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Il re degli scacchi

di Stenio Solinas - 19/03/2008

Due mesi fa,
quando Bobby
Fischer, il genio
americano degli
scacchi, morì, il
suo alter ego
russo, Gerry
Kasparov, fece una delle sue solite entrate e
uscite dalle prigioni di Mosca. Kasparov è
l’anti-Putin per eccellenza e non perde mai
occasione per rimarcarlo. È il leader del
movimento “Altra Russia” e come tale ha
cercato, invano, di candidarsi alle ultime elezioni
presidenziali, quelle che hanno visto la
scontata vittoria di Medvedev, da molti considerato
il candidato fantoccio attraverso cui
sempre Putin continuerà a governare...
Quando Kasparov divenne campione del
mondo nel 1985, Fischer era ormai da un
decennio fuori dalle competizioni internazionali.
Aveva trionfato nel 1972 battendo Spasskij,
si era rifiutato nel 1975 di difendere il
titolo contro Karpov. Nel corso dei cinque
anni successivi le sfide Karpov-Kasparov
furono il must dello scacchismo internazionale,
ma ancora fino al Duemila fu sempre quest’ultimo
a detenere il titolo di campione del
mondo, quindici anni di supremazia, dunque.
Kasparov ha smesso di giocare tre anni fa, a
quarantun anni, unanimamente considerato il
più quotato giocatore al mondo. Di Fischer
ha detto che «oltre al genio era il suo atteggiamento
davanti alla scacchiera a dargli una
forza senza precedenti. Prima di lui, nessuno
era pronto a combattere alla morte in ogni
partita. Nessuno era disposto ad allenarsi tutto
il giorno per portare il gioco a un nuovo
livello. Fischer lo era, e fece scoppiare una
valanga di nuove idee scacchistiche. Era un
rivoluzionario, e diede il via a una rivoluzione
ancora in corso».
Nel suo volume Gli scacchi la vita (Mondadori,
3324 pagine, 18 euri) Kasparov scrive
che “il mondo degli scacchi mi ha preparato
ad affrontare al meglio” la nuova fase della
vita che lo vede ex giocatore e leader politico:
“Dopo aver sconfitto un Olimpo di campioni,
mi stupirei se a intimorirmi fosse un
semplice tenente colonnello del Kgb”. È
un’affermazione orgogliosa, ma al tempo
stessa ingenua e che apre curiosi paralleli con
quanto toccò in sorte a Fischer, campione
indiscusso della scacchiera, ma braccato dalla
politica del suo Paese che lo trasformò prima
in un reietto e poi addirittura in un nemico
pubblico numero uno. Alla base delle difficoltà
del primo e del fallimento del secondo
non c’è nient’altro che la constatazione del
vecchio straccivendolo del romanzo di
Acheng Il re degli scacchi: “I pezzi sulla
scacchiera erano tutti bene in vista.
Negli eventi del mondo invece erano
troppe le cose di cui non si sapeva nulla...
Non tutti i pezzi sono sulla scacchiera, è una
partita che non si può giocare”.
Naturalmente, le differenze caratteriali fra
Kasparov e Fischer sono abissali, così come
abissali sono quelle che riguardano i sistemi
politici contro i quali uno rischia di rompersi
le ossa e l’altro se le ruppe. E tuttavia. l’ossessione
anti-Putin del primo ha radici psicologiche
più forti di un sia pur robusto sentimento
democratico e liberale. Ha soprattutto
a che fare con una mente razionale e matematica
che non riesce ad accettare l’idea che l’irrazionalità
prevalga, che il sentimento vinca
sul ragionamento, l’oscurità sulla chiarezza,
la forza sul diritto... La frase sul “semplice
colonnello del Kgb” ci dice che la superbia
intellettuale di Kasparov si nutre di quella
stessa materia per la quale Fischer si illuse di
poter giocare a scacchi con l’amministrazione
del suo Paese. La fine è nota.
Su Fischer è appena uscita una bella biografia
romanzata di Vittorio Giacopini, Re in fuga
(Mondadori, 273 pagine, 17,5 euri), il cui
assunto di fondo sta in un paradosso: “Ti
blindi dentro un’ossessione per evitare gli
altri e aggirare la Storia e ti ritrovi proprio al
centro della scena, sotto gli occhi di tutti”.
Diceva Francis Scott Fitzgerald che «nelle
vite americane non c’è mai un secondo tempo
». E infatti Bobby Fischer è morto in quella
Reykjavik che trenta e passa anni fa vide il
suo trionfo, un primo tempo unico e irripetibile
che aveva in sé anche la sua fine. Fa un
certo effetto pensare che chi al tempo del suo
trionfo scacchistico fu visto come il simbolo
dell’intelligenza occidentale e dell’American
Way of Life, avesse
negli ultimi anni
della sua vita come proprio indirizzo e-mail,
Us is shit, “Usa eguale merda”. E in fondo, se
si va a fare una disanima a mente fredda dello
scontro Fischer-Spasskij trasformato in contesa
ideologica, lo si potrebbe facilmente
rovesciare. I due contendenti erano del tutto
inadatti a rappresentare i sistemi politici dei
rispettivi Paesi. Spasskij non era un comunista
duro e puro, e non lo nascondeva, l’asocialità
e le mattane di Fischer lo rendevano
agli occhi di molti connazionali un non-americano.
“Come protagonista del mondo libero
- scrisse Arthur Koestler sul Sunday Times -
Bobby è del tutto controproducente”. E ci fu
anche chi scrisse al Washington Post osservando
che Fischer «era l’unico americano in
grado di far tifare gli Usa per i russi». Che
allora quest’ultimo fosse anticomunista, è un
dato di fatto, ma aveva più a che fare con gli
scacchi che con le ideologie. L’Urss ne dominava
il palcoscenico internazionale dall’inizio
del’900, vinceva i campionati mondiali ininterrottamente
dalla fine della Seconda guerra
mondiale, lo Spasskij del’72 era detentore del
titolo dal’69, quando aveva trionfato sul compatriota
Petrosian. Nato nel’43, Fischer era a
13 anni il più giovane campione juniores di
tutti i tempi e poi il più giovane maestro
internazionale della storia, ma già a vent’anni
sosteneva che «il controllo russo degli scacchi
è ormai arrivato al punto di impedire
qualsiasi competizione leale per il campionato
mondiale». Si aggiustavano le partite fra
loro, insomma, risparmiavano le energie, fisiche
e mentali, per meglio usarle contro i non
sovietici, ovvero lui... Cospiravano... Dalla
metà degli anni’60 fino al fatidico’72 Fischer
non pensò ad altro che a schivare le «cospirazioni
», arrivare da sfidante alla finale, dimostrare
di essere il più forte, l’uomo che metteva
fine a un dominio pluridecennale.
“Non c’è niente di anormale nel fatto che un
giocatore di scacchi sia anormale. È normale”
ha scritto Vladimir Nabokov. La frase è bella,
ma ingannatrice. Se si dà uno sguardo ai
grandi giocatori di tutti i tempi si troverà in
essi l’umanità più disparata: c’è l’astemio e il
bon vivant, l’ateo e il religioso, il solitario e
l’entusiasta. Ciò che li accomuna, oltre alla
mente brillante, è una solidità di carattere.
Fischer aveva un QI superiore a 180 e una
memoria prodigiosa, tale che ascoltando una
conversazione in una lingua straniera e a lui
sconosciuta, era in grado di ripeterla parola
per parola. Non era colto, o istruito, gli piacevano
il jazz, i fumetti, le astronavi e le automobili,
le ragazze con le tette grosse, il ping
pong. Marty Reisman, detto The Needle,
L’Ago, un mago di questo sport, disse che
con la racchetta “era un killer, un massacratore
a sangue freddo, giocava con ferocia, puntando
alla gola dell’avversario”. È questa
determinazione, questa rabbia incanalata e
controllata che lo rese unico. “Quando giochi
con Bobby il problema non è vincere o perdere,
è sopravvivere” confessò Spasskij anni
dopo. Ed è ancora di Koestler, che assistette
come giornalista allo “scontro del secolo”, la
definizione di “mimofante, una specie ibrida,
l’incrocio fra una mimosa e un elefante. I
suoi appartenenti sono sensibili come le
mimose per quanto riguarda i propri sentimenti
e coriacei come un elefante nel calpestare
quelli altrui”.
Dopo quel “primo tempo”, dicevamo all’inizio,
la vita americana non diede a Fischer il
secondo, ci fu solo un doloroso, trentennale
intervallo. Nell’81 finì in galera negli Usa,
scambiato per un rapinatore e picchiato, nel
’92, la rivincita a Belgrado del match con
Spasskij, in piena guerra civile iugoslava, lo
fece dichiarare fuorilegge dal governo americano,
il suo anticomunismo divenne una sorta
di antiamericanismo, il suo antisemitismo si
rafforzò. Ironia della storia, era ebreo da parte
di madre e da parte del suo vero padre, il fisico
ungherese Paul Nemenyi, i suoi genitori
erano stati simpatizzanti comunisti...
Sul Fischer-versus-Usa, Giacopini dice delle
cose sensate e condivisibili. Il suo arresto, il
13 luglio del 2004 all’aeroporto internazionale
di Tokyo, fu pura e semplice ritorsione,
ragion di Stato, ripicca. “Da dodici anni
almeno Fischer stava girando il mondo con il
suo vero nome, in Giappone, Germania,
Ungheria, Filippine aveva frequentato Paesi
alleati degli Stati Uniti (nonché dotati di trattati
bilaterali di estradizione con gli States).
Se qualcuno aveva cambiato le carte in tavola,
certamente non era stato lui”. Quanto alle
accuse, riprendendo le parole del cognato
Russel Tag, “di cosa diavolo lo stanno accusando?
Di aver giocato una partita di scacchi
dodici anni fa in Jugoslavia? È solo un diversivo,
tutta scena. Non vogliono che la gente
pensi ai novecento soldati che sono già morti
in Iraq e all’economia che va in malora. Non
sono stati capaci di prendere Bin Laden e
allora arrestano Bobby, solo questo”.
Anche la “violazione dell’embargo”, a ben
vedere, era una buffonata, anzi, una “stronzata”,
come aveva detto lo stesso Fischer nello
stracciare la lettera del dipartimento di Stato
che lo ammoniva in tal senso. “Quale cazzo
di embargo? Ordinato da chi? Dalla potenza
più assassina del mondo? E da quando in qua
il decreto di un presidente rincoglionito ha la
precedenza sulla costituzione degli Stati Uniti?”
Era un caso, insomma, di disobbedienza
civile, pittoresca nel linguaggio, ma consapevole,
una testimonianza, anche, di coraggio
civile. Opinioni, le sue, fastidiose,
sgradevoli, oscene magari,
ma pure e semplici opinioni: a
favore di Saddam, le Twin Tower
come risposta alla politica d’aggressione
degli Stati Uniti, no
all’intervento in Afghanistan...
Furono queste opinioni a essere
trasformate in delitti e come tali
perseguite. Fu in difesa della libertà
di parola e di pensiero che l’Islanda
gli concesse la cittadinanza e
così facendo lo salvò.
Il 23 marzo del 2005 Fischer, non
più cittadino americano, si imbarcò
su un volo intercontinentale per
Reykjiavik, dove morirà tre anni
dopo. Questo fu il suo finale di
partita. Kasparov farebbe bene
a studiarselo attentamente.