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Nel secolo scorso perduti i tre quarti della biodiversità rurale

di F. T. - 20/03/2008

Fonte: vglobale



 

Secondo la Fao in Messico risulta oggi presente solo il 20% delle varietà di cereali che esistevano negli anni Trenta. Negli Stati Uniti circa il 95% delle varietà di cavolo e di piselli sono ormai scomparse

Grandissima è la varietà del mondo vegetale, al punto che forse non riusciremo mai a scoprirne, denominarne e conoscerne ogni componente: ma non meno stupefacente è la ricchezza di piante coltivate, dalle varietà di frutta plasmate in millenni di impegno contadino, ai cultivar floreali variopinti, dove esplode la fantasia incontenibile dei vivaisti.
Senza addentrarci nelle cripte segrete delle piante inferiori (batteri, alghe e microfunghi), si potrebbe azzardare una stima approssimativa di circa 300mila specie vegetali già note e denominate, ma l'approfondimento nelle terre estreme, soprattutto zone tropicali pluviali, riserverà ancora parecchie sorprese.
E che dire poi dell'agrobiodiversità, oggi meglio definibile come agrocriptobiovarietà? Trascurata, disprezzata e quasi cancellata deliberatamente, la ricchezza di varietà di piante utili all'uomo, coltivate perché commestibili o per altri usi, sta oggi finalmente tentando di riconquistare il ruolo che le compete di diritto nel campo agricolo, gastronomico, ecologico, economico e culturale.


La perdita di biodiversità

La diminuzione delle varietà coltivate è impressionante. Secondo studi della Fao nel secolo scorso sono andati perduti almeno i tre quarti della biodiversità delle colture. Per fare un esempio, in Messico risulta oggi presente solo il 20% delle varietà di cereali che esistevano negli anni Trenta. Negli Stati Uniti circa il 95% delle varietà di cavolo e di piselli sono ormai scomparse. E, come vedremo, nelle campagne italiane la situazione non è certo più brillante...
Eppure è proprio da queste piante, rivalutate e sostenute, che potrebbe dipendere una parte del nostro futuro. Per la loro capacità di adattamento, in un mondo ormai pervaso dai cambiamenti climatici. Per la resistenza a caldo e siccità, a inquinamenti e stress, a infestazioni di parassiti e attacchi di fattori avversi. In una situazione nuova e difficile, in condizioni mutate e imprevedibili, vi sono sempre piante capaci di vegetare e sopravvivere, se si saprà capirne il valore e rispettare la loro importanza.
Ma siamo proprio sicuri che le tendenze attuali, troppo spesso spacciate per benefiche, moderne e apportatrici di progresso, vadano nella direzione giusta?

Globalizzazione dei mercati, caratteristiche commerciali omogenee, prolungati trasporti ed eccessive permanenze in frigoriferi cancellano, passo dopo passo, la parte sostanziale migliore di un frutto: profumo e sapore, vitamine e consistenza. Restano spesso soltanto un bell'aspetto, un'apparenza formale cui purtroppo si associano polpe insapori, vuoti acquosi e marciumi precoci. Non sempre, insomma, la perfezione estetica d'un frutto è accompagnata (ormai lo hanno capito anche i bambini) dalla elevata qualità organolettica. Né diversa è la situazione della verdura, dei legumi e dei cereali.
La corsa alla monocultura e agli Ogm favorisce nettamente il grande affarismo, l'esplosione dei parassiti e lo spargimento di veleni. Minaccia la biodiversità e non va certo incontro al gusto, alle tradizioni e alla stessa matrice storica e culturale dei luoghi. E, fatto ancor più grave e innegabile, distrugge la piccola agricoltura, emargina la microimpresa semi-familiare, smantella l'equilibrio millenario tra l'uomo e la terra. A metà del secolo scorso, l'Italia contava circa metà della popolazione impegnata nell'agricoltura, oggi si calcola ne abbia appena il 5%.


Piccoli segnali di controtendenza

Nel frattempo, qualche timido segno di inversione di tendenza sboccia qua e là, e potrebbe forse annunciare cambiamenti sostanziali. Molte risorse genetiche dell'agricoltura tradizionale tornano all'attenzione della pubblica opinione, e un recente studio dell'Università di Perugia ha accertato che, soltanto nell'Italia Centrale, esistono oltre 500 varietà autoctone di piante coltivate minacciate di estinzione. Molte di queste, se salvate e utilizzate con intelligenza, potrebbero sopperire ai nuovi, crescenti bisogni d'un Paese che fu agricolo, ma che potrebbe ben presto essere costretto a importare, anche da lontano, gran parte dei prodotti commestibili.
Eppure c'è chi ha già intrapreso un viaggio in senso contrario. Alla Cornell University di Ithaca, New York, sono stati utilizzati geni provenienti dall'America Latina per creare una patata resistente alla piaga della ruggine, la malattia che causò la carestia e la fuga dall'Irlanda nel secolo Diciannovesimo. E la Fao, insieme all'Onu, ha dichiarato il 2008 l'Anno della Patata, vero «tesoro interrato» per sfamare il mondo del futuro. Si sa che si tratta di un cibo povero ma prezioso, coltivato nelle Ande per 8mila anni e capace di offrire anche ai popoli meno ricchi una quantità adeguata di proteine vegetali, glucidi, vitamine e potassio. Finalmente, nel 2004, il Trattato internazionale delle Nazioni Unite sulle risorse fitogenetiche ha costituito una nuova rete globale per raccogliere e inventariare i semi delle piante più utili, rare e minacciate.


Le cause dell'abbandono

Ma questi accordi ad alto livello, queste ricerche d'eccellenza saranno davvero sufficienti a scongiurare la perdita di risorse tanto preziose? Una normativa e molte indagini scientifiche biologiche e genetiche hanno la forza di raddrizzare il corso, tanto deviato, della storia? Appare evidente che, in realtà, occorre molto di più: è necessario incidere sulle vera cause del cambiamento, alcune delle quali sono ben note, mentre di altre sfugge ancora la percezione viva e diretta.
La prima causa risiede nella fuga dall'agricoltura, nell'abbandono di campagna e montagna, nell'inurbamento disordinato e precipitoso, un massiccio fenomeno in cui non è facile rallentare, né regredire.
La seconda causa sta nell'insipienza di una politica agraria incapace di offrire richiami, incentivi e sostegni adeguati a coloro che vorrebbero, sia pure in termini innovativi compatibili con il tempo attuale, ricreare un positivo rapporto con la terra.
Una terza ragione, non a tutti evidente, è data dalla rinuncia a inserire la grande immigrazione, regolare o clandestina, in ampi programmi pluriennali di lavoro agricolo per rianimare ambienti e territori languenti. Evitando così a molti esseri umani meno fortunati l'attuale salto repentino dal Terzo mondo alla nostra attuale realtà metropolitana e postindustriale, consumista e diseducativa, con tutte le disastrose conseguenze ben note: emarginazione, disagio, abusi e reati di ogni genere, e in definitiva mancata integrazione.

Checché ne pensino e dicano gli economisti tradizionali, non è dalle mega-imprese e dalle grandi opere pubbliche che potrà giungere una speranza di cambiamento, ma dalle micro-aziende semifamiliari capaci di operare in sintonia, con visione aperta e creativa, dando via a un vero e proprio «sistema cooperativo» forte e organizzato. Occorre salvare semi, costituire vivai, istituire riserve di agrobiodiversità, incoraggiare gli anziani coltivatori in ogni modo possibile e offrire ai giovani che non vogliono abbandonare la terra incentivi anche fiscali, crediti adeguati, assistenza qualificata.
Al tempo attuale, la diversità genetica rischia di essere annientata proprio nel momento in cui se ne incomincia a comprendere l'utilità. Non invertire questa rotta sarebbe davvero un errore imperdonabile. Il grande padre dell'agricoltura biodinamica, Masanuda Fukuoha, era solito affermare: «Dopo Dio, viene il contadino». Forse è giunto il momento di ripensare a fondo il mondo in cui viviamo, e di ricercare le vere, antiche e profonde radici della nostra civiltà.