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A chi giova l’occidentalismo

di Marco Tarchi - 20/03/2008

 

 

L’ostilità verso gli Stati Uniti d’America che si era fortemente diffusa nell’opinione pubblica di molti paesi europei dopo l’avvio della guerra irachena, si legge sui giornali e si sente dire in tv, è in via di attenuazione. Il favore per una politica “transatlantica” delle classi dirigenti del Vecchio Continente, mai venuto meno nella sostanza, riscuote maggiori consensi. L’uso martellante della parola “Occidente” da parte dei mezzi di informazione, che adoperandola vogliono instillare la sensazione di una comunanza originaria di interessi e valori fra le popolazioni e gli Stati collocati sulle due sponde dell’Oceano, e nel contempo sottolineare la loro diversità rispetto a quelli del resto del mondo, sembra dare i frutti sperati. Quel che più colpisce è che il favore per la vulgata occidentalista che cola quotidianamente in dosi massicce dai canali di comunicazione si espande soprattutto fra i reduci di quelle che fino a pochi anni addietro apparivano come le fedi ideologiche più tenaci e diffidenti verso lo strapotere nordamericano: gran parte degli ex comunisti e degli ex fascisti si immedesimano nel ruolo di difensori del nuovo status quo e trovano uno dei rari punti d’incontro nella predisposizione a volerne essere vigili sentinelle.

Con toni e termini diversi, il credo occidentalista si coniuga, nelle diverse aree in cui si suddivide la pubblica opinione delle liberaldemocrazie, ad una crescente avversione per tutto quello che è altro rispetto ai modi di pensare, agli stili di vita e ai costumi politici di quella che qualcuno si è premurato di battezzare “comunità euroatlantica” o addirittura “euroamericana”. Complice non secondaria un’immigrazione dal Terzo mondo di proporzioni impressionanti, peraltro vissuta con incoscienza riguardo a quelli che potrebbero esserne i veri effetti destabilizzanti di lungo periodo, che poco e nulla hanno a che vedere con l’eterogeneità degli usi igienici o alimentari, con la diversità di codici morali e persino con la pur nefasta criminalità spicciola, il fossato fra noi e loro rischia di trasformarsi in un baratro. Si innesca così una spirale: dal fastidio verso la differenza all’ostilità, per passare poi alla paura e al desiderio di tutela da tutto ciò che appare irriducibile ai parametri culturali che ci sono familiari, finendo con l’affidarsi all’idea che, per fortuna, non siamo soli a far fronte all’alterità che ci insidia – sia essa incarnata dal rapinatore albanese, dallo spacciatore maghrebino, dal cinese concorrente sleale falsario e inquinatore, dal terrorista iracheno o dalla bomba atomica dei mullah – e, male che andasse, c’è sempre il grande fratello d’oltreoceano pronto, ancora una volta, a sacrificarsi per noi e, come nella tradizione dei film western che tanta parte hanno avuto, senza che ce ne accorgessimo, nell’addomesticamento del nostro immaginario, a dare una lezione ai “brutti musi” (questa volta più olivastri o gialli che rossi) che tormentano i nostri stati di veglia.

Molti, che in gioventù sfogavano il bisogno di socialità in cortei, occupazioni e assemblee dove yankee go home era lo slogan più festosamente gettonato, o che esibivano disprezzo per l’arroganza politica e militare della potenza che esibiva orgogliosa la bandiera stars and stripes delle libertà democratiche e dietro le quinte favoriva qualunque colpo di stato o guerriglia che facesse i suoi interessi qua e là nel mondo, abbattendo o destabilizzando legittimi governi democratici, oggi, scossi e travolti dal timore spesso inconfessato che uno scontro di civiltà con il poliedrico Oriente barbarico sia effettivamente in atto, si sono convertiti a quella versione edulcorata dell’americanismo che ha avuto nei fratelli Kennedy e in Martin Luther King le icone primigenie e oggi abbonda di predicatori socialdemocratizzati, che negano oltre ragionevolezza e decenza di aver creduto, almeno da ragazzi, alle promesse del comunismo. Altri, che negli Usa avevano visto e biasimato i corresponsabili degli accordi di Yalta e dell’infame spartizione del continente europeo che ne era derivata, e magari si erano spinti a considerare Washington e Mosca, sulla scia di Jean Thiriart, “complici sempre, concorrenti spesso, nemici mai”, fustigando comunque il “neocolonialismo” e il “neoimperialismo” di cui Unione Sovietica e Stati Uniti erano corresponsabili, hanno abbracciato la versione più muscolare ed acritica del culto degli States, celebrandone sempre ed ovunque il ruolo benefico, anche per farsi perdonare le mai del tutto digerite simpatie per un regime che alla “plutocrazia” guidata da Roosevelt aveva dichiarato, e fatto, guerra.

Forte di questo clima di union sacrée e dell’efficace schematismo delle contrapposizioni che si fondano su sentimenti elementari come la paura e il bisogno di sicurezza, il fronte occidentalista ha impresso negli ultimi mesi un’ulteriore accelerazione alle sue grandi manovre e mosso altre pedine sulla scacchiera delle relazioni internazionali, creando quelle che ai sostenitori dell’atlantismo paiono premesse di un ordine più facilmente controllabile e a chi non condivide i loro entusiasmi, invece, sementi di gravi conflitti futuri. Basta dare una rapida occhiata ad alcune di queste mosse per capire dove stiano portando il pianeta e farsi un’idea di chi dal trionfo dell’ideologia liberale del presunto Occidente trarrà vantaggi e chi danni.

In territorio europeo, il Kosovo è ormai alla vigilia della proclamazione dell’indipendenza, con l’avallo degli Usa e delle gerarchie politiche di Bruxelles, malgrado l’impegno solenne di garantire la sovranità serba sulla provincia abitata in maggioranza da albanesi che sia la Nato sia le Nazioni Unite si erano assunti al momento in cui cessarono i bombardamenti sul territorio allora jugoslavo. Il tradimento della promessa, formulata al termine di un’aggressione aveva distrutto le infrastrutture del paese e istigato una pulizia etnica di massa di proporzioni altrimenti impensabili, è motivato ufficialmente dal rispetto del principio di autodeterminazione, che gli Usa calpestano quotidianamente ovunque a loro convenga, a partire dall’Iraq, dall’Afghanistan e dagli altri paesi in cui mantengono truppe di occupazione, e dalla Palestina, dove occupazione e repressione sono delegate agli israeliani. A sostegno di questo principio vi è lo squilibrio ormai enorme fra la quota di residenti albanesi e quella dei serbi, ottenuto dai primi con un sistematico esercizio di violenze intimidatorie che ha costretto centinaia di migliaia di abitanti non appartenenti al ceppo maggioritario all’esodo. Trincerati nella fortezza di Camp Steel, che assicura loro un formidabile punto di appoggio per future avventure entro e fuori i Balcani all’interno di un paese che fra poco sarà formalmente indipendente – ma di fatto dipenderà dalla loro tutela –, i militari statunitensi hanno, con la loro ostentata indifferenza, favorito questo esito di una guerra civile mimetizzata prima, durante e dopo il 1999 in caso di “emergenza umanitaria” con il pieno appoggio dell’apparato massmediale, senza che all’opinione pubblica venissero forniti i dati essenziali per rendersene conto.

Fuori dall’Europa, i focolai di crisi creati, mantenuti aperti o inaspriti dall’azione politica degli Stati Uniti d’America e dei loro docili alleati sono numerosi e vanno moltiplicandosi, ad onta delle dichiarazioni false e rassicuranti dei portavoce “occidentali”. Lasciando perdere le tensioni ormai endemiche con Chávez o Castro e la tenzone ancora prevalentemente sotterranea con la Cina, spiccano alcuni casi clamorosi, che dovrebbero indurre a riflettere chi per l’occidentalismo ha una predilezione ingenua e non interessata.

In Pakistan, neppure il poter contare su un generale golpista di polso fermo come Musharraf, capace di proclamare lo stato d’assedio, incarcerare migliaia di oppositori e nello stesso tempo proclamarsi restauratore della democrazia, è servito a disinnescare la carica esplosiva di un conflitto di influenze e visioni geopolitiche che ha visto in Benazir Bhutto l’ennesima vittima eccellente. La minaccia di sanzioni agitata dalla Casa bianca a beneficio delle agenzie di stampa dinanzi alla sospensione delle garanzie costituzionali decretata dal presidente-dittatore è evaporata in poche ore e costui ha potuto impunemente estromettere il presidente della Corte costituzionale e far bastonare in piazza migliaia di avvocati che contestavano la sua decisione. Ma il peggio lo si è visto poi, con le menzogne sulle circostanze della morte della ex premier: ricostruzioni grottesche che sono più eloquenti di una confessione sui veri artefici di un omicidio che, naturalmente, ci si è affrettati ad addebitare ad Al Qaeda.

In Iraq, apparentemente, le cose vanno meglio per chi ha scatenato un conflitto dai costi umani e materiali spaventosi: dimenticate le falsità sulle armi di distruzione di massa, messa la sordina sulle torture di Abu Grahib, sulle armi proibite usate per annientare Falluja, sulle attività del centro di disinformazione messo in piedi dall’amministrazione americana, sulle “veline” zeppe di notizie senza fondamento fatte pubblicare dietro pagamento sui giornali locali, il conteggio dei soldati uccisi procede più a rilento del solito e stenta a superare quota quattromila; gli attentati e relative vittime calano statisticamente; i gruppi della resistenza sunnita hanno preso a massacrarsi vicendevolmente. C’è tuttavia da chiedersi quale sia l’entità dei profitti sul lungo periodo di questa calma relativa, se è vero che la quasi totalità della popolazione e delle forze politiche irachene insiste nel pretendere la (improbabile) partenza degli occupanti e i metodi della guerriglia suicida si sono trasferiti oltreconfine, nell’Afghanistan che, malgrado le continue offensive delle truppe Nato ed Usa, ha visto crescere la presenza talebana e lievitare le perdite dei presunti pacificatori. Le previsioni non più riservate dei comandi atlantisti, per i quali il protrarsi dell’occupazione militare per almeno altri dieci anni è da dare per scontato, dimostrano una volta di più che la rappresentazione del conflitto diffusa dai media – una popolazione stanca dell’oscurantismo integralista e grata ai benefattori dalla pelle candida venuti a portare sicurezza e assistenza tecnica a un paese martoriato, contro un pugno di fanatici assassini dalle intenzioni apocalittiche, detestati ed isolati – è pura oleografia propagandistica. Ed è incredibile che anche i più primitivi xenofobi di casa nostra o i seguaci acculturati delle tesi di Huntington non si chiedano quale interesse, al di là di ulteriori riconoscimenti del vassallaggio prestato al Gendarme Planetario, possano mai avere l’Europa e l’Italia nel rimanere invischiate in una guerra che, ogni giorno è più chiaro, rischia di obbligarli progressivamente ad un sempre maggiore coinvolgimento sul terreno, che significherà spreco di vite umane e di risorse economiche.

Un altro fronte di crisi in stabile peggioramento è quello mediorientale. La messinscena di Annapolis e la disponibilità di Abu Mazen a piegarsi al ruolo di interlocutore-fantoccio non hanno prodotto alcun passo avanti nella soluzione di una crisi che, del resto, si rivela sempre più insolubile. Israele non intende fare alcuna sostanziale concessione ai palestinesi, e il motivo reale emerge faticosamente, nel consueto silenzio degli organi di informazione: il terrore dei suoi dirigenti che, una volta raggiunto un compromesso attorno alla debole soluzione “due popoli, due Stati”, la bomba demografica accesa al suo interno non possa più essere spenta. La popolazione arabo-israeliana è destinata, a meno di sanguinose espulsioni future, ad accrescersi costantemente, minando il mito del “focolare ebraico”, ovvero dell’unico Stato a fondamento razziale legittimato e sostenuto dalla comunità internazionale. Trovare un modus vivendi con i palestinesi e sottrarli alle tragiche condizioni in cui sono costretti a vivere da oltre quarant’anni favorirebbe un afflusso di esuli nei territori liberati dall’occupazione e creerebbe un effetto di interscambio e contagio con cui Olmert e i suoi non intendono misurarsi. Paradossalmente, il mantenimento di uno stato di ostilità permanente e di reciproca insicurezza è l’unica via per esorcizzare il pericolo. Tanto più che, nei confronti di ogni atto di prepotenza militare israeliano, si tratti della detenzione di un arsenale atomico non dichiarato o degli omicidi mirati e non mirati di cui è costellato il ruolino di marcia quotidiano di Tsahal, la tolleranza degli osservatori esterni è preventivamente assicurata, in virtù di quel complesso di colpa e compassione che il genocidio hitleriano ha generato. Far passare Gaza per una terra retta da governanti illegittimi e totalitari, nascondere il tormento inflitto ai suoi abitanti a suon di embarghi e bombardamenti, dipingere Hamas come una setta di terroristi serve a lasciare le cose come stanno e rafforzare l’immagine, che piace soprattutto a destra, del piccolo popolo indomabile, posto a baluardo della civiltà bianca assediata da torme di arabi infidi, frustrati dalla miseria e inferiori in tutto ai nemici, meritevoli delle umiliazioni subite e pronti ad utilizzare contro chiunque la violenza indiscriminata, unica arma di cui possono efficacemente disporre. Il ricordo degli anni lontani in cui Al Fatah, Settembre Nero o altri gruppi palestinesi esportavano atti terroristici – dirottamenti di aerei e navi, prese di ostaggi, attentati in luoghi pubblici – a sostegno delle proprie rivendicazioni – rafforza la presa sull’immaginario collettivo di questa descrizione squalificante.

Ancora più spudorata è l’unilateralità con cui le salmerie mediatiche dell’armata occidentalista danno conto del contenzioso iraniano. Non bastando i periodici servizi giornalistici sulle violazioni della libertà di espressione di donne, studenti, intellettuali di opposizione, che di tanto in tanto fanno supporre di trovarsi alla vigilia di sommosse popolari di cui non si riscontra poi traccia, o le sottolineature enfatiche di qualche manifestazione di dissenso universitario verso Ahmadinejad che per proporzioni non paiono maggiori della contestazione al previsto intervento papale organizzata a Roma, attorno alla vicenda delle attività di ricerca e produzione di energia nucleare svolte in Iran si è montata un’impressionante campagna disinformativa, che nemmeno il rapporto della Cia sull’inconsistenza di un pericolo di costruzione di bombe atomiche ha placato. Pur smentito dalla sua intelligence, Bush ha insistito nell’alternare allarmi e minacce di interventi militari preventivi, delegittimando l’Aiea – contro il cui direttore, l’egiziano El Baradei, Israele ha puntato il dito accusatore, valendosi di quella tecnica del pregiudizio di cui non si stanca di denunciare le applicazioni ai propri danni – e spronando i partners europei a irrobustire, contro ogni loro convenienza, le sanzioni contro Teheran. La grancassa comunicativa ha fiancheggiato questa strategia ignorando sistematicamente la sproporzione di forza d’urto esistente fra la Repubblica islamica, che di ordigni atomici ad oggi certamente non dispone, e lo Stato ebraico, che ne ha uno stock la cui consistenza oscilla a seconda delle valutazioni fra le venti e le duecento testate, e facendo passare gli infervorati appelli di Ahmadinejad a “cancellare Israele dalla carta geografica” sostituendolo previa referendum delle popolazioni locali con uno Stato plurietnico e pluriconfessionale, per incitamenti ad un nuovo “olocausto”. Né sono mancate le insinuazioni, di cui non è possibile accertare la fondatezza, sull’attivismo di Teheran nel rafforzare gli arsenali libanesi di Hezbollah, parallele a quelle sulla presenza dietro ogni strage compiuta a Beirut dei servizi segreti siriani (assai più efficienti, a quanto pare, del Mossad, certamente interessato al clima creatosi dopo ciascuno degli omicidi eccellenti, ma evidentemente non in grado di mettere a segno simili colpi…). L’immagine di un Iran-Spectre, centrale del mai dimenticato asse del Male, si è così stabilmente insediata nelle menti di molti cittadini dei paesi europei, preparandoli, se sarà il caso, ad accogliere benevolmente l’assalto dal cielo dei bombardieri statunitensi, israeliani o della Nato alle ipotetiche fabbriche di morte e terrore.

Infine, nella rete della strategia persuasiva imbastita dai centri di potere legati all’egemonia statunitense, ha riacquistato un peso non secondario la demonizzazione di un nemico per qualche tempo dimenticato: la sempreverde Russia. Le ripetute attestazioni del desiderio di Vladimir Putin di riportare gradualmente il suo paese ad un ruolo di potenza internazionale di primo piano hanno avviato gli automatismi del meccanismo, e quanto più si accumulavano le dichiarazioni del “nuovo zar” sui progressi della tecnologia militare russa, i suoi distinguo nella strategia di accerchiamento dell’Iran, il suo rifiuto ad accettare passivamente gli scacchi che gli Usa cercano di infliggergli quasi alle porte di casa – in Kosovo, in Ucraina, in Georgia, in attesa di poterlo fare anche in Bielorussia – tanto più s’intensificava la virulenza delle critiche al suo autoritarismo. I peraltro spesso improbabili avversari interni, sebbene palesemente non dispongano di una mole consistente di consenso, sono stati promossi a stelle di prima grandezza e a martiri della libertà; tutti i delitti più oscuri maturati nel poco frequentabile sottobosco della politica moscovita – da Politskovskaja a Litvinenko – gli sono stati personalmente addebitati; l’innegabile popolarità di cui gode è stata descritta come una minaccia allo sviluppo della democrazia. Perfino le scelte di ingegneria istituzionale (il presidenzialismo) ed elettorale (un sistema proporzionale con elevata soglia di sbarramento) fatte dal paese, la cui traslazione nello scenario susciterebbe l’entusiasmo delle quasi totalità degli opinion makers, sono state esecrate perché foriere di una svolta plebiscitaria. Il passaggio del poco arrendevole Putin da una funzione di vertice all’altra, tutt’altro che infrequente nei regimi liberali – qualcuno si ricorda degli incarichi ricoperti da Chirac? – è stato presentato sotto le sembianze di un golpe inconfessato.

Insomma: anche per distogliere l’attenzione dalla fragilità strutturale che molte democrazie europee stanno manifestando di fronte alla pressione di circostanze inattese (crisi economiche, perdita di credibilità di classi dirigenti e istituzioni, frantumazione delle identità culturali, crescita di anomia e criminalità), ma prima di tutto per favorire, in un momento di difficoltà, lo sviluppo dei progetti egemonici di quella che vorrebbe accreditarsi come l’unica superpotenza mondiale, l’apparato propagandistico dell’ideologia occidentalista liberale ha lasciato libero corso alla propria potenza, con uno sforzo che ha pochi precedenti. E il suo “volume di fuoco” ha ottenuto non pochi dei risultati sperati.

Occorre rassegnarsi a questo stato di cose? O addirittura assecondarlo, perché, come sembrano credere non pochi sedicenti ribelli alla società del materialismo, delle ingiustizie sociali e dei consumi di qualche anno addietro, convertitisi in età meno fresca ad un’abborracciata filosofia del meno peggio, quello in cui viviamo in “Occidente” è, malgrado i suoi difetti, il migliore dei mondi oggi possibili, che va preservato dalle invidie e dalle insidie che gli rivolgono i dannati della Terra?

La nostra risposta negativa a questi interrogativi non è motivata da un istinto irrazionale. Si basa sulla razionale riflessione suscitata da un’altra, diversa domanda: a chi giova realmente la politica che, grazie alla copertura del mito occidentale, gli Stati Uniti e i loro accoliti svolgono a livello planetario, e a quali esiti sta conducendo? Non, certamente, all’Europa, che facendo da scudo all’amministrazione nordamericana accumula ostilità e diffidenze in un’area del mondo, quella mediorientale, con la quale la geografia la obbliga a convivere in situazione di vicinato e i flussi migratori la pongono sempre più drammaticamente a confronto. La storia dovrebbe averci insegnato che gli atti di arroganza colonialista e imperialista provocano, inevitabilmente, distruttivi effetti di ritorno per chi li ha compiuti: perché dunque il Vecchio Continente dovrebbe pagare il conto delle umiliazioni e dei lutti che i governanti di Washington infliggono a palestinesi, iracheni, afghani, forse domani iraniani, e più in generale agli arabi e ai musulmani? E che interesse avrebbe, l’Europa, a seguire gli Usa nella riapertura di un contenzioso con la Russia, che, una volta tramontati gli appetiti dettati dalle pretese universalistiche implicite nell’ideologia comunista, ha tutte le caratteristiche adatte a farne il più naturale alleato dei vicini dell’Ovest in un futuro scenario multipolare in cui le altre grandi potenze – Cina e India su tutte – si collocheranno sull’opposto scacchiere geografico e geopolitico? È presto detto: non ne avrebbe nessuna convenienza.

Certo, molti fattori culturali e psicologici impediscono a gran parte dei cittadini europei di cogliere questa elementare realtà. I giornali, le radio e le televisioni che si ostinano a recitare la messinscena dello scontro di civiltà, a inventare il tormentone del nemico islamico, a promuovere a protagonisti del reality show al quale molto spesso si riduce in sostanza la loro “informazione” i buoni difensori dell’Occidente e i cattivi maestri con barba e turbante, sfruttando i loro legittimi timore di fronte ai frutti avvelenati della globalizzazione e dell’immigrazione, hanno buon gioco. E finché continueranno a vedersi riconoscere credibilità quando fanno passare per terroristi i combattenti di guerre asimmetriche, o quando diffondono allarmi su complotti o attentati che mai si verificheranno per convincerci che “dopo l’11 settembre siamo tutti americani”, cioè tutti egualmente esposti agli effetti boomerang delle azioni aggressive che gli Usa hanno posto in atto da quando non sono stati più soggetti ai vincoli dell’equilibrio bipolare internazionale, avranno buon gioco nel centrare il bersaglio.

È un buon motivo per rassegnarsi? Sicuramente no, per chi sa guardare al di là delle cortine fumogene della disinformazione e coglie senso e sostanza della posta in gioco nel conflitto, ancor più asimmetrico degli altri per la dismisura delle forze in campo, che è in atto fra l’occidentalismo e i suoi oppositori. Il cui primo dovere è recare ovunque sia possibile parole di verità: denunciare, documentare, smascherare. Per non doversi poi sentire complici dei disastri che il fanatismo ideologico liberale e i disegni politici di chi se ne avvale stanno seminando, e continueranno a seminare, sul nostro pianeta.