, il Paese è diventato una espressione geografica.


Muqtada al-Sadr and the Fall of Iraq
di Patrick Cockburn sarà pubblicato il mese prossimo da Faber & Faber



(Traduzione di Ornella Sangiovanni)

The Independent On Sunday